lunedì 30 dicembre 2019

8 La società civile e i palazzi dell’opera Capitolo 8 de il manifesto degli incivili


Intervistata dal Giornale Cecilia Bartoli dichiara  Nei teatri italiani troppi privilegi: vanno licenziati tutti”, “Se accetterei la direzione di un teatro italiano? «A patto di poter licenziare tutti e ripartìre da zero. Probabilmente la strada è proprio questa: fare un po’ di pulizia generale”. 
Forse ha ragione con l’esigenza di ripartire da zero. Forse sul suo giudizio influiscono l’enorme considerazione di cui gode all’estero e la disattenzione di cui è oggetto in Italia.
Certamente la visuale da cui Cecilia Bartoli guarda ai problemi della lirica italiana è di parte. Lei fa parte di quelle persone che dalla lirica trae fama, ricchezza e vita brillante. Fama e ricchezza e vita brillante che a parte qualche eccezione sono pagate a caro prezzo anche da coloro ai quali la lirica, o più in generale la cosiddetta musica classica operistica, non piace, a favore di coloro che nella lirica lavorano e dalla lirica ricavano emolumenti generosi. L’opera come dice un ministro italiano dà da mangiare ma non certo a tutti. A me come a molti altri, che amano la lirica ma non lavorano nel campo e non frequentano i teatri, la lirica non solo non dà da mangiare ma esige voracemente e incessantemente danaro che pesca delle nostre tasche. Io e quelli come me devono dirlo chiaro: coloro che frequentano i teatri lirici e di prosa sono parassiti: metà, più di meta del loro biglietto lo paghiamo noi. Perché dovremmo continuare a farlo? Se lo paghino loro come pagano, i pomodori, gli aperitivi, i taxi e via dicendo, paghino anche gli spettacoli senza chiedere i nostri soldi.   
Il problema degli enormi e abnormi costi economici della lirica e del teatro di prosa ingenerale è scandaloso e la maniera con cui addiviene ancora più scandalosa. Forse se i cosiddetti artisti che la attuano sarebbero meno esosi e meno pronti a reclamare e reclamare soldi e finanziamenti, brandendo l'inno dell' arteartearte, culturaculturacultura contro una supposta barbarie, contro una supposta ignoranza di chi si scandalizza di fronte a questa situazione e che non vuole più pagare per i loro sollazzi.
Il regista Strehler
Anni fa, l’Italia meloname, pronta a gustarsi in televisione il Don Giovanni di Mozart, fu schiaffeggiata e oltraggiata dal regista Strehler che rifiutò alla RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA la possibilità di trasmettere l’opera. La motivazione addotta da questo novello dio della regia fu che i fari della tivù rovinavano la sua regia, il suo Don Giovanni. La tivù trasmetteva il Don Giovanni, quello composto da Mozart, non quello inesistente, composto da Strehler, ma per il regista, nelle dichiarazioni e nelle motivazioni, tranquillamente accettate e ripetute da giornalisti e commentatori, era il suo Don Giovanni.
Naturalmente Strehler intendeva con espressione semplificata il Don Giovanni di Mozart con la sua regia, ma è significativo che tale semplificazione sia stata tranquillamente accettata. Ancor più significativo che abbia avuto un potere così assurdamente grande da bloccare la trasmissione. Per chi poi? Per un teatro molto probabilmente composto da Vip, da invitati, da megafunzionari, da personaggi del Gossip e da politici. Tutta gente ben pronta a brandire con ostentata solennità la parola “Arte” a spese nostre. Un brand l’evento opera, un brand l’evento opera alla Scala, un brand la Regia di Strehler!
Il potere estetico manifestò allora la sua potenza, appoggiandosi a una potente ed esosa organizzazione "culturale" capace di imporre se stessa, le sue gerarchie, le sue cariche, i suoi stipendi. Una gerarchia esosa, pretenziosa, perpetuamente mobilitata a chiedere soldi e mammelle di stato a cui attaccarsi, un'organizzazione perpetuamente in stato di esibizione dei propri meriti artistici, presentati come preziosi balsami di dignità civile, come ultimi salvifici bastioni contro la barbarie e in difesa della civiltà, contro la società del denaro e dell'ignoranza.

Il regista Strehler
Anni fa, l’Italia meloname, pronta a gustarsi in televisione il Don Giovanni di Mozart, fu schiaffeggiata e oltraggiata dal regista Strehler che rifiutò alla RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA la possibilità di trasmettere l’opera. La motivazione addotta da questo novello dio della regia fu che i fari della tivù rovinavano la sua regia, il suo Don Giovanni. La tivù trasmetteva il Don Giovanni, quello composto da Mozart, non quello inesistente composto da Strehler, ma per il regista, nelle dichiarazioni e nelle motivazioni, tranquillamente accettate e ripetute da giornalisti e commentatori, era il suo Don Giovanni.
Naturalmente Strehler intendeva con espressione semplificata il Don Giovanni di Mozart con la sua regia, ma è significativo che tale semplificazione sia stata tranquillamente accettata. Ancor più significativo che abbia avuto un potere così assurdamente grande da bloccare la trasmissione. Per chi poi? Per un teatro molto probabilmente composto da Vip, da invitati, da mega-funzionari, da personaggi del Gossip e da politici. Tutta gente ben pronta a brandire con ostentata solennità la parola “Arte” a spese nostre. Un brand l’evento opera, un brand l’evento opera alla Scala, un brand la Regia di Strehler!
Il potere estetico manifestò allora il suo potere appoggiandosi a una potente ed esosa organizzazione "culturale" capace di imporre se stessa, le sue gerarchie, le sue cariche, i suoi stipendi. Una gerarchia esosa, pretenziosa, perpetuamente mobilitata a chiedere soldi e mammelle di stato a cui attaccarsi, un'organizzazione perpetuamente in stato di esibizione dei propri meriti artistici, presentati come preziosi balsami di dignità civile, come ultimi salvifici bastioni contro la barbarie e in difesa della civiltà, contro la società del denaro e dell'ignoranza.






venerdì 27 dicembre 2019

Fi. IL dio laico Risposta al post di Giorgio Lecchi (Face, 4 aprile) - Secolarizzazione di Gesù - Ugo da san Vittore



 Chiedendo scusa, pubblico,uno della ventina di post, scomparsi dalle bozze anni fa e ora ricomparsi,  lo faccio perché ancora ne condivido i concetti.

Pur essendo non credente, non posso non constatare che il post di Giorgio Lecchi (Face, 4 aprile) dipinge un mondo radicalmente diviso tra valori positivi (laicità, democrazia, cultura, scienza, tolleranza) e valori negativi (verità e fanatismo religioso). Ma le cose non stanno affatto così. Le atrocità del Nazismo, dei vari fascismi, del Comunismo, il loro stermini di massa, le loro persecuzioni dei dissidenti, i loro delitti non erano certo ispirati dal dio cristiano ma dai vari dei secolarizzati strappati dal cielo e insediati sulla terra nella forme del Dio nazionalismo, del dio Comunismo, del dio nazifascista, con il loro corredo di verità assoluta di fronte alla quale non si poteva che obbedire. 
Ho analizzato in un altro scritto postato in questo gruppo la struttura comune a queste divinità celesti e secolarizzate. Le atrocità dei fedeli del dio cristiano che ha regnato per secoli, imponendo le sue persecuzioni sono state compensate dalla indicibili crudeltà degli dei non cristiani in quel cinquantennio in cui hanno regnato, tanto da far apparire i fanatici cristiani e maomettani del passato e del presente quasi dei”dilettanti”del delitto e della perversione.
Il comportamento di questi dei verso la scienza e verso la conoscenza in generale non è stato diverso dai loro cugini del passato; non solo il Nazismo proibiva e bruciava i libri ma anche il Comunismo. Anche queste divinità “laiche” subordinavano la scienza alla dottrina. Non possiamo certo ignorare che nella Russia sovietica per motivi ideologici Lamark fu promosso e Darwin bocciato, che Freud fu bandito, e che perfino la relatività di Einstein, dopo mesi di attento esame, fu accettata dall’apposita commissione che, bontà sua, la certificò, non per il suo valore scientifico, ma perché non in contrasto con il libro sacro di Marx corretto dal suo profeta Lenin.
Anche l’infame strage (la seconda, quella terribile e sanguinaria) dei Armeni in Turchia non fu una strage ispirata dal dio Maometto contro il Dio cristiano, ma dall’ideologia laica e nazionalista dei “giovani Turchi”. Anche l’altrettanto infame strage delle foibe non fu una strage tra fedeli di diverse chiese ma tra diversi nazionalismi (italiano e slavo) o diverse ideologie politiche (comunismo e fascismo)

Il fenomeno della secolarizzazione è spesso chiamato in causa in riferimento al concetto di laicità ma la secolarizzazione del divino ha molti volti.
Uno degli aspetti più spettacolari e riusciti fu l’omologazione di Gesù Cristo a precursore del socialismo. Un’omologazione che finì per conquistare anche numerosi credenti e gruppi ecclesiali votati all’aiuto dei poveri, alle pratiche di soccorso e solidarietà e particolarmente sensibili tanto alle sofferenze delle classi e dei popoli oppressi che alle esigenze egualitarie portate avanti dal socialismo.
Ma per i veri credenti, per i quali il cristianesimo è una religione con un Dio trascendente che ha parlato alle sue creature attraverso il Libro, nulla è più inaccettabile che la riduzione dell’azione di Cristo alla sua predicazione sociale. Il centro sacro, il fondamento della fede cristiana non sta nella supposta predicazione rivoluzionaria, ma nel sacramento dell’incarnazione. Cristo non è un precursore di Marx ma è il Dio che si è incarnato in terra per redimere l’uomo dal peccato originale.

Prima di Ugo da S. Vittore i padri della chiesa nei loro commentari alla Bibbia seguivano la loro fonte non solo nel contenuto ma anche nella forma. Una forma che partendo dalla creazione del mondo proseguiva fino all’avvento del Cristo e alla finale resurrezione della carne, seguendo, in forma narrativa, il cronico susseguirsi degli eventi storici dei rapporti fra Dio e il suo popolo e deducendo da questi le leggi della fede.
Ugo capovolse la tradizione e volle presentare il cristianesimo iniziando dal suo evento religioso più sacro e fondamentale, ossia dall’incarnazione.

“Il centro della Cristianesimo, dice Ugo, è Dio che s’è incarnato e fatto uomo per salvare noi peccatori in questa vita sulla terra. Il Verbo fattosi uomo è il nostro re che è venuto in questo mondo per combattere il demonio; tutti i santi sorti prima della sua venuta sono stati i precursori di questo re; tutti i santi venuti dopo di lui e che ancora verranno sono una schiera di guerrieri che seguono il loro re. Ma il re, Lui, sta in mezzo al suo esercito e procede con esso attorniato e circondato da ogni lato dalle schiere di soldati. E anche se in questa folla, appaiono diversi tipi di armi, cioè se diversi sono i sacramenti e i costumi dei popoli che hanno preceduto o seguito Cristo, tuttavia tutti quanti militano per il solo re e seguono un solo comandante, combattono il medesimo nemico e ricevono una medesima corona vittoriosa.”. (Ugo da S.Vittore, De Sacramentis, Prologo, libro 1.)

Con questo incipit Ugo di San Vittore non cambia solo l’ordine degli eventi né pone solamente in primo piano l’evento più sacro e centrale della fede, ma compie qualcosa di più profondo. Cristo avanza come un re e un conquistatore e le sue truppe non sono solo i suoi fedeli ma anche gli uomini saggi e buoni vissuti prima di lui. Tutti partecipano di quel sacramento, ci dice Ugo: l’incarnazione non fu un evento; non fu, cioè, un accadimento in un preciso tempo della storia con un inizio e una fine, ma fu atemporale: nell’incarnazione di un dio eterno e infinito, si realizza l’incontro fra l’eternità e il tempo, un’unione che unifica i secoli e riporta in un eterno presente il passato e il futuro.
Tutto ciò che accadde nel tempo dell’incarnazione di Cristo, continua ad accadere ed è sempre accaduto in ogni istante del passato; il sacrificio dell’incarnazione e la redenzione accadevano fin dall’inizio dei secoli, accadevano in Grecia ai tempi di Socrate, Platone, Aristotele, continuano ad accadere oggi così come accadranno in futuro. Il corpo di Cristo è sempre coi suoi fedeli e lo sarà in futuro fino alla fine dei tempi.

I veri credenti, coloro che non leggevano il Nuovo e Vecchio Testamento solo per ritrovare le tracce delle loro personali convinzioni, non poterono che sentire come scandalosa riduttiva e dissacrante un' identificazione di Cristo come precursore di Marx. Del resto interpretare teorie, dottrine, miti, divinità, testi sacri di una cultura sotto le lenti deformanti di un’altra non può che portare falsificazione sistematica. Levinas inorridisce a vedere il Dio biblico letto attraverso le lenti della filosofia razionalistica greca. Come il dio della Bibbia non è quello filtrato attraverso le teorie di Aristotele, di Platone o di Socrate, così il Cristo precursore di Marx non è il vero Cristo. I Teologi, i filosofi, i padri della chiesa filtrarono il Dio del Nuovo e del Vecchio Testamento attraverso le filosofie di Platone, Aristotele ma il loro Dio s’ibridò col mondo delle idee e col Demiurgo di Platone, con la metafisica di Aristotele, con la sfera emanante Plotino.
I padri della chiesa assimilarono alla loro fede la filosofia greca e ne furono a loro volta assimilati e colonizzati. Assimilare significa digerire il simile, rendere simile il dissimile espellere come rifiuto inutilizzabile il non assimilabile. L’assimilazione è la forma con cui conosciamo, la forma generale della conoscenza. La riduzione di una teoria ad un’altra, sia che si parli di riduzione della matematica alla logica, sia che si parli di riduzione di Gesù a precursore di Marx, è una delle forme in cui avviene l’assimilazione. Assimilare significa conquistare e perdere[1].
Nonostante tutto, dobbiamo ammettere che il problema affrontato da questi pensatori e teologi era reale; un problema di comprensione, di comunicazione, di conciliazione con teorie di pensatori verso i quali molti uomini di fede nutrivano un’ammirazione sconfinata. Tutto ciò implicava la conciliazione del Libro con la sapienza testimoniata da quei grandi pensatori e, indirettamente, la conciliazione del loro Dio con la ragione, che, donata da Dio agli uomini come strumento per comprendere il mondo, trovava il suo uso più elevato quando, come condizione di comprensione e comunicazione reciproca, si innalzava verso Dio, rischiando inevitabilmente la profanazione. Ne furono ben consapevoli personaggi come San Bernardo, nemici acerrimi di questa razionalizzazione che, secondo loro, rasentando l’eresia, si macchiava di quello stesso peccato di superbia, commesso da Lucifero e da Adamo.

Le vie della secolarizzazione e la struttura del dio.

La secolarizzazione viene usualmente intesa come un depotenziamento del sacro, come una relativizzazione della verità, come una reazione al fanatismo religioso e alla terribilità del dio delle persecuzioni, dell’inquisizione, della caccia alle streghe, delle sanguinose guerre ermeneutiche e contemporaneamente come un approdo a una cultura laica e tollerante ma questo non è il suo unico volto. La morte di Dio non è solo il rifiuto di quel Dio trascendente che domina le nostre coscienze, che ci incute paura, che ci spinge ad armarci per difendere la fede e annientare i suoi nemici ma, al contrario, è anche stata ed è tuttora, troppo spesso una sostituzione.
Molti uomini non possono essere privati della loro fede. Quella fede, quella religione, quel Dio sono per costoro sistema d’orientamento, interpretazione del mondo, fondamento e legge morale: un’ancora solida come una roccia a cui aggrapparsi. La verità assoluta, la giustizia assoluta, l’ordine delle leggi, la garanzia della stabilità del mondo, della morale, il senso stesso del vivere.
Per costoro, per chi ha ereditato, vissuto, metabolizzato quell’architettura di certezze, ritrovarsi senza Dio, senza fondamento, senza certezza di verità, significa essere deportati in un mondo alieno, senza senso, giustizia e verità. La loro vita galleggia sul nulla, perde ogni certezza, perde il suo senso: senza di quel sistema di certezze non possono vivere. Anche se convinti della morte di quel Dio, si ritrovano alla ricerca ansiosa delle certezze perdute e del Dio perduto e sono pronti alla sua sostituzione.
E qual migliore sostituzione del vecchio e screditato dio trascendente con un Dio immanente che ripristini sulla terra quella verità, quella architettura e quel senso? Metaforicamente il vecchio dio morto viene rivitalizzato e trascinato in terra con tutta la sua architettura di solide certezze, per assumere il nome di Dio Nazionalismo, dio Nazismo, dio Comunismo.
Il Naphta della Montagna incantata giunge a contrapporre alla visione di un Settembrini, democratico, disincantato e laico, la visione di uno stato armonioso in cui Comunismo e religione cristiana si sono integrati per costruire uno stato etico che realizzi, con la Volontà Generale, il regno di Dio sulla terra. Pur essendo il personaggio di un romanzo, Naphta impersona le aspettative dei tanti, che hanno sentito nel passato e sentono nel presente la necessità di anticipare sulla terra l’addivenire della giustizia divina con le sue compensazioni di pene e di premi, con quella giustizia, con quella esaltazione degli umili e quell'umiliazione dei superbi che il Libro garantisce solo nell’al di là.
La filosofia di Tieiard de Chardin è ancora più visionaria. Partendo dall’incarnazione redentrice di Gesù, presente in ogni istante della vita dell’uomo, interpreta il cammino della civiltà umana come un eterno progresso, una continua conquista di conoscenze e di moralità che avvicina l’uomo a Dio, come se la promessa di redenzione fosse la metafora di un destino di perfezionamento, il cui esito è l’identificazione dell’umanità col suo Dio.
Il termine ‘secolarizzazione’ copre, dunque, un vasto ambito di senso. Da una parte si parla di ‘secolarizzazione’ come di un processo di perdita d’importanza, di indebolimento, di marginalizzazione del divino, dall’altra come di una vera e propria umanizzazione del divino, una sostituzione del vecchio Dio con un nuovo Dio o, più, metaforicamente di un trasporto del divino dal cielo alla terra, con ideali e ideologie terrene ma altrettanto terribili. Da una parte un depotenziamento, dall’altra una mutazione del divino ma senza alcun depotenziamento: il Dio viene portato dal cielo alla terra, pur conservando la terribilità, la grandezza e il potere posseduti in cielo.





[1] L’argomento è trattato nel post E. Saia Linguaggio e informazione, verità e falsità: il travisamento della natura informativa delle teorie della rivista Critica Impura Linguaggio e informazione, verità e falsità: il travisamento della natura informativa delle teorie.
Semplificando Parlerò di modelli e teorie per analizzare la loro natura informativa, Sono modelli di un edificio sia 1) un plastico in scala, che 2) una serie di equazioni strutturali che ne descrivono le condizioni di equilibrio statico, ecc.
 Accettata questa pluralità dei modelli si pone il problema del tipo di relazioni esistenti fra i vari modelli, e l’oggetto cui si riferiscono.  Se usiamo come modello per un edificio un plastico tridimensionale che ne riproduce in scala la geometria, da esso possiamo risalire alle misure dell'oggetto e così via. In sostanza seguendo le procedure codificate, possiamo porre certe domande e ottenere risposte;
Se le domande riguardano la tenuta di un solaio, non interrogheremo il modello plastico, ma un modello strutturale che, se adeguato, disporrà di procedure e calcoli che ci permettono di ottenere una risposta. Anche il modello strutturale non è però un modello totale (informazione completa). Non potrà informarci, ad esempio, né sul colore delle pareti né sul numero delle finestre.
Ogni modello è, quindi, un'organizzazione di alcuni tipi d'informazione, ma non di tutti; teorie e modelli, sono sistemi organizzati d’informazioni progettati in funzione delle informazioni volute. Il complesso dei fini e delle disponibilità conoscitive ne determinano la struttura.
Questo è fondamentale: un modello non può contenere tutte le informazioni dell'oggetto di cui è modello. Il modello totale di un sistema è solo il sistema stesso: l'unico modello totale di un edificio è l’edificio stesso.
Non si può risalire da un modello a un sistema nello stesso senso in cui non si può risalire da un plastico all'edificio originale. Modellizzare, teorizzare è, in certo senso, conquistare e perdere dove la perdita di informazioni è connaturata con la procedura per formarle. Il modello totale dell'oggetto, del sistema, del mondo non può essere che l'oggetto, il sistema, il mondo. Ogni modello, ogni teoria rivelano in quanto danno accesso a informazioni e perdono in quanto è la stessa procedure d’accesso a comportare perdita di altre informazioni. Che una conquista comporta una perdita è una caratteristica universale delle teorie e dei modelli.
Non mi dilungo se non per avvertire che userò il termine ‘Assimilare’ per indicare il procedimento di modellizzazione e teorizzazione sul mondo. L’assimila, infatti, utilizzando il simile rendendo per quanto è possibile il dissimile e perdendo ciò che non si può assimilare.

lunedì 23 dicembre 2019

FIL L'evoluizione, l'arte e il senso "PER ALTRO"


Per ampliare l'orizzonte della riflessione sul linguaggio e sull'arte in genere forse è utile brevemente ripensare e ripercorrere i comportamenti dei gruppi di cacciatori e raccoglitori che sopravvissero esercitando la caccia e la raccolta. Caccia e raccolta attuata da singoli individui che convivevano in tribù e collaboravano fra loro creando all’interno dei gruppi rapporti di coordinazione e di subordinazione che non potevano certo limitarsi alle ore di caccia. La sopravvivenza dei singoli avvenne all’interno di questi gruppi di individui che interagivano collaborando nella preparazione delle strategie di caccia, nella loro attuazione, nella progettazione e costruzione delle armi e nella distribuzione dei compiti. Tutte operazioni che consentivano ai singoli di formare unità capaci di portare a buon fine la caccia e, più in generale, la sopravvivenza, come se il gruppo fosse una singola entità di esseri/organi collaboranti in sincronia.


La pressione selettiva agì sui gruppi e, attraverso questi, sui singoli. Le varianti incapaci di accettare la collaborazione o di collaborare non sopravvissero. Non sopravvisse il singolo individuo percepente tanto caro ai filosofi ma l’uomo sociale, l’uomo bifronte capace di divenire parte di un organismo-gruppo efficiente.
Per l’interagire e l’agire per il successo, che non fu ovviamente limitato alla caccia, ma che si estese, più in generale, alla sopravvivenza, fu fondamentale il formarsi di una serie di comportamenti che si esprimevano e concretizzavano in azioni coordinate di collaborazione in condizione di parità e in operazione di subordinazione, decisione, comando, con stabilizzazione del concetto politico di organigramma. Questa interazione di soggetti in contrapposizione/armonia fra loro si caratterizza come attività politica.
Gli individui accedevano alla varie posizioni secondo leggi emerse da quell’interagire di sopravvivenza. Lotte politiche quindi! Esibizioni, valutazioni, duelli che seguivano le leggi esistenti per accedere alla scala gerarchica, lotte politiche che contestavano le gerarchie e, più in generale, le leggi generatrici di quelle gerarchie.
Interazione fra uomini, interazioni di valutazione, interazioni di resistenza, di contestazione, di difesa; creazione di nuove forme, elaborazioni concettuali e linguistiche che dovevano sopravvenire con l’operare sociale lungo il percorso di sopravvivenza nella convivenza.
Prima di parlare col linguaggio, così come lo conosciamo, gli uomini interagivano in maniera comunicativa fra loro e continuavano a interagire succedendosi nelle generazioni tra i vincoli e i pericoli dell’ambiente. La pressione selettiva s’esercitava sui singoli e sulle tribù dove la linfa vitale aggregante e salvifica, tanto dei singoli come dell’organismo-gruppo, era proprio la cultura. Dal trattamento, alla divisione del cibo, dall’organizzazione della caccia all’identificazione e comunicazione dei pericoli, dall’acquisizione delle conoscenze, alla loro trasmissione. Tutte queste attività contrassegnavano la cultura con il senso generale di sopravvivenza.
L’evoluzione, la storia biologica e culturale dell’uomo non sono tutte ugualmente riducibili al senso fondamentale legato alla sopravvivenza? A mio parere la risposta è 
In quanto altro dal sopravvivere la riserva ha un senso connesso al vivere, non all’ottusamente ciecamente sopravvivere, ma al vivere in comunità come individuo singolo e mortale. In quanto tale, la riserva di senso è connessa al finito, al limitato, al senso storico che si storicizza nelle storie dei mortali.

 Riserva di senso
Anche se pressione selettiva ed evoluzione agiscono in maniera molto complessa, esse vengono spesso sbrigativamente ridotte a uno schema secondo cui:
1) variazioni individuali del codice genetico sopravvengono in maniera casuale,
2) su queste mutazioni l’ambiente seleziona le variazioni capaci di sopravvivere e trasmettere le mutazioni.
Pur consci della semplificazione non ci scosteremo da questa versione elementare perché sufficiente allo scopo. Una teoria più complessa, più scientifica complicherebbe solo la discussione senza mutare i risultati a cui si intende pervenire, che riguardano esclusivamente un concetto che identificheremo fin d’ora come Riserva di significati
E’ evidente che variazioni favorevoli alla sopravvivenza, sopravvennero e continuano a sopravvenire, a strutturarsi, a coordinarsi con organi e funzioni, in maniera tale da risultare, nello stesso tempo, altamente funzionali alla sopravvivenza nella sua funzione fondamentale ma del tutto estranee ad essa per altre funzionità rese possibili dall’avvenuto strutturarsi delle funzioni vitali.
Per meglio comprendere si può pensare, ad esempio, al complesso al complesso delle dita, delle mani e delle braccia con relativi snodi e articolazioni delle dita, del polso, del gomito e della spalla, che certamente furono premiate dall’evoluzione del primate uomo, perché lo dotarono di capacità vitali quali arrampicarsi, cacciare, raccogliere frutti, difendersi, ecc.
La pressione evolutiva premiò queste capacità. Nondimeno quelle stesse mani, quelle stesse articolazioni delle mani, del polso, del gomito, della spalla, capaci di coordinarsi così bene fra loro, sono quelle stesse che gli permettono di suonare la chitarra, il violino, la fisarmonica ed altri strumenti musicali. Sono quelle stesse che gli permettono di scrivere, che gli permisero nel passato di produrre suoni sfregando corde, battendo tamburi traendone e apportando piacere al gruppo, alla tribù, al singolo.
Naturalmente noi non possiamo sensatamente affermare che l’evoluzione premiò le estremità prensili perché permettevano di produrre una molteplicità di suoni, sfregando o pizzicando delle corde tese e neppure che le premiò perché permisero di costruire strumenti musicali.
Pensiamo alle memorie e al software necessari per far girare un programma sofisticato come Word e a quanti altri programmi si possono far funzionare con quello stesso hardware e con quello stesso software. Se immaginiamo che Word sia A, gli altri programmi possibili B, C, D, eccetera, allora possiamo immaginare che ad un certo punto dell’evoluzione la capacità A si sia dimostrata vincente e selettiva, trascinando con sé anche le potenziali capacità B, C, D, ecc., anche se del tutto indifferenti per la sopravvivenza.
La pressione selettiva premiò senz’altro la capacità di programmare, di escogitare soluzioni, di superare difficoltà e pericoli, di risolvere problemi sempre più complessi e difficili. Tutte queste capacità sopravvennero e furono premiate sia in campo mentale, dove la capacità di sostenere programmi di calcolo, riconoscimento, decisione ecc., presuppone l’esistenza di strutture celebrali adeguate, con memorie, connessioni e dimensioni adeguate ai programmi, sia in campo più specificamente materiale (abilità manuali, ecc.) creando così possibilità di abilità manuali e programmi capaci di utilizzare queste capacità sia in funzione di sopravvivenza che con significati del tutto diversi.
Possiamo allora, almeno provvisoriamente, concludere che in noi si sono stratificate surplus, riserve, capacità, che potremmo indicare come riserve di significato, delle quali la pressione selettiva dell’evoluzione non è stata il diretto attore.
L’evoluzione, la storia biologica e culturale dell’uomo non sono tutte ugualmente riducibili al senso fondamentale legato alla sopravvivenza. Il senso di azioni, passioni, comportamenti non è riconducibile unicamente al senso primario di sopravvivenza, tutta la complessa articolazione dei desideri con tutte le relative connessioni non è unicamente riconducibile al senso primario del sopravvivere-
In quanto altro dal sopravvivere la riserva ha un senso connesso al vivere, non all’ottusamente ciecamente sopravvivere, ma al vivere in comunità come individuo singolo e mortale. In quanto tale, la riserva di senso è connessa al finito, al limitato, al senso storico che si storicizza nelle storie dei mortali. 


Si è parlato delle articolazioni delle mani e delle braccia che ci rendono in grado di suonare strumenti a corda, di scrivere, di battere a macchina, di costruire quegli stessi strumenti, ma il fenomeno lungi dall’essere limitano a qualche funzione è tanto vasto da investire tutto il nostro vivere quotidiano
Con le mani costruiamo utensili funzionali alla sopravvivenza ma anche zufoli, trombe, flauti che poi suoniamo non solo con le mani ma anche con la modulazione del fiato. L’uso combinato dei due mezzi ci permette di alzare e abbassare il volume, di modulare le note e gli accordi, consentendoci di emettere note e suoni isolati, note e suoni coordinati in un sistema di contemporaneità e di successione: canti, sinfonie, concerti, ritmi, musica da ballo, ecc. Sia il ballo che il canto avvengono articolando l’uno la voce e l’altro le mani, le gambe, il corpo e le braccia. Benché, braccia, corde vocali polmoni siano tutti organi vitali, altrettanto non si può dire di loro prodotti come il ballo, il canto, il suono degli strumenti a fiato, i concerti, le sinfonie. Analoghe considerazioni si potrebbero fare in relazione alla pittura, alla scultura, alla composizione di poemi, liriche, romanzi, ecc.

Abbiamo dunque tutto in insieme di abilità, possibilità, attività connesse alla sopravvivenza e un’altra serie di abilità, attività, potenzialità che ci derivano da quella riserva indicata come riserva di potenzialità, che non è oggi, come non è stata in passato, legata alla sopravvivenza e che non trae oggi come nel passato il proprio senso da questa.
Suonare, comporre, cantare, scrivere poesie o romanzi, disegnare e commentare vignette, fare teatro non sono funzioni necessarie a sopravvivere o, per lo meno non lo sono e non lo sono state in un senso così universale e totale come il respirare, il cibarsi, il coprirsi, il lavorare per procurarsi cibo, vestiario, cure per le malattie, cibo per i figli ecc. e, soprattutto, non sono state determinanti per la nostra sopravvivenza in quanto uomini. Lo sono state in un senso secondario poiché il moto, la distrazione, il riposo, l’evasione si sono, a loro volta. dimostrate salvifiche e la selezione ha premiato il riposo e l’evasione Ma non hanno trovato nel loro sviluppo mai un legame diretto né sono state progetto vitale nello steso senso con cui venivano costruite le armi o studiate le strategie di caccia. Il loro senso non è inserito nella mappa delle funzioni di sopravvivenza se non in maniera sussidiaria.
Dunque le mani, il sistema vocale, il sistema motorio il nostro sistema di riconoscimento e decisione, il nostro vedere, pensare, interfacciarsi, così fondamentali per la nostra sopravvivenza, consentirono contemporaneamente operazioni straordinarie come il canto, la narrazione, la raffigurazione, la danza. Consentirono in altre parole anche il procedere di quell’operare denominato artistico, che ha come prodotto duraturo le opere d’arte.
E certamente dovette apparire come fantastico e meraviglioso, magico per i singoli esseri mortali questo vivere diversamente, questo vivere rilassati o eccitati diversamente rispetto al quotidiano impegno di sopravvivenza, questa diversificazione dall’Essere costruito dalla selezione, quell’agire non necessario, non per la sopravvivenza ma per se stessi e per altro. Un magico distrarsi e uscire dal mondo in una operatività/partecipazione che non era quella dell’essere vissuti dal soffocante, ansioso, implacabile abbraccio dell’Essere per sopravvivere.
L’uomo si diverte e gioca in età matura al di là del significato salvifico che hanno, ad esempio, il gioco, la corsa, la lotta per i giovani apprendisti della vita. Conosce il piacere di raccontare e di ascoltare racconti che non sono solo notizie o informazioni, che vanno al di là del racconto informativo, che non ricoprono ruoli salvifici e parlano di uomini e donne del tutto inventati. E ancora suoni e sequenze, suoni e canti che non sono solo religiosamente salvifici, che non sono solo segnali o cori di caccia o di guerra, ma canti da godere per altro, da cantare per altro: per festeggiare, per gioire, per nessun altro motivo che non sia il cantare stesso, l’ascoltare e il godere gli effetti ritmici, melodici, piaceri che stimolano a loro volta l’inventiva e la creatività, dando autorità e prestigio a chi inventa e interpreta. Non a caso nascono gli dei della musica, nascono miti come quelli di Orfeo, cantore capace di commuovere le pietre col suo canto. La dimensione è mitica e sacrale ma non riducibile alle funzioni sacrali emerse come funzioni salvifiche e capaci di assegnare agli eventi quella dimensione mappale di sopravvivenza.
Gli dei della musica, i nuovi miti come Orfeo celebrano il godimento poetico, artistico, musicale nella sua bellezza in sé. Non solo canti religiosi per Marte o Giove per invocarne l’aiuto, placarne l’ira e neppure canti alla Dea delle Messi, in cui si canta con significati e fini altri che il proprio godere di quei canti, di quei componimenti.

L’autonomia di senso presuppone un mondo chiuso di senso, in misura tale che, se viene cercato il senso di una situazione o di un cambiamento questo possa essere trovato tanto nella storia di quel mondo che nella configurazione di provvisoria stabilità assunta dal mondo. Questi mondi sono chiusi nel senso di Cassirer (non in riferimento ai mondi come condizioni logiche, trascendentali della comprensione del mondo, ma in un senso più fluttuante di percezione autonoma di vita). Queste brevi considerazioni se non altro ci e qualcosa in più sia sull’indipendenza e sull’autonomia dell’arte sia sulla autonomia di significato delle opere artistiche di cui molti parlano ma senza darne alcuna ragione e motivazione. Ci dicono che l’arte è auto significante che lo è di per sé e su queste affermazioni si fa molta melina senza aggiungere alcunché di significativo. Ma un qualcosa di più si può dire e questo qualcosa dice che un agire può trarre il suo significato direttamente dal senso di sopravvivenza, sia indirettamente e in maniera mediata, come sopra si è delineato, in misura tale da potere parlare di senso per “Altro” di senso “Altro” di una pluralità di sensi altri pervenuti ad autonomia di senso e di mondo di senso mediante emancipazione dalle proprie origini e dalle proprie cause.

Doverosamente aggiungo che parte delle considerazioni esposte sono presenti in un mio articolo sulla rivista Dialettica e filosofia.





venerdì 20 dicembre 2019

7 società civile e musica. prima parte Capitolo 7 de Il manifesto degli incivili


  Chi governa la cultura governa la civiltà di un popolo. Inizia una serie di post a certificare la Caporetto della cultura italiana in mano a quelli che sanno tutto loro, sono solo colti loro, nascono colti, vivono intelligenti e colti e muoiono colti. Di quelli che votano con la testa e non con la pancia. Di quelli artisticamente prolifici come i muli. Di quelli che non secernono pensiero ma son o belli, bravi, colti, educati, intelligenti mentre il resto del mondo è barbarie e feccia.

Società civile e musica. prima parte.

In una intervista al giornale la Stampa del 7/1/17 di Sandro Cappelletto a Peter Gelb, da 11 anni general manager del Metropolitan di New York, conferma che le nostre idee sull'opera lirica non sono affatto strampalate. “Il vostro Budget annuale” ci informa “è di 300 milioni di dollari. La metà proviene dai biglietti, dalle vendite del negozio, dai cinema. L’altra metà da donazioni individuali o di grandi compagnie.” Nessun contributo dallo stato, dunque, o della regione o del comune da parte di un teatro che produce ogni anno 25 opere per un totale di 225 serate. Chiara è anche la sua risposta sull'opera dei registi. Alla critica di non essere innovativi, risponde “Non mi piace chi deostruisce il linguaggio dell’opera, chi nega il piacere della trama. Non riconosco ai registi il diritto di distruggere la vicenda di un’opera”
Sui teatri Italiani è parco ma pungente: “Non seguo molto (le loro vicende) So che sono sempre impegnati a chiedere soldi allo Stato. E c’è chi tarda a pagare artisti e collaboratori… Noi abbiamo i migliori cantanti del mondo e paghiamo regolarmente cachet e stipendi.”

La situazione dei teatri italiani è pessima. Genova non riesce a pagare gli stipendi. Il sistema operistico denuncia 400 cause di lavoro pendenti e 60 esuberi fra Bologna e Firenze.
Del resto, ci spiega in un articolo sul giornale La Stampa  Alberto Mattioli (1/11/ 16), tante realtà in provincia sorprendono per successo e frugalità. Mattioli è addirittura, non solo pungente ma sarcastico quando scrive “Centenario della morte di Paisiello. Quasi nessuno dei grandi teatri se l’è ricordato (ammesso che lì qualcuno sappia chi era Paisiello). L’opera Giocosa di Savona sì, e ha presentato un’accettabilissima produzione della Nina o sia la pazza per amore, un capolavoro che ha fatto la storia dell’opera ma non entra quasi mai nella cronaca esecutiva.”  
Quanta amarezza e quanta voglia di pungere, quanta voglia di mettere in evidenza l’ignoranza che domina nei nostri teatri d’pera!
A Torino, viene riconosciuta una gestione ottima, cosa di cui l’amministrazione mena gran vanto, ma quando si vanno a leggere i bilanci si scopre che su un totale di bilancio di 38.000.000 il contributo statale è stato di 14.100.000 euro, quello regionale di 2.500.000, quello comunale 4.000.000, ossia complessivamente lo stato, in varie forme, finanzia 20.500.000 dei 38.000.000 messi a bilancio.
Più del 50%. Alla faccia della buona amministrazione! E del tanto decantato pareggio.
Ci chiediamo anche se e quanto abbiano aiutato le fondazioni S. Paolo e CRT, perché anche quelli sono soldi pubblici, soldi nostri. Ci chiediamo se tra i donatori, per completare il cerchio magico dello spreco, non ci siano società monopoliste comunali, ci chiediamo se il palazzo dell’opera paga un affitto e il motivo di questa domanda lo chiariremo. Tutto ciò per una decina di produzioni o poco più. Evviva la buona amministrazione!
In nessun paese esistono 14 fondazioni liriche che sulla carta pensano di giocare in serie A. Sovrabbondante e dispendiosa organizzazione “culturale” che non esiste nelle ben più ricche e colte Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia, e Giappone, né tanto meno negli Stati Uniti dove i principali teatri a cominciare dal Metropolitan, come sopra indicato, vivono grazie ai mecenati privati e agli incassi al botteghino.
Il passato ci dice che quei figli di puttana, quegli intellettuali del cazzo, dirigenti e amministratori di fondazioni liriche, sforavano i budget con tranquillo menefreghismo, perché alla fine lo stato, ossia noi, ripianava. Loro, quei parassiti, spendevano, si riempivano le tasche e gestivano il potere. Potete tranquillamente giurare che quegli stessi parassiti sono fra coloro che oggi bombardano di insulti i cosiddetti populisti ignoranti.
Negli anni novanta ci racconta Sergio Cappelletto su La Stampa del 3/8/ 2016, si viaggiava al ritmo di 1,2 miliardi di passivo al mese e il sovrintendente Paolo Cresci pigliava per il culo l’ancora silente maggioranza silenziosa non ancora populista, dicendo – Mica li ho inventati io i deficit” “Il partito della spesa pubblica, scrive Cappelletto, fortissimo allora come adesso, applaudì”. Come non diversamente oggi applaude e loda l’amministrazione del sindaco PD Fassino che a Torino non asfalta le strade, non pota gli alberi, abbandona le periferie a se stesse, ma finanzia a non finire teatri, mostre, musei. Sfavillio tanto, cultura poca. Eppure ci dicono le élite tutto per l’ARTE e la CULTURA, ma noi di arte e cultura ne vediamo ben poca, vediamo invece perennemente un centro cittadino trasformato in uno sfavillante albero di natale. Poca arte, poca cultura e tanta dispendiosa e sfavillante esteriorità.

lunedì 16 dicembre 2019

Riotta. Il nobel allo scrittore che negò i crimini di Milosevich



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Riotta - Il nobel allo scrittore che negò i crimini di Milosevich -Il paradigma del SI... MA...

Spiace e spiace molto criticare l’articolo di Riotta (La Stampa) sul Nobel assegnato a Peter Handke. Spiace perché Riotta è fra i pochi giornalisti che leggono con continuità opere letterarie contemporanee, spiace perché ha dimostrato di conoscere la teoria grammaticale di Chomsky. Per la maggior parte dei suoi colleghi, giornalisti e opinionisti, Chomsky è solo l’autore di trattati animati da infuocato antimperialismo e anticapitalismo. Saranno pure importanti anche questi, ma, dozzinali, come sono, non sarebbero neppure stati pubblicati, se Chomsky non fosse stato l’inventore della Grammatica Generativa.
Detto ciò, mi piace poco la dura condanna di Handke e l’altrettanto dura condanna della commissione del Nobel per averglielo assegnato. Per Riotta la giuria ha commesso un errore storico nel trascurare i propositi del fondatore che subordinava il premio alle motivazioni ideali. Ma per favore non inchiniamoci a celebrare il mistico matrimonio fra etica e arte che portò ad assegnare il premio a Giosuè Carducci in epoca di egemone culturale mangiapreti, ad Hansum in epoca di egemone vitalismo, a Kipling in tempi in cui, dalla Società Civile, l’imperialismo era considerata alta missione religiosa, civile e morale. Deprechiamo, invece, che quello stesso mistico premio sia stato negato a quei porcelloni di Moravia e di Joyce, a quel fascista di Borges, a quell’altro fascista di Celine, mettendo in forte dubbio che quei supremi accademici abbiano confuso l’idealità con la morale alla moda. Così è stato per Carducci, per Hansum, per Kipling, per Moravia, per Joyce, per Borges, per Celine.
Il Nobel ha sempre saputo rinnovare le sue idealità, e cambiare. Se Riotta e, come penso, molti editorialisti, intera Società Civile compresa, condannano, senza se e senza ma, la generazione di Milosevich, viene il sospetto che, al contrario, i professoroni del Nobel abbiano iniziato una revisione dei giudizi sui pensieri e sulla azione di quegli eventi sanguinosi.
La condanna conformista in blocco di quegli attori che riassumono i sentimenti di molti Serbi, riaffiorati dalla notte dei tempi, e la loro condanna “Senza Se e senza Ma” mi pare ottusa: proprio nella forma dei vari “Sì… MA…” , “No… Ma…”, così comuni nel nostro ragionare si nasconde la realtà.    
L’uso di sintagmi del tipo “No, non condanno ma ” “Si, assolvo ma…”, è salvifico.
Con il si dà un giudizio, con il ma si espone una giustificazione o un’attenuante. La forma proposizionale del si ma gestisce non solo una logica giudiziaria ma anche una logica politica.
Forme come “Il tale è colpevole ma era stato provocato da…..“E’ vero ma…” sono paradigmatiche e invano si tenterebbe di analizzare quel “Ma” come una particella logica vero funzionale. La forma quando viene usata nel discorso politico, pare composta da un giudizio di assoluzione o di condanna relativo a un certo evento e da un racconto che tende a modificare il verdetto del giudizio. Il racconto di cui si parla è in genere un racconto storico e segue quindi la logica del racconto storico; ma qual è la logica del racconto storico?
Quando ci dedichiamo alla storia, cerchiamo di capire la concatenazione fra gli eventi. Capire vuol dire connettere in qualche modo (catene di coordinazione, subordinazione, connessioni causali, finalistiche o probabilistiche) affinché si possa concludere “Questo è accaduto perché in precedenza è accaduto quest’altro”, “Agì in questo modo per queste ragioni”, “Agì perché motivato da …”.
L'allievo che ascolta una spiegazione di storia in questo non è diverso dal professore che la illustra: per l’uno e per l’altro l’obiettivo è la comprensibilità, il professore cerca di trasmetterla e l’allievo di comprenderla.
Ma che significa "comprensibilità"? 
Il “Comprendere” assume significazione nel connettere fra loro gli eventi. Non sarebbe comprensibile che una palla calciata a Roma arrivi fino a Milano perché il lancio di una palla, il suo volo e il suo approdo sono connessi da leggi fisiche incompatibili con un simile evento. Anche nella storia, raccontando gli eventi, cerchiamo di connettere le azioni, gli attori, gli esiti, in base cercando le cause, le motivazioni, i caratteri, le situazioni, i fini e così via. Proposizioni quali: “Il tale Presidente fece questo perché doveva reagire”, “Il tal generale si mosse nel tal modo perché voleva raggiungere quel tal obiettivo”, ci dicono come si debba ricorrere a tutti i tipi connessioni-motivazioni di tipo politico, comportamentale, statistico, sociologico, psicologico, fisico, ecc. per riuscire a connettere gli eventi in una catena o in una ramificazione di catene.
Anche se molti filosofi della storia storcerebbero il naso, l’ideale della comprensibilità è la “necessità”. Anche se lo si ammette con difficoltà, una serie di eventi è tanto più compresa quanto più la catena che li connette è necessaria, ossia quanto più crea tra gli eventi dei vincoli che escludono tutti i possibili gradi di libertà: la storia è tanto più ’comprensibile’ quanto più le connessioni sono necessarie, quanto più il percorso è irrigidito in una serie di ragioni e cause che non lasciano spazio ad altre possibilità. Lo sforzo di comprensibilità assume così le forme di una razionalizzazione secondo forme. Col nascere della riflessione sulla storia e sulle narrazioni della storia, nasce anche la tensione verso la razionalizzazione in forme di necessità. Se Erodoto racconta la storia come una successione di contingenze, Tucidide racconta l’addivenire della guerra tra Sparta e Atene come un evento ineluttabile e un destino già depositato nella filigrana degli eventi che la precedettero. Tucidide raccontava ma non teorizzava. La razionalizzazione della storia come teoria avvenne molto più tardi e per analizzarla e trarne conseguenze dobbiamo ritornare al razionalismo illuminista. Il mito della ragione illuminista permeò una cultura e questa cultura continuò. Il romanticismo fu una reazione alla ragione astratta dell’illuminismo ma a questa ragione astratta i romantici opposero le ragioni della storia, delle tradizioni, dei miti, dei costumi, dei sentimenti ma in parte la incorporarono nei loro sistemi d’interpretazione. Con Hegel la ragione divenne la logica del comprendere e contemporaneamente la logica dell’essere e del divenire. Per lui “Ciò che razionale è reale e ciò che è reale è razionale”. Comunque la si voglia interpretare, questa formula più volte richiamata da Hegel, ci invita a considerare razionale e necessario lo svolgersi degli eventi storici. Hegel originò un movimento e creò un paradigma. Anche Marx si sentirà in dovere di completare il suo materialismo storico con un materialismo dialettico che rendeva congeneri i mondi della storia e della natura.

La forma “Si… Ma…” è composta da un giudizio di valore e una storia. E’ la necessità di capire il perché degli eventi a indurci a inserire la storia in una catena di necessità. E’ quasi una necessità ‘vitale’ e salvifica. Così noi parliamo di storia come maestra di vita, così noi ‘giustifichiamo’ gli eventi. Li ‘giustifichiamo’ e, sull’ambiguità paradigmatica di quel ‘giustificare’, li connettiamo comunque con inesorabilità. Se è la necessità a muovere, è la stessa necessità a giustificare: quasi come se chi è obbligato a compiere un’azione, non ne avesse responsabilità, colpa o merito, chiudendo al giudizio morale: ciò che è avvenuto è tale perché giustificato e/o imposto dagli eventi, anche se è la narrazione storica non riesce, certo, a essere esposta come se ogni evento fosse un teorema. Ma accanto a questa constatazione è altrettanto indubbia la tensione verso la massima ‘comprensibilità’ intesa come necessità.
Se, invece, entriamo in una logica di contemporaneità la guida è la logica giudiziaria.
Nella logica del processo giudiziario la catena degli eventi e delle loro connessioni viene spezzata, perché oggetto di giudizio sono le singole azioni, che, disarticolate dalla catena di connessioni, perdono il loro carattere di necessità. Un’azione delittuosa viene giudicata in quanto tale al sì o al no, mentre le possibili connessioni causali, giustificatorie, ambientali, assumono uno statuto logico di provocazione, reazione, influenza, ecc. con precisi sensi giuridici che le porta a intervenire nel calcolo del giudizio finale come attenuanti, o aggravanti, ciascuna giuridicamente prevista e definita in gradazione e peso, affinché possa entrare nel calcolo della quantità di pena attribuita per il delitto, considerato come fatto a sé stante.
Naturalmente non tutte le attenuanti sono del tipo ambientale, storico e causale. La mancanza di precedenti non ha in genere nessun nesso causale con l’evento delittuoso oggetto del giudizio ma è in genere “attenuante” così come l’essere commesso in associazione con altri soggetti è in genere un ‘aggravante’, ma tutto ciò non fa che confermare la differenza delle due logiche, anche se questo non vuol dire che nel processo non si cerchi quello stesso tipo di comprensibilità, perché l’insieme degli eventi, e la loro connessione, deve essere in ogni caso capita, deve essere comprensibile e avere un senso; questo è possibile solo inserendo il fatto specifico in una serie di connessioni che attribuiscono senso.
Ciò che cambia profondamente è però la logica. In quella processuale il presupposto è l’esistenza della ‘libertà’ delle azioni e la 'responsabilità’ che le accompagna. La logica processuale è il regno della libertà e della responsabilità, se non lo fosse non potrebbe essere emesso alcun giudizio di condanna o di assoluzione.
Se la razionalità storica tende a instaurare il regno della necessità la razionalità del processo giuridico tende a instaurare il regno della libertà. Il passaggio dal “sì” al “ma”, segna il passaggio dalla logica della libertà a quella necessità.
Se trasportiamo la prima concettualità nel mondo giudiziario, avremo come conseguenza che nessun delitto può essere sanzionato, perché l’autore del delitto risulterà sempre non libero nella sua scelta ma costretto dagli eventi. Il mondo giudiziario non sparirebbe ma sarebbe circoscritto al compito di accertare il delitto, di accertare l’autore (non ‘responsabile’ ma ‘autore’). Al contrario se riconosciamo una libertà illimitata dovrebbero sparire nella valutazione del ogni tipo di attenuante. In ogni caso assume un significato discriminatorio l’opposizione determinismo/libertà.
Senza spingersi oltre si può concludere che un giudizio “Si …Ma” è l’espressione di un giudizio eminentemente politico, che deve essere compreso nella sua origine, nella sua possibilità e nel suo senso tenendo in debito conto cosa comporti il cambio di paradigma o la confusione dei paradigmi adottati. E’ compito del pensiero politico, svolgere quell’opera di chiarimento e distinzione senza i quali ogni giudizio politico diventa, a sua volta, paradigma d’incomprensione e di sistematica ambiguità.
La formula del “Si ma o no ma”. che domina i nostri ragionamenti, i nostri giudizi, i nostri discorsi ci dimostra che ci appoggiamo ben saldi su una confusa, indecidibile ambiguità: noi, come Riotta, noi, come coloro che hanno assegnato il Nobel. Non pensiamo che Handke approvi il massacro di Srebrenica ma che abbia sempre pensato e sostenuto le sue convinzioni secondo l’ambiguità del si ma e del no ma. Di fronte al palestinese che si fa esplodere su un tram israeliano, all’abbattimento delle torri gemelle, al massacro di Srebrenica, al bombardamento di Clinton e della Nato delle città serbe, dei ponti serbi, dei treni serbi, sappiamo che vengono emessi tanti verdetti di Sì senza senza ma, di No, senza ma e di altrettanti Si ma e No ma come quello di Handke.
Se Riotta avesse parlato con qualche serbo, anche giovane, saprebbe che per troppe generazioni di fronte alla repressione, al sangue slavo versato dagli ottomani, durissimi nel reprimere i “partigiani”, se avesse meditato dell’enorme valore mitico di sacrificio ed eroismo di cui si sono caricate le battaglie perse dai serbi contro gli ottomani in Kosovo che proprio in virtù di questa comprensione mitica (vedi Cassirer) considerano il Kosovo, con le sue chiese erette in memoria, territorio serbo e cristiano, se avesse valutato quanto dentro la memoria collettiva serba era vivo quanto l’ordine morale che sanciva “Ora non possiamo cacciarli, ora non possiamo ribellarci ma la nostra memoria rimane nella nostra anima di Serbi” e invitava i padri serbi a non dimenticare e a trasmettere questa promessa a figli e nipoti, e figli e nipoti per secoli “Non dovete dimenticare, dovere mantenere viva la fiamma, verrà il giorno sacro della giustizia”, capirebbe quanto valore ha avuto a Srebrenica, prima e dopo Srebrenica il “MA” serbo. Del Resto Riotta, giornalista colto e non ignorante come tanti suoi colleghi, ha senz’altro letto “Il ponte sulla Drina” a cui il nuovo Nobel rinvia e l’agghiacciante, lunga, calma descrizione dell’impalazione ottomana.
Stiamo correndo in tutto il mondo in una successione di vendette senza fine e non è certo ciò che noi “incivili” voliamo. Ma c’è un’alternativa? Fascista di qui, fascista di là, barbaro, incivile, sovranista, costruttore di muri, e ancora e ancora: un’infaticabile corsa all’insulto ingigantitasi con la discesa in campo di Berlusconi. Avete perfino bruciato in strada il suo ritratto. Mai un segno di ravvedimento: i nostri scritti, i nostri saggi, i nostri romanzi che parlano di Foibe, di repubbliche di Platone, puntualmente respinti, giacciono nei cassetti. Neppure più li scriviamo: non servirebbe a nulla. Volete imporci una memoria comune che poi non è altro che la Vostra falsa memoria. Noi abbiamo la nostra e non voliamo nessuna memoria comune. Almeno quella. Tenete almeno a bada i vostri cani che vorrebbero imporre la vostra a suon di censure.

Nel suo BUONGIORNO dal titolo L’intransigenza del bene, Mattia Feltri ricorda come in una lezione agli studenti dell’università del Michigan nel 1987 Brodskij (un’altro Nobel) che il male è umano, ammorbidendo l’affermazione con l’invito di non fare mai le vittime, e di controllate il proprio dito indice assetato di biasimo. “Nel momento in cui si localizza colpa, si mina la determinazione a cambiare qualcosa” Il giudice, e specialmente se volontario e collettivo: quello gli faceva paura.
Di fronte a parole come queste che si può dire? Che non si ha diritto alla giustizia? No, risponderebbe la società buonista e civile, ben sapendo che però che gli ottomani in Croazia ci sono e non possono essere cacciati.

Rinuncia all’inimicizia, al biasimo in nome di cosa? Ancora le vittime invitate a non fare neppure le vittime a non protestare, a dimenticare? Ad aderire in pace a una memoria comune? La società dei colpevoli e dei loro eredi non deve fare nulla? Molti di noi si stanno ribellando a una democrazia trasformata in un’elitaria repubblica di Platone e non c’è nessuna marcia indietro. Nessun dovere per chi ci chiama ignoranti e barbari? Neppure il tentativo di capire le nostre argomentazioni? No, censura, censura, censura. I nostri scritti, che siano saggi o romanzi non arrivano mai in libreria. 

venerdì 13 dicembre 2019

ECO



Eco
Morto Eco si è scatenato un coro infinito di elogi. Il grande filosofo, il grande semiologo, il grande narratore, il coraggioso modernizzatore della cultura italiana.
Pensiamo che una voce fuori dal coro non stonerà.
Eco, grande filosofo? Il suo glorioso Trattato di semiotica generale è sconcertante e noioso. Forse una miniera di erudizione, per chi è lontano da quella disciplina ma un quasi zero di pensiero. Il suo MSR Modello semantico riformulato, sostanzialmente propone di passare, nella formulazione di una semantica da associare al sintassi generativa  di Chomsky, rispetto  al modello proposto da Katz, e Fodor dall'orizzonte del dizionario, al quello dell’enciclopedia.  Un proposta priva di ogni operatività e puramente decorativa ma 420 pagine digeribili solo con massicce dosi di bicarbonato.
Innovativa L’opera aperta che può essere letto quasi come un manifesto di coraggio avanguardista. Ma si resta senza fiato quanto poco si travasi da quel libretto al suo tradizional-polpettone Il Nome della rosa. Si stenta a credere che uno stesso autore abbia scritto opere così contrastanti. Schoemberg e Kandinsky espressero la loro arte in coerenza con le loro idee ma non Eco. Altri aderirono concettualmente a una o più avanguardie per successivamente ripensare il loro operare artistico tornando a una classicità filtrata attraverso le loro precedenti esperienze. Carrà aderì al futurismo, aderì alla pittura metafisica, dipinse quadri futuristi e metafisici, per poi tornare a una nuova classicità. Non, però, una classicità banale ma una classicità poderosamente filtrata dalle precedenti esperienze. Anche Sanguineti, attore come Eco della rivoluzione culturale del ’68, trovò sconcertante il contrasto e non aveva torto:
è difficile pensare che l’autore del Nome del Rosa sia lo stesso intellettuale che aderì a quella rivoluzione culturale, che paragonava Carlo Cassola a Liala. Apprezzare Schoemberg e la sua rivoluzione atonale e dodecafonica non implica in ogni caso paragonare a una Lialata musicale la Madame Butterfly di Puccini. E poi che significa espellere Liala dalla cultura, dall’arte come una schifezza? Il carattere altezzoso e snob di Eco, quello stesso che scriveva Fenomenologia di Mike Buongiorno non si smentiva. Quel paragone a Liala qualifica il movimento e aiuta a comprendere la natura elitaria e snob del pensiero di Eco. Quello stesso Eco che poneva la sua firma anche in odio al commissario Calabresi. Per non parlare delle decine di firme sotto inutili, cervellotici, faziosi manifesti coi quali lui e altri intellettuali tappezzarono i muri simbolici della cultura italiana.

Eco non è stato certo un pensatore teorico come Kant, come Heidegger, come Sartre o come Croce. Non era portato alla filosofia teorica. La sua intelligenza si aggirava molto più in basso. Si definiva studioso dei segni dove, per altro, non ha lasciato grandi tracce se non quell’enfasi eccessiva che lo caratterizzò sempre.
Debole come pensatore, Eco deve la sua fama ai suoi romanzi, soprattutto, al Nome della rosa, col quale ha inventato l’esotismo medioevale. All’inizio del secolo scorso i romanzieri dell’esotico si spingevano con la loro fantasia ricostruendo in romanzi di splendenti turcherie in Oriente, Eco non viaggia nello spazio ma nel tempo e al posto dei maghi, dei palazzi della novelle di mille e una notte ci presenta le biblioteche fantastiche dei monasteri all’interno di un romanzo investigativo. Un fascino subito raccolto dal mondo del  Cinema e proseguito con i romanzi di Dan Brown col suo Codice da Vinci e coi suoi mistery-esotici, non del medioevo ma dei vangeli, meglio se apocrifi. Tutti romanzi quelli di Eco e di Dan Brown di grande successo, tutti ripresi dal cinema. Il bel Don Brown è salito ai piani alti anche se non aiutato dalla cultura della società civile,  anche se non multitaskin come Eco, anche senza la potenza di fuoco dei piani snob. E’ strano che al Nostro non sia arrivato il premio Nobel, nonostante la sua fama e il suo pensiero radical chic.

Dei romanzi di Eco si legge spesso che sono intelligenti.
Che vuol dire intelligente? Il Rosso e il nero, Guerra e pace sono romanzi intelligenti?Avete mai letto dell’attributo “Intelligente” a un romanzo? Forse l’aggettivo si riferisce allo sfondo o al contenuto culturale. Difficile dirlo ma nessuno parla della Divina Commedia come di un’opera intelligente. I Promessi Sposi con il suo carico di storia è un romanzo intelligente? Nessuno si sognerebbe di qualificare come opere intelligenti, i romanzi di Stendhal, Tolstoj, Manzoni.
 Forse si dice intelligente perché non si può parlare di arte o di poesia. Siamo al livello del livello del Tamburo di latta, del Maestro e Margherita? Sicuramente no. Tanto meno a quelli di Joyce, di Proust, di Celine. E neppure di Malraux, di Sartre di Camus, di Boll, Anche limitandosi a casa nostra non è Calvino, non è Moravia, non è Pirandello non è Svevo. Neppure paragonabile a Romanzi come Il partigiano Jonny o a Cristo si è fermato a Eboli, alle opere di Primo Levi.
Visto che non si può parlare di arte o di gran romanzo, allora si parla, comicamente, di romanzo intelligente.


Mi viene spontaneo avvicinare Umberto Eco a J. P. Sartre e a Bertrand Russell.
Eco non fu insignito del premio Nobel, Sartre sì, ma lo rifiutò salvo poi, in via riservata, pentirsi e muoversi per accettarlo, Russell fu insignito e accettò con piacere recandosi a Stoccolma e riuscendo vigorosamente ad arrivarci dopo le note disavventure.
Sartre scrisse opere, opuscoli popolari, saggi filosofici, novelle e romanzi, opere teatrali. Tra le sue opere narrative La Nausea e, in parte, Il Muro mantengono quasi intatto il loro appeal e i loro lettori, i romanzi successivi sono entrati subito nel dimenticatoio, altrettanto è avvenuto per le opere filosofiche L’essere e il nulla è un mattone spesso incomprensibile e, contrariamente a ciò che sostengono i manuali, con il suo essere in sé e l’essere per se è pensiero originale e non “nulla di nuovo” rispetto a Heidegger. Si guardi all’essere in sé, bruto, amorfo, come descritto ne La Nausea  e lo si confronti con l’essere linguaggio poetico di Heidegger, che, del resto, prese subito le distanze da Sartre e dal suo esistenzialismo. 
Anche Sarte si occupò di tutto. Riformulo perfino il marxismo e la psicanalisi.
Altrettanto prolifico e multiutility fu Beltrand Russell attivo non solo in logica e in filosofia dove dialogò con Moore, con Bradley, con Meinong, con il positivismo logico, con il pragmatismo. Dialogò di tutto: di logica di educazione, di scuola, di politica, di religione, di morale. I suoi saggi, tra i quali Perché non sono cristiano divennero quasi dei Bestseller, promossi anche dalla sua accesa attività politica che lo portò in prigione dove scrisse Introduzione alla filosofia matematica. Scrisse anche un libro di racconti, Satana nei sobborghi, libri divulgativi come l’abc della relatività e un’Autobiografia illuminante sul percorso del suo pensiero, anche là, dove annota che, dopo aver scritto un saggio poderoso come i Principia Matematica si era potuto permettere di scrivere su ogni argomento anche con leggerezza. Giustamente era certo che le sue stupidaggini non sarebbero caduto sotto nessun fuoco incrociato. La profondità del suo pensiero era stata dimostrata in quel testo.
Tutti e tre questi autori non furono dei geni nelle loro specializzazioni, Sartre e Russell coltivarono in alto e vissero tra i camosci, il Nostro Eco s’accontentò di un pollaio. La sua filosofia non è né elevata, né originale, né profonda come quella dei colleghi ma un po’ di pensiero, mescolato a erudizione c’è, e questo, in Italia, è già molto.
Indubbiamente ha svecchiato la cultura italiana ma, da buon  radical chic, non ha esagerato.
Non è arrivata notizia di una sua protesta quando tre professori abolirono il Bagaglino e l'elitaria Tarantola, proveniente da quel club aristocratico che è la banca d’Italia, abolì l’isola dei famosi. Da giovanissimi le maestre ci dicevano studiate mica volete diventare degli Zulu. Poi ci venne giustamente insegnato che anche gli Zulu hanno una cultura, che anche le più sperdute tribù della foresta amazzonica hanno una cultura con l’unica grande eccezione di coloro a cui piacciono le tivù di Berlusconi. Eco faceva parte di questa banda di intellettuali che non capirono l’evoluzione dei tempi. Il suo ibrido di cultura colta e popolare si è fermato ai fumetti, ma non, immaginiamo, ai fumetti di Nembo Kid.
Il suo intervento fu provvidenziale per quell’elite che parlava di Tomas Mann, di Sartre, di Joyce  ma di nascosto leggevano fumetti, romanzi rosa, romanzi gialli, considerate letture indecenti e da occultare quando si frequentavano gli ovattati salotti dei piani alti e nobili della cultura. Un   sospiroanalogo a quello che accolse la liberazione da parte di un intellettuale come Arbasino delle canzonette di Sanremo. Ben più significativo e severo il richiamo agli intellettuali comunisti e snob da parte di Togliatti.
Così il Nostro Eco si aggira fra l’alto e il basso, ma il limite era già ben presente nella fenomenologia di Miche Buongiorno e, scrivendo L’Opera aperta poi II nome della rosa fu come se Scoemberg, dopo aver predicato la dodecafonia, avesse composto Madama Butterfly.
Ma forse la vera natura di Eco nel suo brandeggiare fra alto e basso si manifestò quando, da vero elitario snob,  definì imbecilli i commentatori dei social, proprio mentre l’Università di Torino gli conferiva l'ennesima laurea honoris causa in ‘Comunicazione e Culture dei Media’.



venerdì 6 dicembre 2019

6 Odio razziale e culturale Capitolo 6 de Il Manifesto degli incivili



Odio razziale e culturale - Capitolo 6 de Il Manifesto degli incivili

E’ inutile far finta di non vedere, ignorare che questo tipo di odio nella variegata varietà delle posizioni non esista; un odio spesso cieco diretto soprattutto contro i neri per il colore della pelle, contro gli ebrei. Contro questi ultimi un odio millenario verso la cultura di un popolo e contro un popolo, accusato di assassinio di dio. Un odio che si estende in alcuni casi a tutte le altre diverse culture e stirpi, così radicato da divenire insuperabile, incorruttibile, impermeabile ad ogni pensiero, ad ogni sentimento. Un odio che si respira anche e soprattutto nei campi di certa sinistra contro l’ebreo, un odio appena coperto dalla tenue e trasparente coperta dalla giustificazione della politica dello Stato d’Israele. Una coperta così tenue che, ad essa, spesso molti odiatori di ebrei, tra i quali possiamo enumerare quasi tutti i musulmani, quasi tutta la nostra sinistra, rinunciano, identificando tutti gli ebrei del mondo con gli ebrei dello stato d’Israele, con la politica dello stato d’Israele; una identità che si rivelerebbe nella solidarietà che costoro offrono a quello stato e alla politica espressa da questa stato.

E’ giusto parlare di seminatori di paura e di odio, ma non per populisti. E' la sinistra a disseminare odio antiebraico e giustificare i delitti arabi e palestinesi. Perché non ricordare mai che furono, sì, gli estremisti israeliani a cacciare una parte dei palestinesi dalle loro terre dopo la guerra, ma contemporaneamente ingigantiva la cacciata di tutti gli ebrei dai paesi arabi iniziata con l'insediamento ebraico. Furono tanti: si dice che a Bagdad un abitante su sei fosse ebreo. Tutta gente che lasciò casa, lavoro ed averi per rifugiarsi nei paesi disposti ad accoglierli, tre questi lo stato d'Israele.

Seminatori di Odio e di Paura. Ebbene cominciamo dalla paura.
La paura è un sentimento, donatoci dall'evoluzione, quel sentimento che ci induce alla prudenza e a non fare entrare la volpe nel pollaio, a non carezzare le tigri. Chi carezzava le tigri veniva mangiato dalle tigri e non trasmetteva prole disponibile a farsi mangiare dalle tigri. La paura è un sentimento rivolto al futuro, ai vari futuri mondi possibili che si aprono a noi tutti come conseguenza del nostro agire e che guida la nostre scelte, indirizzandole verso la prudenza, perché non possediamo  uno scanner o un apparecchio schermografico che ci rivela se l'individuo che tenta di entrare a forza nella nazione, nasconda la Sharia e, con essa, l'istinto della violenza, la volontà di ferirci, di organizzare attentati, l'odio verso quello stesso Occidente a cui chiedono aiuto. 

Di qui la propensione dei populisti per il rifiuto che si aggiunge al rifiuto verso le elite della repubblica di Platone italiana, al rifiuto dell’Europa vista come un impero repressivo. Un rifiuto all'accoglienza indiscriminata, un totale contrasto  coi "generosi" che di questa accoglienza fanno bandiera, che dell’accettazione di questa Europa fanno bandiera. Per noi invasori per loro migranti  Possiamo favorire l’accoglienza o bloccarla e certamente ognuno si formerà giudizi e aspettative in relazione alla sostenibilità dell’accoglienza e alle conseguenze positive o negative. Gli strumenti per valutare i vari futuri possibili ed assegnare ad essi gradi di probabilità sono la nostra esperienza, la nostra cultura, la statistica, la teoria probabilistica ecc. Potremo immaginare un mondo futuro come quello orribile descritto dallo scrittore francese Houellebecq  nel suo romanzo Sottomissione in cui l’Islam giunge a condizionare per via del tutto democratica la società francese o affidarci alle pessime previsioni di Oriana Fallaci che ha espresso in molti saggi il pessimo destino che ci attende se non conterremo gli islamici o futuri mondi in cui, in qualche maniera, gli islamici vengono assimilati alla cultura occidentale e si comportano laicamente come i cattolici. Diciamo che una corretta scelta potrà avvenire se daremo un giusto peso alle probabilità e alla durezza prevista per praticarlo.
I due fattori ci guidano o verso l’opposizione ostile, la paura, il respingimento o verso la fiduciosa accoglienza.
Chi arretra e non vuole l’islamico non è un odiatore né un seminatore d’odio: semplicemente constata che gli ingressi vanno disciplinati, che nel pollaio non va invitata la volpe. Che non possiamo accogliere centinaia di persone ogni giorno, che all’ingresso non disponiamo di una macchina schermografica, uno scanner che accerti la presenza e l’intensità della sharia e il proposito di trapiantarla, che non abbiamo, come succedeva negli Stati Uniti un’isola per accogliere o respingere su una nave che li riporti a casa i candidati migranti perché i nostri migranti arrivano su barconi malandati che affonderebbero se non li soccorressimo, instaurando così un ricatto di salvezza a cui secondo molti non dobbiamo soggiacere.
I favorevoli al respingimento Propagano il loro odio e la loro paura? No, semplicemente affermano le loro tesi come lo fanno i favorevoli all'accoglienza.
Emigrare in Italia, in Francia, in Europa legalmente non è costoso, ma è necessario il passaporto e un visto che i migranti sanno che difficilmente otterranno. Il costo del biglietto aereo non sarebbe neppure un sesto del costo necessario ad entrare tramite organizzazioni malavitose che agiscono al di fuori di ogni legge.
I migranti sanno perfettamente quale strada costosa e pericolosa stanno intraprendendo e a questo punto non sono più solo migranti ma invasori. Si mettono in viaggio, spesso attraversando terre pericolose e mortali, con guide che li trattano come animali, giungono in Libia (dove esiste da tempo, da quando l’asino Obama, il volgare e crudele Sarkosy, il despota inglese e infine anche il  Berlusconi, che mai avrebbe dovuto cedere ai ricatti dei suoi delinquenti colleghi, dicendo a voce alta che mai e poi mai gli Italiani avrebbero versato altro sangue libico dopo quello versato criminalmente nelle operazioni di conquista e di dominio) e per approfittare delle legge del mare che obbligano le navi a soccorre le altre navi in difficoltà, si imbarcano in barconi destinati ad affondare. Sono poveri ma, scaltri, i sotterfugi e le condotte truffaldine per mettere piede in Europa li usano tutti e con loro portano la loro ignoranza e la loro sharia. Scaltri loro, falsi e ipocriti i soccorritori che diffondendo il messaggio, “Imbarcatevi, ci siamo qui noi ad accogliervi, quando la barca si sfascia” E se non ce la fanno ad arrivare in tempo: “Buona affogata! La colpa è di Salvini!”. 
Purtroppo decenni di egemonia culturale della sinistra fanno ancora sì che chi vuole accogliere sia buono bravo, intelligente, colto mentre gli altri sono perfidi, barbari, ignoranti e cattivi e, naturalmente, seminatori d’odio.
Cosa diremo quando grazie ai seminatori di odio cesseranno le invasioni, le morti in mare e in terraferma? 
Decisivo nella scelta è un fattore di cui si tiene ben poco conto.  Questo fattore riguarda la reversibilità o l’irreversibilità.
L’ingresso in Europa, l’ingresso nella cinta dell’euro, l’accoglienza è non solo costosa e rischiosa c ma anche irreversibile. Una volta entrati non possiamo rimandarli casa. La decisione è per sempre come l'Euro, che altri incoscienti ci hanno imposto. Chi si è assunto la responsabilità di una entrata così improvvida nella moneta comune era perfettamente a conoscenza che, giusta o sbagliata, la scelta è per tutti e per sempre. Non a caso la sinistra, quella sinistra che aveva osteggiato l’Europa in tutti i modi l'ha imposta a tutti noi come oggi ci vuole imporre l'accoglienza!