venerdì 23 ottobre 2015


ALTRE Tre belle poesie in piemontese del mio coscritto Carlo Brosio. E' nato a Torino e vive a San Francesco al campo. Attualmente sta traducendo l'Iliade in piemontese.

                             









MIE COLIN-E

  TOSCAN

La nebia për le colin-e sëcche, as aussa la spiusiné
E sota ‘l maestral a smija dal mar l’urlé

‘l vin a beuj ‘nt le tin-e për le vie d’ël pais
Col aspr odor a va a arlegré ij amis.

Ansima al bòsch anvisch a gira la bròcia sciopetand
Ant l’uss a amiré ‘l cassador a sta subiand

Tra le rossastre nivole, come d’ij esilià ‘l pensé
Storm d’osei nèir ant ‘l tramont emigré.

A l’ha scrivula an Toscan tant temp fa
A j’era ëdcò an Toscan an mia famija: mè cunià
A l’era ‘n tòch ‘d pan, n’òmo d’òr
Darmagi che a l’era d’ël Tòr.




                            NONO E NONA

A l’é neuit, nòna a varda da la fnestra ëd la cusin-a
A fa frèid. ij veder as coloro ‘d brin-a
A pensa a ij fieuj lontan, a dis ‘l bin
E ‘l gèil as fa sente motobin.

Setà an soa poltron-a a fé ‘d caussèt
A taché boton, fé maja e pissèt
A arcòrda: “Coi passaròt ancheuj volé
Pòvre bestiolin-e sensa mangé…”

Nòna a l’ha seugn, a l’é straca
A l’ha già monsù Viòla, la vaca
Moreto ‘l can a deurm tranquil là fòra
‘l gat e l’é da la morosa, la mòra.

“E ‘l Pin, a torna nen da la piòla
Ma varda che son pròpi fòla
Ma peui a riva, am dis Mariét
Ti it ses bela, dai andoma, là a j’é ‘l let!”



A pija ‘l lum a petròlio, a va për ‘l bòsch tut gelà
‘l sò Pin a l’é là sota ‘n rol, andurmentà
Con ‘l sòco ij dà ‘n bel caosson
“ciao Mariét” “Fila, brut ciocaton!”


                           L’INFINI’ (SUDBOJ)

Sèmper car a l’é stait për mi col brich
E cola cioenda, che da tanta part                                
ëd l’ultim orisont ël sguard a esclud                                                                                                                                                                                                            .
Ma, setandse e mirand, infinì
Spassi dë dlà ëd cola e silensi
Dë dzora ëd l’uman, e profondissima chiete                                                                                                                                                                                                                       
 An ‘l mè pensé imagino, andoa për pòch
‘l cheur a l’ha por. E come ‘l vent
Sento bogé tra coste piante, mi tra col
Infinì silensi  e costa vos
Faso ‘l paragon: e arcòrdo l’etern,
e le mòrte stagion, e la present
e viva, e ‘l son ‘d chila. Parej tra costa
inmensità a nija ‘l pensé mè
e ‘l naufraghé am l’è dos an cost mar.

A l’é giumaj 190 ani fa
Da ‘n gheub ‘d Recanati a l’é stait scrit
Quand lo leso am ven an ment col pòst là
Mi gheub, ma ‘d la Juve, quand j’era cit.

A Sudboj ‘d Moncuch ij osei a canto
Cola cassin-a a l’ha cambià padron
I nòno a deurmo al camposanto
E pòch per vòlta a va a l’abandon.


















domenica 5 aprile 2015

Nietzsche e il suo difficile rapporto coi numeri e con la scienza




 

Nietzsche e il suo difficile rapporto coi numeri e con la scienza





Sulla pagina di gruppo di Facebook  è stato postato il seguente pensiero di Nietzsche:

La scoperta delle leggi dei numeri è stata fatta in base all’errore già in origine dominante che ci siano più cose uguali (ma in realtà non c’è niente di uguale), o che perlomeno ci siano cose (ma non ci sono “cose”). L’ammissione della molteplicità presuppone sempre già che ci sia qualcosa che si presenta come molteplice: ma proprio qui regna l’errore, già qui fingiamo esseri e unità che non esistono. Le nostre sensazioni di spazio e di tempo sono false. In tutte le determinazioni scientifiche noi calcoliamo sempre inevitabilmente con alcune grandezze false: ma, poiché queste grandezze sono per lo meno costanti, come ad esempio la nostra sensazione dello spazio e del tempo, i risultati della scienza acquistano lo stesso perfetto rigore e sicurezza nella loro reciproca connessione; su di essi si può continuare a costruire. Quando Kant dice che “l’intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, ma le prescrive a questa”, ciò è pienamente vero riguardo al concetto di natura che noi siamo costretti a collegare con essa (natura = mondo come rappresentazione, cioè come errore), che è però il compendio di una moltitudine di errori dell’intelletto. Le leggi dei numeri sono totalmente inapplicabili a un mondo che non sia nostra rappresentazione: esse valgono solo nel mondo umano.



Di fronte all'affermazione di Nietzsche vien da chiedersi cosa c’entrino i numeri con le cose uguali? Non posso contare cose diverse? Se sommo tre conigli e tre talpe, avrò non sei conigli o sei talpe ma sei mammiferi o sei animali, se sommo tre conigli con tre uccelli avrò non sei mammiferi ma sei animali.
L’impressione è che la frase in realtà parli di cose e di apparenze di cose ma non di numeri. Si contano le cose, le apparenze di cose, gli accordi, le note, i pensieri, e fantasmi, ecc. Che i numeri valgano per il mondo umano non comporta alcuna limitazione o rilevanza, visto che il mondo umano è quello in cui noi abitiamo. 
I numeri sono neutri rispetto alla filosofia non perché la filosofia non si debba interessare di loro (E’ anzi opportuno che lo faccia) ma nel senso che sui numeri sono ben vitali una vasta varietà di filosofie che si ispirano al realismo, al concettualismo, al formalismo, al costruzionismo.
I numeri non concernono le cose o le apparenze come pare credere Nietzsche ma gli insiemi di cose. Quando Frege, col suo esempio dei quattro cavalli bianchi, mette in evidenza che dei quattro cavalli si può dire che sono "quattro e che sono "bianchi, mentre di un cavallo si può dire che è "bianco ma non che è "quattro", ci dice che “bianco” inerisce ai singoli cavalli e “quattro” al gruppo dei cavalli. Parlando delle relazioni fra classi, sottoclassi ed elementi della classe, Frege ci dice qualcosa sui numeri.

Non capisco il discorso di Nietzsche che pur visse in un periodo di grandi e focosi dibattiti sulla natura dei numeri ma forse la frase estrapolata e postata era più utile a soddisfare il desiderio di chi l’ha postata. Viviamo in una cultura in cui si nutrono ancora troppi rancori e pregiudizi contro una scienza che si vuole arida e meccanica ma che arida e meccanica non lo è mai stata.

La geometria e l’aritmetica nacquero probabilmente da problemi pratici, di conteggio, di contabilità, di misura di altezze, di angoli, di distanze.
La loro verità nasce dalla prova e la prova è inizialmente pratica, tanto in aritmetica che in geometria: conteggi, merci, pesi, debiti, crediti, lunghezze, superfici. E’ probabile che embrioni d’aritmetica e di geometria nascessero convalidati dalla verifica empirica ma tutto cambiò con Pitagora e la sua scuola, quando il numero assunse una funzione metafisica, scientifica e religiosa: non solo di essenza delle cose ma di principio generatore ed esplicatore della realtà, capace di svelare la struttura nascosta del mondo: se capisci le relazioni fra i numeri, capisci anche la relazione fra le cose del mondo.
Il credo pitagorico sarà ripreso da Platone che dedicherà, con la sua scuola, massima cura allo studio della geometria e al mondo dei numeri, un mondo che costituirà, nel suo sistema filosofico, il livello immediatamente precedente al mondo delle idee. Senza la conoscenza delle figure, dei numeri e delle loro proprietà l’accesso alla vera conoscenza è impossibile e l’uomo rimane incatenato alla caverna, al mondo delle ombre, ai sensi, alle apparenze senza mai approdare a quel regno di perfezione, verità e bellezza che è il mondo delle idee.
Le teorie dei pitagorici furono fondanti per la civiltà occidentale e se, per un verso, Omero ne fu un padre, un altro padre, non meno importante, fu Pitagora per il quale il sistema dei numeri assunse lo statuto di fondamento e di modello del mondo.

+++Per la cultura pitagorica il numero, misura di tutte le cose, serve per contarle, paragonarle, sommarle, misurarle. Coi numeri si misurano aree, lunghezze, volumi. Coi numeri si misurano quantità e valore delle merci, tempi, percorsi, debiti e crediti; coi numeri si progettano case e fortificazioni. Nulla pare sfuggire al loro potere conoscitivo.
Pitagora e i suoi allievi furono probabilmente influenzati da questa grande potenza. Se uno stesso numero caratterizzava il numero delle cipolle in una cassa, la lunghezza di un cammino, i passi fra due case, la superficie di un campo, allora il numero, capace di rappresentare un’infinità di cose depurate di tutti quei predicati che le rendevano quelle specifiche cose, non poteva che essere l’anima delle cose.
I numeri potevano, essere addizionati, moltiplicati, sottratti al mercato di Atene o a quello di una qualsiasi altra città, applicati alle stelle in cielo come ai campi di Sparta, scritti sulle tavolette di cera, ma anche nella mente di ognuno, quasi che quel campo, quella cassa del mercato, quel gruppo di stelle fossero spiritualmente presenti sul tavolo di casa e accompagnassero l’evolversi degli eventi dal loro nascere al loro morire come durature e stabili essenze generatrici.
Il sistema dei numeri divenne così il sistema-modello del mondo. Ma il modello non tardò a ribellarsi.

La ribellione del numero

Il peggio – un peggio irrimediabile – arrivò quando i pitagorici si imbatterono in quella vera assurdità dimostrabile, secondo la quale non esisteva alcuna unità di misura comune fra il lato e la diagonale del quadrato. Che fare di questi nuovi mostri? La situazione era tragica e i pitagorici la sentirono come tale perché il modello cadeva.

Cadeva davvero? L’Aritmetica intesa come modello del mondo era solo un’immensa metafora? Se confondiamo la metafora con l’analogia, dall’analogia fra le onde del mare alle onde della sabbia siamo indotti a credere, che, così come in mare esistono le balene dell'acqua, nella sabbia debbano esistere le balene della sabbia. I pitagorici dovettero davvero chiedersi se, con gli incommensurabili, avessero trovato le balene della sabbia e se il sistema dei numeri fosse, non un modello del mondo, ma solo una sua metafora.

La disperazione dei pitagorici ci dice qualcosa d’importante. Ci dice che, dati i numeri naturali, è data tutta la scienza dei numeri con le sue ”verità” e le sue "eresie". Tante eresie. Gli incommensurabili furono solo i primi numeri “eretici” dopo ne vennero un’infinità che continua a proliferare: gli incommensurabili, i relativi, gli immaginari, i complessi, gli indivisibili di Cavalieri, gli infinitesimi loro stretti parenti, le geometrie non euclidee, l’infinito attuale di Cantor, la serie degli Aleph, gli infiniti mondi non standard in uno dei quali abitano bene e legittimamente i vecchi e screditati infinitesimi. Queste sono solo alcune delle tante eresie in cui si imbatterono i matematici. La matematica è una storia di successi e di anomalie eretiche. Nulla di più lontano da un mondo che ancor oggi si vuole vedere come arido, regolare, addirittura meccanico.
Il problema è sempre stato, metaforicamente parlando, di individuare o inventare la “Casa dei numeri” intendendo con questo termine la struttura complessiva degli enti e dei ragionamenti ammissibili .

Di fronte ai voli acrobatici di Cantor, il concettualista Kroneker esprime tutte le sue preoccupazioni, circa la necessità di “dominare” il mondo dei numeri:

Senza le ipotesi qui discusse più da vicino cioè senza la possibilità di potere, fin da principio, sostituire sistemi di moduli con infiniti elementi con sistemi di moduli con un numero finito di elementi, il concetto di sistemi di moduli con infiniti elementi non è applicabile. Se tuttavia lo si vuole proprio ammettere come una costruzione concettuale puramente logica, ciò deve accadere solo con la riserva che nelle particolari applicazioni aritmetiche di questo concetto, non sufficientemente precisato aritmeticamente, si dia in ogni singolo caso la dimostrazione che quelle ipotesi sono soddisfatte.[1].

Il che metaforicamente equivale a dire che, per dare  ai numeri una casa, possiamo elevare tutti i palazzi incantati che vogliamo ma senza nessuna garanzia che i numeri possano abitarvi e che quei numeri siano proprio i numeri che usiamo tutti i giorni per fare la spesa.

Il problema degli enti e dei ragionamenti ammissibili non trovò soluzione unica ma si frantumò in una pluralità di concezioni filosofiche che va ben oltre la divisione tradizionale fra realismo, concettualismo e nominalismo. Non solo molte posizioni filosofiche circa una stessa complessiva teoria logico- matematica, ma una pluralità di logiche matematiche diverse nei teoremi e negli approdi.
Siamo lontanissimi da una interpretazione del mondo dei numeri come scienza meccanica e tautologica. I matematici non sono meri applicatori di formule ma cultori di un mondo che esige grandi facoltà di fantasia e inventività.

Con questa conclusione affronto ora un altro Post comparso sul blog Filosofia, Nuovi sentieri e di lì diffuso su alcune community di Facebook. Il post presenta il testo Nietzsche profeta della scienza di Rosanna Oliveri. La presentazione è l’illuminante e ovvia conseguenza di una concezione che considero inadeguata:.

Nietzsche filosofo della volontà e della creatività della vita, avversario di tutte quelle forme di razionalismo finalizzate a ingabbiare l’autonomia dell’uomo all’interno di automatismi quantificabili e prevedibili: non sono necessarie molte parole per rendere, con un’immagine stereotipata, l’idea di un filosofo che si è spesso meritato l’appellativo di “irrazionalista”. Appena si voglia però andare al di là, appunto, dello stereotipo, diventa necessario domandarsi: veramente Nietzsche ha filosofato contro la scienza? O la sua non è stata piuttosto la prevedibile (e sacrosanta) reazione di una speculazione innovativa nei confronti di un modello scientifico già all’epoca vetusto, ancorato al meccanicismo laplaciano, che di lì a poco sarebbe andato in frantumi sotto i colpi della relatività, della quantistica e della teoria del caos? (La sottolineatura è mia.)
Rosanna Oliveri, nel suo “Nietzsche profeta della scienza” (ed. Il Prato), prende spunto da quell’immagine ingenua ma accreditata del Nietzsche avversario della razionalità e della scienza tout court, per decostruirla e mostrare al contrario il genuino interesse del filosofo tedesco nei confronti dell’avanguardia scientifica della sua epoca. Studio nel quale ritroviamo Nietzsche a confronto con Mach e Darwin, Galileo e Newton, Einstein e Prigogine; che ha saputo non solo interpretare ma finanche anticipare certe conclusioni che il mondo scientifico avrebbe tratto a posteriori con fatica. Con un’importante Prefazione di Sossio Giametta, nella collana “I cento talleri” diretta da Diego Fusaro.

La frase sottolineata è, a mio avviso, del tutto falsa. Il modelli e le procedure scientifiche si rinnovano costantemente e questa attività di rinnovamento di prospettive, linee direttrici, paradigmi, esprime la necessità di capacità intuitive e inventive da parte degli scienziati, ivi compresi i matematici. Non si deve mai dimenticare che lo scienziato elabora ipotesi e teorie. Le teorie non sono generalizzazioni di leggi empiriche ma sono tali e hanno quel nome perché utilizzano grandezze teoriche (elettroni, dei, inconscio, ecc.), che, non essendo accessibili ai sensi, devono essere inventate per far funzionare la teoria. Questo vale sia che le si consideri "esistenti" sia che le si consideri grandezze artificiali escogitate per consentire alla teoria di spiegare l’esistente, di saper prevedere, di saper suggerire nuovi linee di sviluppo.
Ben si esprime Ramsey quando nel suo scritto sulle teorie, dopo aver elaborato la forma conosciuta come Formula di Ramsey suggerisce che essa vada letta, così come si leggevano le favole che iniziano con “C’era una volta…”.

Nietzsche non si confronta con Mach ed Einstein a meno di intendere il confronto come un soliloquio su cognizioni che non possedeva. Di questo passo si scende al livello di chi in un brano di un romanzo di Verne vede l’anticipazione della scoperta dell’energia nucleare. 
Prigogine sentì una certa analogia fra le sue teorie e la filosofia di Whitehead, ma Whitehead era pur sempre il coautore con Russell dei Principia Mathematica.
Non penso di leggere il testo della Oliveri, non perché non sia incuriosito dalla sua fatica, ma, perché il tempo è quello che è, perchè le cose da leggere sono un’infinità e, perché, in definitiva, la mia attività è quella scrivere romanzi che nessuno legge. E questa è davvero un’attività faticosa.




[1]Kroneker 1886 p. 155

domenica 29 marzo 2015

Nietzsche e i precursori del nazismo


Nietzsche e i precursori del nazismo


Mesi fa sul Web è stata a lungo dibattuta la questione sui rapporti fra la filosofia di Nietzsche è l’ideologia nazista a cui hanno partecipato, fra molti altri la signora Palazzotti, il signor Antonio Martone, la professoressa Tiziana Ferragina.
Di solito si parla di questi rapporti in termini di influenza utilizzando così la concettualità verticale secondo il paradigma del “chi agisce su chi e di chi subisce da chi”. Penso che sia un punto di vista incompleto. Quando Borges afferma che Kafka creò i suoi precursori, con questa frase riassume un complesso fenomeno di interazione culturale fra passato e presente, ricordandoci che la freccia è doppia e che la cultura ricrea costantemente un passato che, ricreato, impregna e modifica il presente. Quando Stravinskij reinventò il pianoforte percussivo, qualcuno, ricordando come il vecchio Rossini, in tempi di imperante romanticismo, lo usasse con le stesse modalità, creò il mito di un Rossini avanguardista e precursore di Stravinskij, anche se Stravinskij, non conosceva né fu influenzato dalle piccole composizioni di Rossini. Bisogna stare sempre molto attenti con precursori e rapporti d’influenza.
Come precursori del Nazismo sono stati indicati, saggisti, filosofi, romanzieri, poeti e musicisti come Wagner (e non solo per il suo feroce antisemitismo). Tra i filosofi sia Hegel che Nietzsche sembrano comunemente additati come precursori capaci di influenza culturale su ciò che diventerà il complesso di dottrine filosofico-morali del nazismo.

La filosofia post illuminista

Kant viene presentato come apoteosi di un illuminismo e di un pensiero critico volto a circoscrivere i confini delle possibilità del sapere certo: da una parte la conoscenza fondata, dall’altra le pericolose illusioni del dogmatico e contradditorio pensiero metafisico.
Dopo Kant la ragione illuministica sembra muoversi lungo due vie opposte e divergenti. Da una parte, la RAGIONE, dopo essere stato contrapposta alla fede come strumento di critica e demolizione del principio divino, con Hegel, Marx (e con diverse modalità, con Comte) impregna la Realtà e la Storia e diviene ragione costruttrice, dall’altra prosegue nella sua azione demolitrice. Se da una parte la Ragione costruisce la Storia fino al suo compimento in uno Stato etico che di quella Storia diviene l’esito finale e salvifico, dall’altra come Ragione demolitrice elabora un processo di successiva erosione. La Ragione, che tutto mette in dubbio, tutto aggredisce e demolisce, giunge, infine, a divorare non solo se stessa ma anche quel concetto di Verità di cui mai il pensiero aveva pensato di poter fare a meno. Mach, Poincarè, Dilthey, Nietzsche, Freud, Heidegger, Gadamer sono alcuni fra i pensatori che indirizzano il pensiero verso una progressiva distruzione dei concetti di razionalità e verità.
Persino in matematica, considerata come disciplina la più coriacea, alterna, a tenaci tentativi di fondazione e rifondazione, altrettanto tenaci sforzi di critica e demolizione.
Lo scoglio fu la teoria di Cantor sugli insiemi infiniti: per alcuni, un paradiso, per altri, null’altro che un fantastico e labirintico castello di carta.
La teoria di Cantor è oggi accettata da molti matematici ma non mancano i critici che, come in passato fecero Kroneker, Poincarè, Herman Weill, pongono il problema degli enti e dei ragionamenti ammissibili in matematica e rifiutano l’idea dell’infinito attuale
Parallelo è il processo di secolarizzazione delle teorie politiche e della politica che, se da una parte approda alle democrazie liberali in cui la verità è oggetto di contesa, dall’altra porta alla conversione del Dio monoteista divino nel Dio monoteista terreno. Un dio terribile e totalitario che, come il suo decaduto fratello divino, riunendo in sé l’etica, la verità e la politica, si presenta come l’approdo finale della Storia, lungo le vie del nazionalismo, del nazismo, del comunismo. Ideologie che, con le nuove entità ‘Partiti unici’, coi nuovi idoli ‘Razza’ o ‘Egualitarismo’, sono portatori, come il Dio monoteista del passato, di architetture totali di etica e verità. Il nuovo Dio è quel popolo che unito come un sol uomo, perviene finalmente a realizzare la Volontà Generale invocata da Rousseau.

La ragione demolitrice

La secolarizzazione del divino è stata, quindi, un processo evolutosi lungo due vie divergenti che potremmo chiamare della secolarizzazione demolitrice e della secolarizzazione edificatrice. Lungo una via di progressiva erosione dei concetti di verità, di razionalità, di fondamento e di logica. Tappe importanti furono la nascita delle geometrie non euclidee, la crisi dei fondamenti della matematica, le avanguardie artistiche, la nascita dello storicismo, del relativismo, del pragmatismo, di filosofie come quella di Nietzsche, Freud, Heidegger. La progressiva caduta di concetti connessi alle idee di verità, fondamento, monoteismo, anche se non direttamente inerenti a temi religiosi, causarono un indebolimento di analoghi concetti connessi all’idea del monolito monoteista.
Sminuendo il concetto di verità, si sminuì il valore della tremenda verità del Dio, sconnettendo la verità dalla morale, si demolì la monoliticità del Dio, demolendo i fondamenti e accettando progressivamente l’idea di una vita che galleggiava, si demolì anche il fondamento di quel Dio a cui si doveva, in ogni circostanza, fisica e culturale, far riferimento: un cardine, eterno, universale; tanto solido, da costituire un completo sistema di senso.
Tutto ciò portò alla pluralità delle voci, alla moltiplicazione dei centri di verità e di morale che, allentando la connessione tra vero, etico e divino, attenuano il sentimento di dovere verso il proprio Dio, squalificano il dovere di apostolato ed emancipano la dignità dell’uomo, non in quanto creatura di Dio, ma in quanto abitante in un mondo in cui risiede il senso della sua vita.
Questa è la strada che conduce a quel sentimento laicità, apparentato con quelli veicolati dalla secolarizzazione che permette di ricomprendere nel concetto di laico quello di religioso, rivendicando per il religioso la libertà di agire come laico nello spazio politico.
Nella storia della ragione ragione edificatrice troviamo Hegel e in quella della regione demolitrice troviamo Nietzsche, il primo in compagnia di Comte, di Marx, ma anche di filosofi della matematica e della scienza come Russell, come i primi neopositivisti, come Cantor e Hilbert, il secondo in compagnia di filosofi della scienza come Dilthey, Freud, Heidegger, Mach, Poincare. Pezzi da novanta da entrambe le parti.
Sembrerebbe che fra i due gruppi e in particolare fra Nietzsche e Hegel la distanza sia abissale ed è quindi più che lecito chidersi cosa li accomuni nella “precursione” del nazismo. Li accomuna poco ma certamente il concetto della morte di dio, anche se le due interpretazioni del concetto prendono decisamente vie divergenti

Le vie della secolarizzazione e la struttura del dio.

La secolarizzazione viene usualmente intesa come un depotenziamento del sacro, come una relativizzazione della verità, come una reazione al fanatismo e alla terribilità del dio delle persecuzioni, dell’inquisizione, della caccia alle streghe, delle sanguinose guerre religiose e, contemporaneamente come un approdo a una cultura laica e tollerante ma questo non è il suo unico volto. La morte di Dio non è solo il rifiuto di quel Dio trascendente che domina le nostre coscienze, che ci incute paura, che ci spinge ad armarci per difendere la fede ma, al contrario, è anche stata ed è tuttora, una sostituzione.
Molti uomini non possono vivere senza fede. Quella fede, quella religione, quel Dio sono per costoro sistema d’orientamento, interpretazione del mondo, fondamento e legge morale: un’ancora solida come una roccia a cui aggrapparsi. La verità assoluta, la giustizia assoluta, l’ordine delle leggi, la garanzia della stabilità del mondo, della morale, il senso stesso del vivere.
Per costoro, per chi ha ereditato, vissuto, metabolizzato quell’architettura di certezze, ritrovarsi senza Dio, senza fondamento, senza certezza di verità, significa essere deportati in un mondo alieno, senza senso, giustizia e verità. La loro vita galleggia sul nulla, perde certezza e senso: senza di quel sistema non possono vivere e si ritrovano alla ricerca ansiosa delle certezze perdute e del Dio perduto, pronti alla sua sostituzione.
E qual migliore sostituzione del vecchio e screditato Dio trascendente con un Dio immanente che ripristini sulla terra quella verità, quella architettura e quel senso? Metaforicamente il vecchio dio morto viene rivitalizzato e trascinato in terra con tutta la sua architettura di solide certezze, per assumere il nome di Dio Nazionalismo, dio Nazismo, dio Comunismo.
Il Naphta della Montagna incantata giunge a contrapporre alla visione di un Settembrini, democratico, disincantato e laico, la visione di uno stato armonioso in cui Comunismo e religione cristiana si sono integrati per costruire uno stato etico che realizzi, con la Volontà Generale, il regno di Dio sulla terra. Pur essendo il personaggio di un romanzo, Naphta impersona le aspettative dei tanti che hanno sentito nel passato e sentono nel presente la necessità di anticipare sulla terra l’addivenire della giustizia divina con le sue compensazioni di pene e di premi, con la giustizia, degli umili e l’umiliazione dei superbi che il Libro garantisce solo nell’al di là.
La filosofia di Tieiard de Chardin è ancora più visionaria. Partendo dall’incarnazione redentrice di Gesù, presente in ogni istante della vita dell’uomo, interpreta il cammino della civiltà umana come un eterno progresso di conoscenze e di moralità che avvicina l’uomo a Dio, il cui esito è l’identificazione dell’umanità col suo Dio.
Il termine ‘secolarizzazione’copre, dunque, un vasto ambito di senso. Da una parte si parla di ‘secolarizzazione’ come di un processo di perdita d’importanza, di indebolimento, di marginalizzazione del divino, dall’altra come di una vera e propria umanizzazione del divino, una sostituzione del vecchio Dio con un nuovo Dio; metaforicamente un trasporto del divino dal cielo alla terra, con ideali e ideologie terrene ma altrettanto terribili. Da una parte un depotenziamento, dall’altra una mutazione del divino senza alcun depotenziamento: il Dio viene portato dal cielo alla terra, pur conservando la terribilità, la grandezza e il potere posseduti in cielo.

La doppia legge

La storia narrata dal popolo ebraico nella Bibbia è un lungo succedersi di eventi ma, soprattutto, la storia dei rapporti fra Dio e il suo popolo; una storia di obbedienze e premi, di disobbedienze e castighi, una storia da cui emerge una dottrina in cui, secondo il credente Kierkegaard, si spalanca un abisso fra vita etica e vita religiosa. Come si può accettare come morale il comportamento di dio con Abramo, si chiede Kierkegaard, quando Dio gli ordina di sacrificargli il figlio Isacco? Come può Abramo accettare come morale l’assassinio del figlio, un’azione che, oltretutto, infrange la Legge, quella stessa legge che Dio ha prescritto al suo popolo? Ma Abramo è completamente sottomesso al suo Dio. La parola del suo Dio è legge al di là di ogni parola o legge vigente: anche se gli appare dolorosa, tragica, crudele, anche se è in palese contrasto con la legge morale dettata da Dio. Per questo si appresta ad obbedire e si ferma quando Dio glielo ordina, comprendendo così che Dio ha voluto sottoporlo a una prova terribile e che quello stesso Dio approva l’assoluta obbedienza da lui dimostrata.
Kierkegaard è chiarissimo: “Cosa c’è di morale in un simile comando? Che senso ha una simile prova se non un’affermazione dell’abisso fra fede e morale? Dio sta al di sopra di ogni moralità e di ogni legge, anche di quella che Lui stesso ha prescritto e prescrive ai fedeli? La vera fede sta in una obbedienza e sottomissione assoluta fino all’assurdo? Del resto il Dio della Bibbia non è quello che compie miracoli, infrangendo le leggi del mondo per castigare e premiare?
Due secoli prima Cartesio aveva anticipato Kierkegaard.
Nel suo testo Verità e Politica[1] la Arendt cita di Crozio a proposito della distinzione fra verità di ragione e verità di fatto, la considerazione che “Due più due fa quattro” è altrettanto vera  per Dio e per gli uomini: neppure Dio può metterla in discussione. Una affermazione che Cartesio rifiuta in nome di una giusto rapporto di potere fra creatore, creato e creature
Accettare che una proposizione matematica sia valida per Dio come lo è per noi, afferma Cartesio, significa accettare che esista un mondo di verità preesistente all’infinita sapienza di Dio, su cui Dio non ha giurisdizione e a cui Dio deve obbedire. Significa porre limiti alla sua sovranità ed equivale ad asserire l’esistenza di un secondo Dio. Tutto ciò, per Cartesio è inaccettabile. Assodato che il mondo e le sue leggi sono coerenti con le leggi matematiche, è ovvio concludere che Dio creò il mondo in conformità a quelle leggi ma è altrettanto ovviò che Dio, l’unico Dio, creò quelle leggi e creò la matematica. Dio non ubbidì al Dio matematica ma creò quella matematica che rimane nella completa disponibilità del suo potere, come rimane la possibilità di creare un’altra matematica e un altro mondo con altre leggi, come rimane nella sua disponibilità, la possibilità di creare le leggi morali e di mutarle. La legge suprema per il creato e le sue creature è la sua volontà.
Questa complessa stratificazione costituisce la complessità del Dio e prevede una legge disposta dal Dio, una giusta e imparziale amministrazione di quella legge che ricomprende la giustizia, e un Dio al di sopra e al di fuori della sua stessa legge. Una architettura che si replicarà nel dio secolarizzato, che, al di sopra della legge e della sua amministrazione, prevede un dio secolarizzato che dirama ordini al di fuori e contro la legge e che costruisce strutture parallele per eseguire quegli ordini.

I totalitarismi nazista e comunista occuparono solo parzialmente lo stato e le sue istituzioni. Venne progettata e realizzata una seconda architettura impersonata dal partito e dai suoi organi collaterali, (come la polizia politica), che si occupavano della gestione della verità, della scienza, della cultura, della dissidenza mediante processi, repressioni e sterminio del Nemico, interpretato come personificazione del Male. Il dio Totalitario come il Dio di Cartesio e di Kierkegaard, agì al di sopra della legge, creandola e variandola a piacimento.
L’organizzazione statale, del resto, non poteva essere toccata che marginalmente. La sua burocrazia era formata da impiegati e dipendenti dallo stato, che traevano la loro etica dall’ubbidienza a procedure stabilite dalla legge. Tanto l’ottuso impiegato, che l’alto burocrate erano una macchina che procedeva con le sue leggi, i suoi codici, le sue disposizioni che regolavano punto a punto le singole azioni. Una macchina le cui pratiche procedevano in conformità a disposizioni, provenienti da leggi che giuste o ingiuste, erano, almeno in teoria, le stesse nei vari uffici, rispettate quasi sacralmente in misura tale che qualsiasi sistematica alterazioni o eccezioni avrebbe portato allo sfascio l’organizzazione. Di qui la necessità di non inceppare la macchina, di lasciare inalterata la sua strutturale e acefala regolarità mentre il nuovo Dio procedeva a governare separatamente.
Il Dio partito era la verità, era la potenza, era la giustizia, una giustizia, addirittura al di sopra delle leggi scientifiche. In Russia, messo all’indice Freud, si decretò che ogni malattia psicologica era generata dell’organizzazione di vita e di lavoro capitalista, si stabilì che l’evoluzione era lamarkiana e non darviniana e, solo dopo lungo esame, vennero accettate le teorie di Einstein in quanto compatibili col materialismo dialettico. Ancor peggio nella Germania di Hitler.
Il paradosso di Kierkegaard divenne la normalità etica del nazista e del buon comunista che, al di sopra di tutto obbedivano ai rispettivi partiti, come testimoniano le sistematiche menzogne e delazioni, dove il vicino denunciava il vicino, il figlio denunciava il padre e il padre il figlio.

Esigenza di un'architettura 

Nessuno nega il carattere ideologico-religioso di nazismo e comunismo. Ciò che legava gli aderenti al gruppo, al partito, al capo non era una partecipazione critica ma fideistica, dove il singolo diveniva assai più simile ad un organo del gruppo che a un individuo. Gli aderenti insomma condividevano (e era loro imposto di condividere) credi, opinioni, amicizie, inimicizie.
A uno sguardo frettoloso sono entità come lo Spirito Hegeliano a potersi assumere compiti edificatori per divenire, come Spirito Assoluto e Razionalità, il nuovo Dio che edifica la Storia portandola al suo compimento.
In Hegel, in Marx, in Comte si compie il destino della ragione edificatrice secondo modalità già germinate nell’illuminismo di Rousseau. Rousseau inventò e sostenne due concetti decisivi: quello della Volontà Generale e quello della Civiltà come corruttrice della bontà primitiva dell’uomo. La prima fu alla base delle idee nazionaliste, naziste, comuniste e in genere di tutti i totalitarismi nel promuovere non la democrazia ma una società armoniosa in cui le singole volontà si dovevano unificare in un’unica armoniosa Volontà Generale. La seconda fu adottata in Cambogia dal partito di Pol Pot, che, in conformità all’idea di un uomo corrotto dalla civiltà, dall’istruzione, dalla cultura, sottopose i cittadini ‘liberati’ alla sua cura rigeneratrice con la ferma determinazione di costruire non una nuova società comunista di tipo sovietico, ma di ritrovare una verginità, le cui tracce, redentrici potevano essersi conservate solo nell’incolta, povera e arretrata civiltà contadina.
Con ottusa, ideologica, criminale determinazione il partito di Pol Pot suddivise i cittadini cambogiani secondo un duplice criterio: in base all’età (i più giovani erano i meno corrotti) e in base alla cultura (gli incolti, non alfabetizzati abitanti delle campagne costituivano l’èlite della nuova società) Dopo una prima strage in cui la parte colta della popolazione fu trucidata (spesso bastava portare gli occhiali) gli abitanti delle città furono deportati in campagna a lavorare la terra. Ma Pol Pot non credeva in una redenzione dei ‘corrotti’ e  i ‘cittadini’ furono sottoposti a ritmi di lavoro più pesanti, a razioni di cibo più povere, a continue punizioni. Come si sa e come era facile prevedere, la situazione precipitò velocemente verso un generalizzato massacro e presto a capo dei campi di lavoro furono insediati giovani contadini, addirittura ragazzi, che esercitarono con ferocia il loro furore ideologico con sistematici omicidi a bastonate.
Eppure noi non incolpiamo Rousseau di protoPolpottismo.

Hegel e la stratificazione del Dio

Ho accennato a Hegel e al suo dio immanente in evoluzione razionale verso l’Assoluto, come se a lui si potesse imputare quella degenerazione della secolarizzazione ispiratrice dei totalitarismi. Ma ho parlato di ‘sguardo frettoloso’. Tanto frettoloso da essere falsificante; perché se è giusto, a proposito di Hegel, parlare di Stato Etico non va certamente cercato in lui quel Dio, quell’apertura verso la mostruosità di cui parla la Arendt quando afferma:

“Per molti di noi, ci sono voluti antri vent’anni per fare i conti con ciò che era accaduto… […] All’epoca, quell’orrore, nella sua nuda mostruosità - A me e a molti altri – sembrò andare al di là di ogni categoria morale, infrangendo ogni barriera giuridica. Era qualcosa che gli uomini non potevano punire, in maniera adeguata, né perdonare […] Le malvagità senza precedenti del totalitarismo hanno letteralmente polverizzato le categorie del nostro pensiero politico e i nostri criteri di giudizio morale. [2]

Il problema non è semplicemente la necessità di un Dio, senza il quale ci si può sentire orfani, privi di guida, d’orientamento e di quel senso importante che è il Senso della nostra vita nel mondo. Non è solo il Dio che viene a mancare, ma tutta un’architettura che non è certo compensabile dall’ottimistico, razionale, sistema di Hegel dove non esiste l’Avversario, dove non esiste il Diavolo, dove non esiste il Male.
Ciò che viene a mancare è un sistema che comprenda Dio, la parola di dio, gli interpreti, i sacerdoti e soprattutto il Male, il Diavolo, l’infido nemico con tutta le sue perfide e subdole arti. Un Male personificato dal Nazismo nella razza ebraica da sterminare, e nel comunismo nel criminale capitalismo imperialista. Vengono a mancare le stratificazioni del bene, del male, la doppia morale (l’Abramo di Kierkegaard), la fede come ponte fra le stratificazioni morali.
In Hegel non c’è nulla di tutto ciò. Non c’è il Nemico da odiare e distruggere, non c’è il nemico-inteso come Male e Demonio ma, al contrario, la sua filosofia è compenetrata da un ottimismo razionale in virtù del quale nulla della realtà sfugge alla razionalità e viceversa. La negatività esiste ma non è il Male: o è l’antitesi che si oppone alla tesi, o la tesi che si oppone all’antitesi; tesi e antitesi sono poi due momenti della dialettica dello Spirito fra le quali avviene la conciliazione della sintesi: siamo lontanissimi dal Dio ideologico e totalitario. Non è in Hegel che va cercato quel dio, quell’apertura verso la ‘mostruosità’ che fa dire alla Arendt che le malvagità senza precedenti del totalitarismo avevano polverizzato le categorie del pensiero politico e i criteri per i giudizi morali.

Nietzsche

Ben più che a Hegel il nazismo poté ispirarsi a Nietzsche. Nella riduzione di ogni precetto morale a ideologia e nel concetto di ‘superuomo’ capace di emanciparsi da ogni ideologia (anche se Nietzsche non usa questo termine), i nazisti potevano rivendicare il diritto-dovere di essere “superuomini”, di quell’andare al di là di ogni categoria morale, infrangendo ogni barriera giuridica di cui parla la Arendt.
Ma la filosofia di Nietzsche non ha nulla a che fare con le architetture  del Dio celeste secolarizzate in terra. La sua è una filosofia soprattutto demolitrice e, al di là della morte del dio religioso, si espande contro tutto quel sistema politico-morale normalizzatore e pacificatore che si esprime secondo le linee di una salvifica e armoniosa coesione sociale contro le fatiche della democrazia. In quel vasto e articolato smascheramento dei grandi miti metafisici, morali e politici, delle soffocanti e barocche costruzioni della società moralmente e civilmente egemone, mi sento solidale con Nietzsche.
 Ingiusto sarebbe addebitare a Nietzsche un ruolo di ideologico di supporto a quelle che saranno le ideologie fasciste e nazista ma altrettanto illogico negare che a quel pensiero, a quella semantica, a quel superamento di ogni morale, gli ideologi nazisti poterono facilmente appoggiarsi.

La società civile
Tutti abbiamo imparato quanto si più conveniente e quanto si semplifichi, la nostra vita sociale se fin da piccoli, obbedienti, ci conformiamo alla “Bibbia” comportamentale e intellettuale del nostro ambiente famigliare, scolastico, lavorativo o sociale. Una omologazione tanto radicata e diffusa da indurre molti a credere in una predisposizione genetica.
A questa ramificata “coesione sociale”, dalle caratteristiche illiberali e antidemocratiche, non tutti sono disposti a cedere.  Non esistono solo omologati ma anche individui che, come Nietzsche, si ribellano. Una ribellione, forse, in Nietzsche talvolta “sopra le righe”, come suggerisce Antonio, ma anche motrice di sana energia .
Ogni tempo ha la sua società civile egemone in etica, cultura, politica e gusto artistico. Anche il nostro tempo tempo ce l’ha e come! Egemone, potente, capace di dettare regole nella morale, nell’arte, nella politica e di sanzionare boicottare, squalificare moralmente e intellettualmente chi a quella società civile, ai suoi “maitre a penser”, non si adegua, chi ai loro editti morali, civili, estetici si ribella. Come tutte le società civili anche quella di oggi si appella alla parola magica “principi”, e si dimostra infaticabile nell’assegnare a questi principi validità universale ed eterna.
Ma cos’è questa società autoelettasi “civile”? Se la sono mai posta seriamente questa domanda coloro che se ne sentono parte, che la citano e la inalberano come un vessillo contro l’innominabile società incivile? Si sono mai chiesti se non sia altro che una società elitaria e moralmente egemone, quella stessa che sotto varie forme in ogni età e situazione sociale cerca di emergere e di egemonizzare moralmente e culturalmente la società? Se non sia, ad esempio, la degna versione modernizzata di quella società che spadroneggiava nell’Inghilterra vittoriana, post vittoriana e che è riuscita a distendere le sue lunghe propaggini protettive fin al secondo dopoguerra? Che non sia, sotto nomi diversi, quella stessa che fu di volta in volta paladina dell’alta funzione civilizzatrice e moralizzatrice della civiltà occidentale! Quella stessa che celebrò l’imperialismo, quella stessa che portò, anche con la violenza, la parola di Dio ai pagani e ai selvaggi, quella stessa che si sottomise ad adorare il DIO-NAZIONALISMO, quella stessa che condannò a umiliante galera Oscar Wilde, quella stessa che condannò l’alta immoralità gay del matematico Turing, (di cui finalmente oggi si comincia a parlare) Quella stessa che lo processò e lo condannò alla castrazione chimica, inducendolo al suicidio!
Umiliamoci noi incivili di fronte a sì grandi civili ed etiche teste e ricordiamoci sempre che quel maledetto Turing era, sì, un grandissimo matematico, aveva, sì, salvato l’Inghilterra e il mondo, guidando l’equipe di matematici che aveva decifrato i codici nazisti, che aveva, sì, elaborato quel ciclo operativo conosciuto in tutte le civiltà scientifiche come Macchina di Turing, ma che era anche un maschio degenerato, un maschio contro dio e contro natura. Un maschio che si accompagnava sentimentalmente e sessualmente con un altro maschio e non, come prescrivono morale cristiana, morale naturale e morale civile, con una femmina. E allora riconosciamola la grandezza della società civile!
Certo i miei nipoti, se si ritrovassero a vivere in una dittatura, pensando alla mia attuale opposizione alla società civile, potrebbero interpretarle, del tutto erroneamente,  come un’opposizione alla democrazia e questo potrebbe succedere anche alla generosa signora Palazzotti, che contro la democrazia, da lei interpretata come dittatura della maggioranza, auspica una pluralità di gruppi democratici, sia in senso orizzontale che verticale, entro una cornice leggera di leggi generali.







[1] H. Arendt, Verità e Politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1995
[2] H. ArendtResponsabilità e giudizio  (a cura di J.Kohn), Torino, Einaudi, 2003, pp.19 e eg.