giovedì 31 ottobre 2019

POL - Se il populismo vuole allungare le mani sulla cultura. Panarari 1/3


POL Se il populismo vuole allungare le mani sulla cultura. Panarari 1/3 

Un appello prima del famigerato Robespierre. Chi possiede la cultura possiede la società. Chi è fuori della cultura viene ostacolato cacciato non pubblicato. Uniamoci e Facciamo una nostra casa editrice, un nostro giornale culturale, produciamo un nostro canale televisivo. Senza posizione nella diffusione culturale tutti gli exploit sono destinati a sgonfiarsi. Dotiamoci di questa base unendo le nostre forze in questo progetto. Scrivete a esaiae07@gmail.com esaiae@libero.it e date la vostra disponibilità e la vostra adesione.  

Un titolo con almeno due termini, “populismo” e “cultura”, congiunti dal volgarissimo verbo “allungare le mani” che evoca nella sua vasta significazione anche l’azione del furto, e quello della palpazione sessuale.
Casuale? No, voluto.
Come sempre lo scritto di Massimiliano Robespierre pardon Panarari è di rara volgarità anche se il culmine lo ha raggiunto in passato quando espresse il suo entusiasta plauso all’abolizione dal palinsesto RAI dell’Isola dei famosi. Anche allora Robespierre Panarari plaudiva ad un’opera di censura in nome della cultura, della civiltà, della società civile.
Posizione non diversa da chi malignamente afferma che il 50 per cento degli elettori della lega ha appena la licenza elementare. Beh, siamo in tanti allora. Ma quali persone hanno solo la licenza elementare e non le succulente lauree d’elite, dopo l’appropriata base di un buon liceo classico, con tanto di greco? Probabilmente molti di questi rozzi, ignoranti, ha cinquanta e più anni e viene dalla notte dei tempi; da quella notte di quel povero dopoguerra, quando al lavoro si andava in bicicletta o su qualche vecchia Vespa e alla fine delle elementari per aiutare per campare, per ricostruire, si faceva l’operaio in catena, il tubista, l’elettricista, il cameriere, il meccanico aggiustatore, il tornitore, il fresatore, il muratore, il piastrellista e, non raramente, quando ce n’era necessità, tutti questi mestieri.
“Perché queste scelte faticose e stupide” si chiederanno i polli d’elite “I licei classici ci sono sempre stati, la lingua greca pure e allora perché erano così sciocchi da fare mestieri così faticosi? Valli a capire questi ignoranti che oggi votano Salvini!”
 Molti si mettevano come si diceva allora “in proprio”, diventano impresari, in tutti i rami e per loro oltre le conoscenze del mestiere, dei mestieri - arabo per i polli d’elite - fu necessario imparare a districarsi tra permessi, tasse, cambiali, libri contabili, insoluti, estensione e calcolo di preventivi, programmazioni: un mare di conoscenze di cui dovettero appropriarsi senza ricorrere ai banche di scuola e non sostenute da una buona, sana, efficace, unificante conoscenza di quel greco classico, che solo il liceo poteva garantire. Ma anche chi non era in proprio era un’arnia di conoscenze; dopo il lavoro in fabbrica, i nostri baldi, con le solo elementari, coltivavano i loro campi, si aggiustavano, e si costruivano la casa, acquisendo oltre alle altre già in loro possesso, queste nuove, svariate conoscenze e abilità.
Fecero l’Italia e il suo benessere. Impararono sul campo le conoscenze necessarie, pagarono con il loro lavoro i licei ai loro ricchi, colti, potenti, compatrioti.
Solo a questo punto si può aprire con una visuale non ampia come dovrebbe essere ma comunque più ampia di quella stitica e snobistica dell’elite, il discorso sulla cultura, attualmente recintata al teatro, alle mostre, al cibo, al vino, alle nocciole, al cioccolato, ai bachi da seta, ecc. Questi sì che sono campi abbracciati dalla galassia Gutemberg, soprattutto quella dei teatri.
Una cultura oltretutto coltivata non tanto nei teatri ma nei ridotti dei teatri, nei salotti alla moda, dove ancora elitariamente si discrimina, dove coltissime posizioni snobistiche entrano fra loro in competizione e costruiscono altre scale di snobismo come quelle di un Puccini troppo popolare, di Mascagni troppo sanguigno e volgare, quella di un Verdi fracassone e troppo popolaresco e poco spirituale, Troppo sempliciotto e terragno a paragone del divino, spirituale Wagner. Elitarismo che non coinvolse Stravinskij, che, in una delle sue conferenze, dichiarò: So che vado contro l’opinione comune che vuole il miglior Verdi sia nell’alterazione del genio al quale dobbiamo Rigoletto, il Trovatore, l’Aida la Traviata. So di difendere precisamente quello che una elite recentissima disprezzava nell’opera di questo gran compositore. Ne sono spiacente; ma affermo che c’è più valore e più inventiva nell’aria de “La donna è mobile”, per esempio, in cui questa elite non vedeva che deplorevole facilità,di quanto non ce ne sia nella retorica e nelle vociferazioni della Tetralogia.
Per questa predilezione per il popolare, per la sua concezione artigianale dell’arte, per l’umiltà e l’indifferenza verso l’elite culturale con la quale percorre il suo itinerario artistico e culturale fino alle splendide ultime opere influenzate dalla dodecafonia, Stravinskij è il nostro artista.
Sulla cultura dei nostri pomposi addetti, Mattioli è addirittura sarcastico quando scrive “Centenario della morte di Paisiello. Quasi nessuno dei grandi teatri se l’è ricordato (ammesso che lì qualcuno sappia chi era Paisiello).

Intervistata dal Giornale Cecilia Bartoli dichiara  Nei teatri italiani troppi privilegi: vanno licenziati tutti”, “Se accetterei la direzione di un teatro italiano? «A patto di poter licenziare tutti e ripartire da zero. Probabilmente la strada è proprio questa: fare un po’ di pulizia generale”. 
Forse ha ragione con l’esigenza di ripartire da zero. Forse sul suo giudizio influiscono l’enorme considerazione di cui gode all’estero e la disattenzione di cui è oggetto in Italia.
Certamente la visuale da cui Cecilia Bartoli guarda ai problemi della lirica italiana è di parte. Lei fa parte di quelle persone che dalla lirica trae fama, ricchezza e vita brillante.
Fama e ricchezza e vita brillante che a parte qualche eccezione sono pagate a caro prezzo anche da coloro ai quali il teatro di prosa, come l’opera e, più in generale, la cosiddetta musica classica, non piace, o comunque, anche se piace non frequenta, a favore di coloro che nella lirica lavorano e dalla lirica ricavano emolumenti generosi. L’opera come dice un ministro italiano dà da mangiare ma non certo a tutti. A me come a molti altri, che amano la lirica ma non lavorano nel campo e non frequentano i teatri, la lirica non solo non dà da mangiare ma esige voracemente e incessantemente danaro che pesca delle nostre tasche. Io e quelli come me devono dirlo chiaro: coloro che frequentano i teatri lirici e di prosa sono parassiti: metà, più di meta del loro biglietto lo paghiamo noi. Perché dovremmo continuare a farlo? Se lo paghino loro. Come si pagano i pomodori, gli aperitivi, i taxi e via dicendo, si paghino anche gli spettacoli senza chiedere i nostri soldi. Anche i tifosi preferiscono andare allo stadio per assistere alle partite dal vivo ma si pagano il biglietto oppure si abbonano e le guardano in televisione. In ogni caso con soldi loro non con i soldi miei.


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