sabato 2 novembre 2019

Se il populismo vuole allungare le mani sulla cultura. Panarari 2/3



Un appello prima del famigerato Robespierre. Chi possiede la cultura possiede la società. Chi è fuori della cultura viene ostacolato cacciato non pubblicato. Uniamoci e Facciamo una nostra casa editrice, un nostro giornale culturale, produciamo un nostro canale televisivo. Senza posizione nella diffusione culturale tutti gli exploit sono destinati a sgonfiarsi. Dotiamoci di questa base unendo le nostre forze in questo progetto. Scrivete a esaiae07@gmail.com esaiae@libero.it e date la vostra disponibilità e la vostra adesione.  premi qui sotto per continuare a leggere




Se il populismo vuole allungare le mani sulla cultura. Panarari 2/3 

Cultura
Il nostro Panarari parla di cultura. Immagino che sappia cos’è. In questo caso questo esperto in insulti, ci illustri, ci guidi, ci dica:
è cultura il resto di Peano? E cultura un verso della Secchia rapita di Tassoni? E’ cultura il teorema di De l’Hopital? Sono cultura una ottava del Pulci, il concetto di infinitesimo, l’anno di Marenco, il senso di termini come polo, polare, ellisse centrale d’inerzia? E’ cultura la logica deontica del “Non poteva non sapere”? La capacità di un tornitore di leggere un disegno meccanico e ricavarne un prodotto?
Insomma dove abita la cultura? Quali sono i suoi confini, dove stanno il cancello d’ingresso, la scala per accedervi? Cos’è la galassia Gutemberg?
Esiste una Galassia non Gutemberg? Che vuol dire “non passa attraverso la galassia Gutemberg”? Vuol dire che passa di meno attraverso i libri di carta stampata, che passa di più attraverso gli scritti in forma e-book, o comunque pubblicati sul web?
L’articolo di Panarari attinge abbondantemente al comico, come comiche furono le parole di Bobbio sull’editore Einaudi che, a suo parere, avrebbe portato “la cultura agli Italiani”. Forse Bobbio prima avrebbe dovuto leggere il saggio sulla denotazione di Russell, ma a parte ciò sono stati altri gli editori che hanno portato la cultura non agli italiani, ma a tanti italiani e per noi, che diventavamo adulti, non furono certo le dispendiose, inaccessibili, edizioni Einaudi.
Una vera manna fu, invece, l’orgia di dispense culturali a basso prezzo che cominciò a uscire nelle edicole. Parlo di Capolavori nei Secoli, de I maestri del Colore, editi dai Fratelli Fabbri, di quelle geografiche de Il Milione da cui io, che non avevo mai sentito altro che le nenie dei papaveri, delle papere, dei balli del mattone, delle mamme amatissime, degli alberi infiniti in una stanza, e che pensavo che la musica fosse tutta lì, appresi giovanissimo l’esistenza di una storia della musica. Dal Milione appresi che esisteva in ogni paese una storia della musica che unificava i secoli, che erano esistiti Monteverdi, Palestrina, Mozart, Paisiello, ecc. Più tardi, negli anni, uscirono nelle edicole i fascicoli di Storia della musica.
Molti pezzi classici come le sinfonie di Beethoven, la Sesta di Ciaikovskij, la Sinfonia del nuovo mondo, ecc. o opere come Otello, ecc. erano in vendita alla Standa per la modica e popolare cifra di mille lire a disco. Rizzoli e pubblicava i capolavori nella Bur: tutti i capolavori più o meno grandi del passato anche recente, in edizione economicissima e povera. Mondadori pubblicava accanto all’aristocratica e cara Medusa di scrittori moderni e contemporanei, collane di libri economici (bmm e Pavone ad esempio), che abbracciavano romanzi moderni, classici, pittura, architettura saggistica, filosofia.
L’offerta di cultura a costi popolari era ampia e non veniva da Einaudi. L’Italia posava mattoni per le abitazioni popolari e meno popolari ma anche mattoni culturali per le tasche proletarie. L’unico problema era l’abbondanza e la necessità per i giovani di quei tempi, non finanziati dalle ricche famiglie elitarie, era l’impossibilità di comprare tutto e di dover fare scelte ogni settimana. Ma furono comunque tempi culturalmente folli. La lotta politica fra due grandi partiti effettivamente popolari andava a braccetto con l’abbondante offerta di cultura a prezzi popolari.
Accanto ai grandi editori interclassisti in grado di accontentare tutti i gusti e tutte le tasche, c’era l’Editore Einaudi, uomo ed editore di sinistra, impegnato nel costruire una supremazia culturale con edizioni ricche, belle e care non certo per le tasche proletarie. I suoi erano tutti cuciti eleganti, veri arredi per librerie di gente snob, ignorante e non ignorante. Era ovviamente l’editore osannato dalla società civile, dall’elite nobile e radical chic, che disprezzava i grandi editori e ancor più li disprezzò fino all’odio allorché a rilevare una Mondadori in fallimento per le perdite T.V., arrivò l’arcinemico Berlusconi che poi salvò dal fallimento anche Einaudi. Non un merito per la società civile ma un’altra offesa da lavare a tutti i costi.   
L’Einaudi rappresentava la negatività della democrazia italiana, l’immagine della repubblica platonica dell’Espresso e dell’egemonia culturale radical chic. Il PCI s’era sposato con L’Espresso e s’era convertito alla repubblica aristocratica di Platone ed era stato un matrimonio fra asini e muli, grandi bestie ma che generano solo improduttivi muli.
Dice Robespierre Panarari: Qui siamo andati ben al di là del dibattito sui caratteri della cultura di destra, perché per ideologia “neopopulista”molto semplicemente “la cultura non dà pane” e soprattutto, non procura voti.
Non c’era bisogno di Panarari perché ci accorgessimo che accanto alla cultura targata Einaudi è nata da tempo quella targata Adelphi. Nata in ritardo e subito assimilata: stessa puzza sotto il naso, stessa discriminazione culturale, golem costruito con lo stesso fango.
Una cultura che avrebbe potuto essere un passo avanti rispetto al polpottino primo gradino di Einaudi ma che frequentava gli stessi ovattati salotti, gli stessi club esclusivi, che brindava con la stessa mafia di giornalisti venduti. Gli editori che vorremmo sono quelli coi quali siamo cresciuti, in un’Italia dove erano forti due grandi partiti popolari, veramente popolari come D.C. e P:C.I.
Se Panarari queste parole le avesse dette molti anni fa, quando L’ESPRESSO e la Famigerata Cederna, anticipando Bossi, diedero vita il colpo di stato che portò alle di missioni del presidente Leone, colpevole di appartenere una cultura popolare napoletana, quella del sangue di San Gennaro e delle corna, quando il vecchio PCI consumato dalla storia, non sapendo che pesci prendere, dopo aver rifiutato le spregevoli ed elitarie guide spirituali e culturali del Partito d’Azione e del Manifesto, visto l’enorme successo dell’operazione contro Leone, scelsero l’Elite e si rifugiarono sotto la protettiva, borghese, elitaria coperta dell’Espresso, scegliendolo come Chaperon per entrare nel palazzo della repubblica dei saggi di Platone.
Molti di noi forti di quelle letture, di quella musica poterono tranquillamente affrontare istituti tecnici come scuole secondarie o università come fisica, politecnico, matematica, potendo infine guardare a voi umanisti con un giusto senso di superiorità, rifiutando anche il termine di intellettuali che appartiene ad avvocati, a letterati, a laureati di filosofia, del tutto privi di cultura scientifica e tecnologica. Gente, immagino, simile a lei. Gente così disabituati a pensare che oltre al NO BERUSCONI, NO SALVINI, LA CULTURA CI FA MANGIARE proprio non riescono ad andare.

La Cultura ci fa mangiare? Polemica vecchia e risposta semplice: sicuramente la cultura - e con questo termine abusato, intendo i teatri di prosa e lirici, gli attori, i registar, i conductstar, i dipendenti di stabili, di regi - da mangiare ne dà in abbondanza. Peccato che questo benessere venga prelevato dalle tasche di tutti i contribuenti. I contributi statali, regionali delle fondazioni sono enormi e vanno oltre il 50% dei costi. Quando i difensori dei teatri, delle fondazioni, dell’intrico di consigli di amministrazione mi spiegheranno perché io devo pagare per il loro sollazzo che forse neppure esiste, mentre esiste tanta ostentazioni di abiti e di presenze, allora si potrà cominciare a discutere.
Inutili i richiami alla cultura e all’arte diffusa dai teatri quando neppure il teatro crede più in se stesso. Oggi gli Dei del teatro di prosa e lirico non sono più i Verdi, i Puccini, i Mascagni, i Pirandello ma i regi-star Mazinga e i conduct-star Goldrake. La civiltà culturale delle società civili e imperiali sono sterili come i muli. Producono burocrati e copie ma non arte. Torino, la tanto esaltata Torino, paragonata da molti alla Firenze rinascimentale, non produce nulla né prosa né lirica ma si limita a replicare impavida le solite Traviate, i soliti Rigoletti, diretti dal Conduc-star di turno, vero mago Zurlì, e dal Regi-star di turno che trasforma il Mar Rosso in un panzer israeliano. Nulla che fare con le città rinascimentali come Firenze e Venezia coi loro affreschi, le loro pale, i loro palazzi, l’invenzione dell’Opera, la grande fecondità di filosofi, scrittori, poeti, pensatori che parlavano e scrivevano in volgare, lontani dallo stantio aulico latino della società civile papale e imperiale, neppure laureati, producevano opere, spremevano le loro cervici, creavano capolavori e non repliche di capolavori. Non erano studiosi Leonardo, di Monteverdi, di Machiavelli ma erano Leonardo, Monteverdi, Machiavelli. Non avevano frequentato le università,non avevano sentito i professoroni, disquisire sul sesso degli angeli, sull’anima, sulla natura di Maria, ma avevano lavorato in bottega e letto libri. Quelle erano le loro università. Del resto nessuno fra i grandissimi operisti dell’Ottocento, Verdi, Wagner, Musosky, aveva frequentato il conservatorio. Se lo avessero fatto, i severi e colti professoroni sarebbero riusciti a nebulizzare la loro grande arte.  

Certamente l’Opera, invenzione italiana, è un fiore da ostentare. Certamente è un ottimo biglietto da visita per tutto il Made in Italy ma quanti teatri d’opera? Quanti ne servono per conservare il prestigio dell’Italia operistica, inventrice dell’opera? Che scala di importanza va attribuita ai vari centri di quella che viene chiamata produzione musicale ma che in realtà non produce nessuna nuova composizione ma solo repliche, sperpero e parassitismo? I grandi centri storici sono Venezia (dove lavorarono Monteverdi, Cavalli e Vivaldi e dove nacque l’imprenditoria teatrale), Roma (dove produssero Carissimi, Scarlatti, Rossini, dove ai primordi venne messa in scena la rappresentazione di Anima e corpo di Emilio del Cavaliere, Milano (la Scala è il teatro d’eccellenza del romanticismo), Napoli (patria o patria d’elezione musicale di compositori come Paisiello, Cimarosa, Piccinni, A. Scarlatti, ecc. dove produssero anche Rossini e Donizetti). Ma quattro sono troppi, oltre l’importanza storica bisogna attenzione al bacino di utenza. Se i bacini di utenza di Milano e Roma sono appena discreti quelli di Napoli e Venezia non lo sono. Due grandi teatri d’opera con funzioni di produzioni di alta qualità sono sufficienti, quattro sono tollerabili.
Questo per teatro d’opera ma il discorso del teatro di prosa è tutt’altro. Non siamo noi a condannarlo ma lo stesso teatro a sussurrare, sotto lo strepito dei registi e degli attori: “Sono morto”. Dopo i grandi dei primi decenni del secolo scorso, solo Godot è stato vanamente atteso. Al suo capezzale furono invocati, decine di anni fa, anche gli scrittori più in voga come Moravia, che s’impegnò ma con risultati scadenti.
Questa è la nostra sfida a voi elitari: non era difficile prevedere che questa aristocratica elite avrebbe ridotto l’Italia e l’Europa al disastro, all’umiliazione delle classi medie, alla rabbia sociale, alla povertà di tutti e alla ricchezza di pochi. Il pensiero unico di sinistra trionfava, il nuovo elitarismo di sinistra trionfava, alimentato da una moltitudine di giornalisti, attori, registi, che vivevano la loro brillante vita a spese dei contribuenti. Ripetiamo: perché io dovrei pagare il biglietto d’ingresso a chi va all’opera o a teatro? Perché? Per consentire a pochi privilegiati di pasteggiare ad aragoste e Champagne? Per consentire ad attori, cantanti, saltimbanchi di riscuotere uno stipendio che non guadagnano? Per aggiungere ai parassiti sempre nuovi parassiti? No, non allunghiamo le mani su ciò che lei chiama cultura, senza sapere cosa sia questa benedetta cultura. Non ci interessano le vostre intricate foreste di fondazioni, presidenti, consigli d’amministrazione. Vi vediamo come vuoti, ciechi, ignoranti relitti, come gli artisti e gli studiosi rinascimentali vedevano, i professoroni delle università clericali, muli, inutilmente dotti in agiologia che discutevano sul sesso degli angeli in latino, in una lingua morta il Latino, ormai linguaggio privato coltivato solo nelle loro serre per discutere sul sesso degli angeli?
Non occuperemo le vostre sedie che guidano i vostri allevamenti di polli d’elite, di parassiti che vivono, mangiano e banchettano: parlo di tutta la gente dei teatri di prosa e lirici, di tutti i finanziamenti ai quotidiani che producono tante inutili pagine, pagano inutili stipendi coi nostri soldi, consumano pioppi, sprecano energia per trasformarli in carta li riempiono di inutili articoli, che ripetono sempre le vostre manfrine.
La parola d’ordine deve essere abbattere le elite, cacciare i parassiti, chiudere gran parte dei teatri lirici, chiudere tutti i teatri di prosa che non siano in attivo, eliminare i contributi ai giornali ed agire con decisione: con grande decisione. I giornali sono appestati da giornalisti ed opinionisti in lotta a fianco dell’elite e i conduttori televisivi non sono da meno.
Sì, certo, Professor Panarari, vogliamo mettere le mani non sulla cultura ma su ciò che l’elite considera cultura: non sopra ma dentro, nella vostra melma, che ruba i nostri faticosi denari per ripetere quotidianamente.
“Noi siamo belli, colti, fraterni, accoglienti, intelligenti, voi siete brutti, barbari, ignoranti, qualunquisti” mentre in realtà siete ignoranti come una professoressa in lettere italiane, che da noi irrisa perché, da intellettuale quale voleva apparire, non aveva letto neppure Guerra e Pace, neppure Il Rosso e il Nero, reagì gridando che la cultura era partecipare ai cortei del primo maggio e rinnovare quello spirito ogni giorno.
E’ questa la vostra cultura professoron Panarari? E questa la sua cultura Professoron Panarari? Approva, professoron Panarari questi treatri d’opera ignoranti che rappresentano in permanenza Traviate e Rigoletti? Pensa anche lei, come molti suoi elitari, che esiste solo il Rock, che la musica sia nata con Papaveri e papere, sia proseguita con gli Alberi infiniti in una stanza, con i “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” e poi finalente le canzoncine filastrocche dei Beatles, non migliori delle canzoni tipo Furia cavallo del West o della romantica Haidy?
Non sono diversi dagli snob dell’opera che pensano che la musica sia iniziata con Mozart.
Nulla da dire su chi privilegia il rock e i canzonettari. E’ una questione di gusti e sui gusti non si discute. E poi loro campano coi soldi che raccolgono con la vendita dei brani e con i grandi concerti dove gli ascoltatori saltano e cantano con loro, senza chiedere i nostri soldi. Un entusiasmo stridente con le mummie che seggono nei teatri d’opera.
No, non ci interessa allungare le mani sui vostri salotti ovattati anzi: fine dei finanziamenti statali a teatri di prosa. Altra cosa l’opera che, nata in Italia, contribuisce a creare il fascino dell’italian style e della nostra moda, unica arte creativa, viva e produttiva. Ma in ogni caso finanziamenti moderati e solo a Napoli, a Roma, a Milano, a Venezia.
Le università italiche, fogne ignoranti e generatrici di parolai professoroni.
“Qui siamo tutti parenti e gli altri li schiacciamo” intitola la Stampa del 29 giugno, aggiungendo “Così i baroni universitari truccavano i concorsi."
Non solo parenti ma tutta l’elite è impegnata per se stessa e per i suoi lupetti, sui quali sarebbe veramente ora di fare un’inchiesta seria. Oppure vogliamo arrivare a un punto che qualche pazzo, esasperato, prenda il fucile e spari a un convegno per azzerare lupi e lupetti?

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