venerdì 31 gennaio 2020

12 La società civile e la musica seconda parte capitolo 12 de il Manifesto degli incivili


Ciò detto ci porta ai costi. Il rock, i concerto rock, non ci costano nulla anzi sono redditizi per le tasse che pagano, mentre la musica “colta” e in particolare l’opera lirica, il mostruoso complesso dei teatri, è costosissimo e a pagarlo siano noi contribuenti. Chi va all’opera paga un biglietto d’ingresso di gran lunga inferiore al costo, la differenza la pagano in egual misura chi all’opera ci va e chi non ci va e non vedo perché chi non ci va, (me compreso dal giorno dell’evento Strehler),  debba pagare per chi ci va.
L’unico ragionamento a giustificazione può essere che l’Opera e l’Italia vanno a braccetto, che l’opera è un prodotto che aiuta tutta l’industria italiana, il design italiano, la moda italiana, il turismo italiano, ecc. Sono solo in parte d’accordo ma, con tutto ciò, non vedo perché questa differenza fra costo e prezzo del biglietto debba pagarla chi non ci va che non usufruisce dello spettacolo o chi ne trae vantaggio, ammesso che ne tragga, perché non vedo proprio come chi frequenta le spiagge italiane, le montagne italiane, le città d’arte, chi viene in Italia a fare i bagni, a salire sulle montagne a visitare monumenti e musei, non verrebbe in Italia se i tredici o quattordici teatri d’opera nonché i vari e numerosi festival di musica classica e lirica fossero la metà, se i loro costi non fossero stratosferici, se i carissimi Wonder Men, gli eccezionali Uomo ragno e Superman, parlo dei nostri Registar e Conductstar, non fossero strapagati e celebrati come nuovi dei, se i vari direttori, i vari consigli d’amministrazione, i vari sovrintendenti, le varie fondazioni, ciascuna col suo presidente, vicepresidente, consiglio di amministrazione, non fossero ridimensionati all'ottanta, novanta per cento o, addirittura, con una totale riorganizzazione aboliti.
L’ottocento musicale non aveva questi favolosi registar e conductstar eppure la gente andava all’opera e non vedeva certo porcherie. Gli spettatori assistevano alle opere di Rossini, Donizetti, Verdi, Boito e questi erano i nomi per cui la gente andava in delirio non certo per i direttori d’orchestra, i registi o gli scenografi. Chi non ci crede legga i diari di quell’autentico amante dell’opera che fu Stendhal, che, incaricato come diplomatico, ne parla diffusamente.
E’ rimasto, ad esempio, in Italia il nome di Mariani, sul quale certi acuti critici si buttarono per sostenere che le opere di Verdi erano somme, eccezionali, straordinarie ma solo perché le dirigeva Mariani. Ma Verdi era Verdi e quando ci fu da dirigere l’Aida, a cui molto teneva Mariani, che aveva diretto il Lohengrin a Bologna, su di lui Verdi mise il veto. L’Aida fu un trionfo e tale rimane anche senza Mariani. Perché l’opera, la melodia, il dramma erano tutti nella sua musica e nel suo senso teatrale, al massimo Mariani poteva essere un traduttore più o meno fedele. Nell'ottocento, nell'era delle grandi opere, dei grandi compositori, della grande arte non sentirono come oggi, era di poca arte, di pochi e piccoli autori, la necessità dei vari Batman-Mazinga conductstar dei vari Mandrake-Goldrache, Registar e del variopinto direttorame d’ogni genere. Allora si componeva arte e poesia, oggi si interpreta e si guadagnano iperboliche cifre interpretando, variando, massacrando come parassiti le altrui smisurate grandezze. Mediocri parassiti che non lasceranno nulla se non le loro traduzioni del genio altrui, osannati da altrettanti mediocri spettatori, critici, politici che quei loro mediocri Dei li riempiono di denaro. L’arte dà da mangiare come dice un ministro? Forse a qualche mediocrità ne da un’esagerazione, a me e ai molti altri che, come me, amano la musica, amano chi l’ha composta, il loro genio, non dà affatto da mangiare ma preleva. Mangiano i sovrintendenti, i direttori dei teatri, i conductstar, i registar, ecc. e in minor misura - molto minore - i violinisti, gli scenografi, i sarti, ecc. e i fruitori spettatori. 

O i palazzi dell’Opera si prendono cura dell’Opera e l’opera si prende cura di se stessa, o morirà, neppure di morte onorevole ma di morte meritata. O acquisterà la capacità di reggersi economicamente anche accettando compensi meno onerosi, meno sfarzo, meno organico, meno fiori, meno amenità turistiche o continuerà sulla strada del declino. 
Non propongo di abolire l'opera e di chiudere i teatri; il mio discorso è rivolto a ridurre i costi e a favorire la nascita di una cultura favorevole alla composizione artistica e non solo alla riproduzione. Il sistema di riproduzione deve reinventarsi, ma anche i trascurati compositori devono reinventare le loro modalità di comporre e aprirsi a una strumentazione più elettronica, meno numerosa, meno costosa, più potente. Entrambi devono inventare risparmi, inventare l’uso dei mezzi elettronici di produzione, di riproduzione e di amplificazione del suono. Entrambi devono almeno in parte scendere dal loro piedistallo, demitizzare i nuovi falsi Dei, directstar, conductstar e interpreti in genere, e volgere lo sguardo verso ciò che considerano basso e popolare, come, ad esempio, il mondo del rock e i suoi modi di suonare, di utilizzare la strumentazione, di far spettacolo.
Come fare una rappresentazione, come utilizzare la tecnologia, come fare tante rappresentazioni, come ridimensionare i registar e i conductstar, come costruire un terreno fecondo per la composizione? Queste sono le domande che ci si deve fare.
I registar e i loro dispendiosi fan sostengono di aver salvato l’opera, di aver abolito certe ridicole maniere dei cantanti di muoversi sulla scena, di aver attualizzato l’opera. Certamente al Metropolitan non è successo e l’opera gode di ottima salute.
Cominciamo dalla rivendicazione dell’abolizione di certe ridicole maniere di muoversi sul palco.
Da giovane vedevo i cantanti che si mettevano una mano sul cuore, che allargano le braccia, che facevano quei movimenti convenzionali che i registi vedono oggi, appunto, solo come convenzionali, come ridicoli ma le cose non stanno come le vedono loro. Tutta l'opera è una convenzione, trasformare i movimenti dei cantanti sulla scena in movimenti realistici o, peggio, falsamente simbolici non ha senso. La mano sul petto è una rappresentazione cerimoniale, simbolica, espressiva; il forzato realismo dei tribolati registi d'oggi, con i loro aggiornamenti non contestuali non lo sono. Assoldare dispendiosi registi perché insegnino ai cantanti i movimenti come se fossero attori di prosa, non ha senso. Quei movimenti del braccio sul cuore, delle braccia allargate, ecc. fanno parte della mistica dell'opera come il buio in sala chiesto da Wagner. Quelle opere sono nate con quel Dna, sono nate assecondando quei movimenti, assecondando tutti i movimenti e le posizioni mediante le quali la voce poteva dispiegarsi e quelli altamente significativi e simbolici come, appunto, la mano sul cuore. L'opera con le sue pazzie assumeva il significato di un rito. Non sostengo che il mondo dell’opera non debba subire mutazioni ma nego che la messe in scena tradizionali siano false e ridicole. Ripeto: tutta l’opera è una convenzione che giudicata con occhio realistico può apparire demenziale. Che Traviata in fin di vita senza fiato canti a piena voce è un’evidente irrealistica impossibilità non è pazzia: questa è la convenzionalità con cui l’opera si è formata e a cui ha avuto il suo straordinario successo. L'unica cosa che il regista deve fare è assecondare questo rito, celebrare questo rito e meno che mai fare assumere al cantante posizioni che danneggiano l'esplosione del canto per accontentare occhi che vogliono posizioni realistiche, nuove, provocatorie, falsamente simboliche.
Non sono migliori le regie del giorno d'oggi quando trasformano e falsano l'opera. Si comincia, addirittura a mormorare contro i cantanti troppo grassi o troppo piccoli o non belli come richiederebbero miti come quelli di Didone, di Otello, di Sigfrido? Cosa faremo? Non li manderemo in scena perché offendono la vista? Perché la parte della bella sigaraia esige una bella sigaraia? Poveri i nuovi Pavarotti! Che parte verrà riservata ai grassoni come Pavarotti? Nessuna ovviamente. Al massimo quelle tipo Falstaff. Siamo seri! Mica si può offrire alla nostra elite un Pavarotti per la parte di Guglielmo Tell, di Sigfrido o di Otello! Il palcoscenico d'opera diventerà una sfilata di modelle o modelli o resterà un palco per cantanti?
Passo al secondo argomento: che senso ha rendere l’opera contemporanea? Forse che il teatro di prosa attualizza la tragedie di Shakespeare, di Goldoni, di Plauto? Oggi no, ma se continua questo andazzo inculturale, lo farà. Forse che il regista veste Arlecchino di un competo di giacca e cravatta? Non mi dilungo perché questo è un campo minato, perché la tecnologia consente soluzioni e graficismi altamente simbolici che per molte opere possono funzionare, ma questo simbolismo reso possibile dalle nuove tecnologie grafiche che c’entra con l’attualizzazione, col rappresentare Otello da generale novecentesco? Il ridicolo sta nel fatto che con certi abiti, certe messe in scena, si canti con le parole originali mentre non si rappresentano gli eventi originali: non solo ridicolo: sono decontestualizzazioni falsificanti.  
A Torino qualche anno fa un regista arrivò a falsificare la trama delle Salome di Strauss: nel finale non viene giustiziata Salome ma la matrigna. Questa è pretenziosa falsificazione e nulla più. Criminale direi. Una falsificazione dell’opera di Oscar Wilde e di quella di Strauss.

Un manifesto per una nuova cultura musicale deve suggerire sia soluzioni per la rappresentazione del passato sia  nuove idee ai compositori. Idee che permettano loro di sconfiggere quel pigro, falso, elitario pubblico, adoratori di falsi dei, di mandarli a quel paese e di conquistare un nuovo pubblico, perché il vecchio è stupido e ingessato senza speranza nelle sue svenevoli sciccherie. A questo pubblico va detto solo "Per voi neppure più un soldo"
Soluzioni per questa incresciosa situazione sono possibili. Non si possono chiudere otto, dieci teatri, risanando coi licenziamenti, ma una soluzione si deve trovare. Possibilmente una soluzione che risolva anche l’annoso problema dell’assenza dell’insegnamento musicale nelle scuole italiane, una soluzione che vivifichi il terreno da cui possano nascere nuovi autori, una soluzione che veramente esplori i giacimenti e non si fermi alla comoda superficie dell’opera ottocentesca. E se bisogna licenziare, bisogna avere il coraggio di farlo, trovando anche nell’istruzione musicale, una parte della soluzione occupazionale. I denari non vanno sprecati ma devono essere a disposizione di chi è in grado di farli produrre e partecipare a imprese che non assorbono fondi ma pagano tasse.
La soluzione più ovvia è quella di diminuire il numero delle rappresentazioni, ma, se un teatro d’opera deve comunque pagare un’orchestra, un direttore fisso, un’impresa di sarti, scenografi, anche quando non lavorano, diminuire le rappresentazioni serve a poco. Meglio appaltare e riutilizzare e questo è possibile se si torna a un concetto del teatro in cui non esistano gli Stabili con il loro organico di stipendi fissi ma le rappresentazioni arrivino tramite una compagnia viaggiante che ha un luogo di produzione unico con organico di regista, direttore, scenografi, pittori, sartoria ecc..
Se abbiamo dieci allestimenti in dieci teatri d’opera con dieci titoli diversi, i costi di dieci complessivi dal direttore generale all’ultimo degli impiegati, passando per i musicisti, il direttore d’orchestra, la squadra addetta alla messa in scene della scenografia è enorme.
E’ altrettanto evidente che un solo complesso che porti un’unica opera in sette - otto teatri senza spendersi in sette, otto serie di prove, in sette, otto sartorie, in sette, otto scenografie, ecc. con gli stessi cantanti e la stessa orchestra costa molto meno. Da una parte una sola serie di prove orchestrali, musicali, registiche, con gli stessi costumi, dall’altra otto allestimenti, otto prove d’orchestra, otto sartorie, otto preparazione di scenografie, ecc.
Certo ci sono in più le spese di permanenza, trasloco, viaggio e a questo punto i conteggi sono aperti ma non molto: vedere se sia conveniente e quanto lo sia, non tocca a noi. Per me la chiusura e la discussione a bocce ferme è la sola possibilità.

Ogni considerazione non può che partire dal che l’opera, diffusa in ogni parte del mondo, è stata inventata in Italia e, dall’Italia, ha conquistato tutti i luoghi della civiltà occidentale, espandendosi, poi, da questa al resto del mondo. L’Italia è terra di grandi civiltà, quella etrusca, quella sicula e sicana colonizzata dalla civiltà greca e cartaginese, quella romana, quella cristiano-papale, quella rinascimentale di Venezia e Firenze. Civiltà che hanno disseminato monumenti, chiese, quadri, musiche, opere letterarie, scoperte scientifiche, teorie filosofiche e, tra queste, l’Opera in musica, che è uno dei suoi più duraturi e riconosciuti gioielli. Di questa ricchezza di civiltà il made in Italy ha potuto giovarsi in maniera permanente e se ne giova tuttora. Se ne giova l’industria della moda, che quella del cibo che quella turistica. Non si può semplicemente abolire il rinnovarsi di questa gemmatura per motivi economici, ma non si può neppure accontentare l’attuale comportamento scellerato, l’attuale esibizionismo, l’attuale alterigia, la spasmodica fame di guadagno e di mungitura dei soldi dei cittadini da parte di una classe culturale parassita in due sensi, parassita di ciò che grandi compositori fecero in passato e parassita dell’economia e del lavoro dell’attuale classe di cittadini. Gemmare significa rappresentare, far rivivere il passato, e fertilizzare il terreno per la fioritura del presente di opere grandi come quelle del passato.
Un programma culturale musicale non può che usare il martello per ricondurre a limiti patologici l’egoismo sterile e parassita e la cura della fertilità del terreno perché i semi gettati diano frutti nuovi e rigogliosi.

Quanti teatri d’opera? Quanti ne servono per conservare il prestigio dell’Italia operistica inventrice dell’opera? Che scala di importanza va attribuita ai vari centri di quella che viene chiamata produzione musicale ma che in realtà non produce nessuna nuova composizione ma solo repliche, sperpero e parassitismo? I grandi centri storici sono Venezia (dove lavorarono Monteverdi, Cavalli e Vivaldi e dove nacque l’imprenditoria teatrale), Roma (dove produssero Carissimi, Scarlatti, Rossini, dove ai primordi venne messa in scena la rappresentazione di Anima e corpo di Emilio del Cavaliere, dove lavorarono Caccini, Peri coi loro primi embrioni d’opera, Rossi Cesti, Milano ( la scala è il teatro d’eccellenza del romanticismo), Napoli (patria o patria d’elezione musicale di compositori come Paisiello, Cimarosa, Piccinni, A. Scarlatti, ecc. dove produssero anche Rossini e Donizetti) . Ma quattro sono troppi, oltre l’importanza storica bisogna attenzione al bacino di utenza. Se i bacini di utenza di Milano e Roma sono appena discreti quelli di Napoli e Venezia non lo sono. Due grandi teatri d’opera con funzioni di produzioni di alta qualità sono sufficienti, quattro sono tollerabili. Agli altri nessuna produzione autonoma, nessun dispendioso organico fisso, ma rappresentazioni la cui regia, i cui scenari i cui costumi sono realizzati da uno e più centri di produzione. Il denaro risparmiato sia destinato a creare un terreno fertile per nuovi compositori, sia per resuscitare quel tanto decantato patrimonio fossile che oggi fossile è e fossile rimane.
I templi della lirica devono perdere la puzza sotto il naso e trasformarsi così come devono trasformarsi e perdere l’aristocratica puzza sotto il naso i compositori che devono parlare agli ascoltatori, non ad una elitaria e ristretta conventicola di privilegiati. Anche il sistema dei conservatori deve riformarsi: e’ inammissibile che non si studino strumenti elettronici. Non possono vivere nel passato ormai remoto.  Teatri d’opera, conservatori, compositori che, se non sono in grado di cambiare, vanno abbandonati al loro destino. Del resto sembra proprio che non siano adatti ai grandi compositori. Verdi fu bocciato all'ammissione, Wagner era un autodidatta, Berlioz ebbe a dichiarare di essersi inventato compositore nonostante la frequenza al conservatorio. Si in venti in liceo musicale e una facoltà musicale che abbia come scopo non solo la creazione di esecutori ma che stimoli alla composizione.
In Germania e in Italia le case editrici musicali indicevano annualmente concorsi che premiavano l’opera di un giovane. Durò finche durò poi morì il che è comprensibile perché i risultati esigui non compensavano le spese elevate. Ancor oggi quei concorsi vengono visti come inutili e deludenti. Ma come si fa a conservare una simile opinione quando in Italia generarono Cavalleria Rusticana e in Germania Palestrina? E Mascagni non è solo Cavalleria e Pfitzner non è solo Palestrina. Anche se non lo dice con difficoltà crearono due scuole Dopo cavalleria venne Pagliacci, e non solo Pagliacci. Facendo il bilancio le spese per i due concorsi generarono grandi risultati.

I teatri d’opera e di prosa non possono e non devono gravare sui contribuenti. Non devono rappresentare una forma di parassitismo culturale ed è veramente ora che gli spettatori che li frequentano siano meno egoisti e a loro volta parassiti.
Oltretutto il gioco non vale la candela, Le commedie, le tragedie scritte per il teatro in televisione raccolgono un numero miserevole di spettatori. Pochi, ben pochi, pochissimi, si fermano sul canale se questo trasmette tragedie di Sofocle o commedie di Goldoni. Eppure i testi sono gli stessi, ben ripresi e con bravi attori.
Coloro che frequentano i teatri parlano di atmosfera, di incanto del rappresentazione sul vivo ma la giustificazione non regge di fronte alla spese. Anche una partita è tutt’altra cosa se vissuta allo stadio rispetto al salotto di casa, o il bar in televisione; ma mica coloro che vanno allo stadio fanno pagare il biglietto allo stato e a noi contribuenti!
Oltretutto se possiamo affermare che chi va alla partita o la guarda in televisione è sempre partecipe non altrettanto possiamo dire del teatro di prosa o del teatro musicale dove spesso prevale si va per portare come vanto l’evento o per il ridotto o per sfoggiare l’abito della festa o l’elevatezza culturale.
I giornali con i suoi adulanti giornalisti tendono a magnificare con titoli e frasi a effetto “Mostra il cuore della tragedia”, “la illumina” “nessuna sa far risuonare gli ottoni come lui” magnificando le performance perché solo performance sopra e autori e titoli sono sempre i soliti.
Se veramente gli spettacoli fossero quelle meraviglie celesti, divine magnificate negli articoli non si capisce perché gli spettatori non debbano pagare un biglietto più caro per godere di simili meraviglie. I teatri forse sono pieni per i prezzi bassi ma molti preferisco i prezzi doppi, tripli di una serata in un buon ristorante.
Una sera di Traviata non vale una cena? neppure una cena? Chiudiamo i teatri non val la pena di tenerli aperti e mantenere un tale esercito di parassiti registar, conductstar, attori saltimbanchi, sarti, impiegati, ecc.    
Se si chiudono i teatri forse scompare il teatro di prosa forse rimarrà ma solo se vivificato da nuovi autori e nuove opere. Senza di loro non siamo noi a chiudere i teatri ma i teatri a chiudere se stessi e a rassegnarsi alla loro importanza del tutto marginale nella cultura.
Ho conosciuto il teatro prima come lettura che come rappresentazione. La lettura mi esaltava. Sofocle, Molière, Strimberg mi appassionavano nella lettura come i grandi romanzi di Tolstoj, di Steinbeck, di Malraux, due anni di abbonamento alla stabile in giovane età mi hanno solo deluso.
Quasi la stessa cosa mi è accaduto con la musica. Riuscii ad andare poche volte alle prove generali al Teatro Nuovo di Torino dove assistei al Guglielmo Tell con piacere anche perché ne conoscevo numerosi pezzi dalla radio. Con questo voglio dire che per moli di noi la musica e l’opera sono stati e sono tuttora eventi auditivi. Comprava a mille lire l’uno i dischi alla Standa e pur nella ridotta scelta ci trovai le sinfonie 3, 5, 6,7 9 di Beethoven, ecc.
I ricchi snob abbonati del Regio potevano dire quel che volevano, ma io potevo alzare, abbassare il livello di suono come volevo. Iniziare da dove volevo, sospendere come volevo. La tecnologia era entrata e entra sempre di più anche nella musica ed è inutile tapparsi gli occhi.
I teatri d’opera con i loro stitici Rigoletti e Traviate impoveriscono enormemente la musica. Una musica senza passato e senza presente. Appresi da molto giovane che esisteva un passato della musica che per me era Gino Latilla et similia leggendo le dispense del Milione, forse i frequentatori e i gestori dei teatri d’opera con tutta la loro pompa non hanno mai letto qualcosa di simile alle dispense del popolare Milione.  Ironizza sui grandi capi che dirigono i teatri mettendo in dubbio che conoscano Paisiello. C’è di peggio recentemente un regista d’opera ha tranquillamente ammesso di ignorare che fosse esistito il compositore Paer (scusate se mancano i due puntini)
Per decenni quando i libri già si stampavano, molti aristocratici preferivano i carissimi scritti a mano, perché avevano un fascino totalmente assente in quelli stampati. Questi gusti radical chic non hanno certo resistito, ma oggi i libri elettronici non sfondano con l’aristocratico mondo dei lettori. Capita come per la frequentazione dei teatri: la è l’incanto magico del posto ma anche il piacere di essere visti, qui il piacere del toccare la carta ma anche l’orgoglio radical chic di mostrare la biblioteca di casa.
I compositori e l'élite musicale quella che abita ai piani alti del fasullo grattacielo della cultura musicale devono prendere atto, che la cultura popolare musicale rock-pop è fondata su strumenti elettronici capaci di grandi manipolazione tecnica e di grandi amplificazioni, quelle stessi che usano le band del rock nei loro concerti. Il compositore deve scendere dalla nuvole a terra e utilizzare le risorse disponibili. A Venezia Monteverdi, che non poté usare le grandi risorse orchestrali e gli splendori della corte di Mantova, si adeguò. Si adeguò e seppe farlo anche con quel capolavoro assoluto che è L’incoronazione di Poppea. Con questo non mi sogno neppure di screditare l’opera di avanguardismo e i loro prodotti. Le opere di Alban Berg,  Wozzeck e l’incompiuta Lulù e sono state coronate da un meritato successo, da una meritata lode e sono capolavori, appena al di sotto l’orgiastico e incompiuto Mosè ed Aronne di Arnold Schoenberg, Delle conquiste di entrambi questi autori bisogna tener conto, pur non accettando l’integralismo di Mosè e Aronne.

Poche ultime parole per irridere a certe pretese. Il teatro al cinema e in televisione non funziona. Non funziona, non ha mai funzionato non funzionerà mai. Eppure l’Edipo è lo stesso Edipo, la locandiera la stessa locandiera che danno a teatro. Cosa cambia il capolavoro non è più il capolavoro? Non lo è? Non lo è mai stato? Neppure Shakespeare funziona in televisione; gli ascolti che raccoglie sono ridicoli. La televisione, il cinema non sono degni dei testi teatrali?
Ci vuole una nuova cultura: abbiamo bisogno di una nostra casa editrice. Mobilitiamoci.


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