POL Se il populismo vuole allungare le mani sulla cultura. Panarari 1/3
Un appello prima del famigerato Robespierre. Chi possiede la cultura possiede la società. Chi è fuori della cultura viene ostacolato cacciato non pubblicato. Uniamoci e Facciamo una nostra casa editrice, un nostro giornale culturale, produciamo un nostro canale televisivo. Senza posizione nella diffusione culturale tutti gli exploit sono destinati a sgonfiarsi. Dotiamoci di questa base unendo le nostre forze in questo progetto. Scrivete a esaiae07@gmail.com o esaiae@libero.it e date la vostra disponibilità e la vostra adesione.
Un titolo con almeno due termini, “populismo”
e “cultura”, congiunti dal volgarissimo verbo “allungare le mani” che evoca
nella sua vasta significazione anche l’azione del furto, e quello della
palpazione sessuale.
Casuale? No, voluto.
Come sempre lo scritto di
Massimiliano Robespierre pardon Panarari è di rara volgarità anche se il
culmine lo ha raggiunto in passato quando espresse il suo entusiasta plauso
all’abolizione dal palinsesto RAI dell’Isola
dei famosi. Anche allora Robespierre
Panarari plaudiva ad un’opera di censura in nome della cultura, della civiltà,
della società civile.
Posizione non diversa da chi
malignamente afferma che il 50 per cento degli elettori della lega ha appena la
licenza elementare. Beh, siamo in tanti allora. Ma quali persone hanno solo la
licenza elementare e non le succulente lauree d’elite, dopo l’appropriata base
di un buon liceo classico, con tanto di greco? Probabilmente molti di questi
rozzi, ignoranti, ha cinquanta e più anni e viene dalla notte dei tempi; da
quella notte di quel povero dopoguerra, quando al lavoro si andava in
bicicletta o su qualche vecchia Vespa e alla fine delle elementari per aiutare
per campare, per ricostruire, si faceva l’operaio in catena, il tubista,
l’elettricista, il cameriere, il meccanico aggiustatore, il tornitore, il fresatore,
il muratore, il piastrellista e, non raramente, quando ce n’era necessità,
tutti questi mestieri.
“Perché queste scelte faticose e
stupide” si chiederanno i polli d’elite “I licei classici ci sono sempre stati,
la lingua greca pure e allora perché erano così sciocchi da fare mestieri così
faticosi? Valli a capire questi ignoranti che oggi votano Salvini!”
Molti si mettevano come si diceva allora “in
proprio”, diventano impresari, in tutti i rami e per loro oltre le conoscenze
del mestiere, dei mestieri - arabo per i polli d’elite - fu necessario imparare
a districarsi tra permessi, tasse, cambiali, libri contabili, insoluti,
estensione e calcolo di preventivi, programmazioni: un mare di conoscenze di
cui dovettero appropriarsi senza ricorrere ai banche di scuola e non sostenute
da una buona, sana, efficace, unificante conoscenza di quel greco classico, che
solo il liceo poteva garantire. Ma anche chi non era in proprio era un’arnia di
conoscenze; dopo il lavoro in fabbrica, i nostri baldi, con le solo elementari,
coltivavano i loro campi, si aggiustavano, e si costruivano la casa, acquisendo
oltre alle altre già in loro possesso, queste nuove, svariate conoscenze e
abilità.
Fecero l’Italia e il suo benessere.
Impararono sul campo le conoscenze necessarie, pagarono con il loro lavoro i
licei ai loro ricchi, colti, potenti, compatrioti.
Solo a questo punto si può aprire
con una visuale non ampia come dovrebbe essere ma comunque più ampia di quella
stitica e snobistica dell’elite, il discorso sulla cultura, attualmente
recintata al teatro, alle mostre, al cibo, al vino, alle nocciole, al
cioccolato, ai bachi da seta, ecc. Questi sì che sono campi abbracciati dalla
galassia Gutemberg, soprattutto quella dei teatri.
Una cultura oltretutto coltivata non
tanto nei teatri ma nei ridotti dei teatri, nei salotti alla moda, dove ancora
elitariamente si discrimina, dove coltissime posizioni snobistiche entrano fra
loro in competizione e costruiscono altre scale di snobismo come quelle di un
Puccini troppo popolare, di Mascagni troppo sanguigno e volgare, quella di un
Verdi fracassone e troppo popolaresco e poco spirituale, Troppo sempliciotto e
terragno a paragone del divino, spirituale Wagner. Elitarismo che non coinvolse
Stravinskij, che, in una delle sue conferenze, dichiarò: So che vado contro l’opinione comune che vuole il miglior Verdi sia
nell’alterazione del genio al quale dobbiamo Rigoletto, il Trovatore, l’Aida la
Traviata. So di difendere precisamente quello che una elite recentissima
disprezzava nell’opera di questo gran compositore. Ne sono spiacente; ma
affermo che c’è più valore e più inventiva nell’aria de “La donna è mobile”, per esempio, in cui questa elite non
vedeva che deplorevole facilità,di quanto non ce ne sia nella retorica e nelle
vociferazioni della Tetralogia.
Per questa predilezione per il
popolare, per la sua concezione artigianale dell’arte, per l’umiltà e
l’indifferenza verso l’elite culturale con la quale percorre il suo itinerario
artistico e culturale fino alle splendide ultime opere influenzate dalla
dodecafonia, Stravinskij è il nostro artista.
Sulla cultura dei nostri pomposi
addetti, Mattioli è addirittura sarcastico quando scrive “Centenario della
morte di Paisiello. Quasi nessuno dei grandi teatri se l’è ricordato (ammesso
che lì qualcuno sappia chi era Paisiello).
Intervistata dal Giornale Cecilia Bartoli dichiara “Nei teatri italiani troppi privilegi:
vanno licenziati tutti”, “Se accetterei la direzione di un teatro
italiano? «A patto di poter licenziare tutti e ripartire da zero. Probabilmente
la strada è proprio questa: fare un po’ di pulizia generale”.
Forse ha
ragione con l’esigenza di ripartire da zero.
Forse sul suo giudizio influiscono l’enorme considerazione di cui gode
all’estero e la disattenzione di cui è oggetto in Italia.
Certamente la visuale da cui Cecilia
Bartoli guarda ai problemi della lirica italiana è di parte. Lei fa parte di
quelle persone che dalla lirica trae fama, ricchezza e vita brillante.
Fama e ricchezza e vita brillante
che a parte qualche eccezione sono pagate a caro prezzo anche da coloro ai
quali il teatro di prosa, come l’opera e, più in generale, la cosiddetta musica
classica, non piace, o comunque, anche se piace non frequenta, a favore di
coloro che nella lirica lavorano e dalla lirica ricavano emolumenti generosi.
L’opera come dice un ministro italiano dà da mangiare ma non certo a tutti. A
me come a molti altri, che amano la lirica ma non lavorano nel campo e non
frequentano i teatri, la lirica non solo non dà da mangiare ma esige
voracemente e incessantemente danaro che pesca delle nostre tasche. Io e quelli
come me devono dirlo chiaro: coloro che frequentano i teatri lirici e di prosa
sono parassiti: metà, più di meta del loro biglietto lo paghiamo noi. Perché
dovremmo continuare a farlo? Se lo paghino loro. Come si pagano i pomodori, gli
aperitivi, i taxi e via dicendo, si paghino anche gli spettacoli senza chiedere
i nostri soldi. Anche i tifosi preferiscono andare allo stadio per assistere
alle partite dal vivo ma si pagano il biglietto oppure si abbonano e le
guardano in televisione. In ogni caso con soldi loro non con i soldi miei.