lunedì 22 dicembre 2014

PRIMA DOPO E DURANTE - UNA DISORDINATA PASSEGGIATA FRA LE NOTE - ROSSINI - GUGLIELMO TELL - PARTE PRIMA DI CINQUE

IL GRANDE MERAVIGLIOSO STUPENDO GUGLIELMO TELL DI ROSSINI

IL LIBRETTO DEL TELL


II 3 agosto 1829, quando venne rappresentato il Guillaume Tell, Rossini aveva 36 anni e,  lungi dal ripercorrere il passato, aveva composto qualcosa di totalmente innovativo. Non era un rivoluzionario né nella vita né nella musica ed è inutile cercare nel Tell una rivoluzione che non poteva esserci, ma una innovazione profonda sì.  
Il Tell è un fiume di musica.
Al Tell segue il silenzio. Rossini non comporrà più opere. Ritorna a Bologna, si trasferisce a Firenze, a Milano, a Parigi e infine nel 1862 a Passy, allora un piccolo borgo rurale vicino a Parigi, oggi incorporato nella grande Parigi. Era Passy de Paris, come gli capita di intestare le lettere, da dove non si muoverà più fino alla morte nel 1968. 
Dopo il successo del Tell, Rossini non scriverà più opere. La grave malattia nervosa che per lunghi anni lo prostrerà riducendolo quasi in fin di vita, arriverà più tardi, forse dieci anni dopo il Tell. Le numerose cure e diagnosi, che testimoniano condizioni patologiche gravi, vengono addebitate a una vita troppo intensa e vertiginosa. Il lavoro estenuante vissuto con l’entusiasmo della giovinezza e alimentato dallo straordinario successo l’hanno logorato nel fisico e nella mente. Una uretrite ormai cronica, esito obbligato dei suoi abusi di tavola e di lavoro, lo prostra. Del resto ha cavalcato situazioni impossibili in cui componeva, lavorava tra impresari che premevano e teatri che attendevano impazienti, affrontando prove estenuanti con la stessa vertiginosa velocità che compare nell'Italiana in Algeri, la più rossiniana delle sue opere.

La fase acuta durò dal 1842 fino al 1857. Hai dunque dimenticato, mio buon amico, il mio stato d’impotenza mentale, ognor crescente, in cui vivo?" scrive all'amico Domenico Donzelli nel ’58, “Adorabile amico mio,” scrive nel ’55 al fedele Filippo Santocanale “voi desiderate che io di mio pugno vi scriva, martirizzato come lo sono da tredici mesi di crisi nervosa che mi ha tolto sonno, palato, alterato l’udito e la vista e gettato in tal prostrazione di forze, che non posso vestirmi né spogliarmi senza aiuto.” 
 La rinuncia al teatro era venuta già molto prima. Non dovuta alla musica ma allo stress del teatro, alle scadenze, agli impegni, a quella vita di continua sollecitazione che Verdi chiamerà 'anni di galera' e che la tempra di Rossini non è più in grado di reggere. « Scrivevo opere, dice un giorno ad Andrea Maffei, quando le melodie venivano a cercarmi e a sedurmi; ma quando capii che toccava a me andarle a cercare, nella mia qualità di scansafatiche, rinunciai al viaggio e non volli più scrivere", “ Zitto! Non mi parli di questo. Del resto io compongo continuamente. Vede quella scansia piena di musica? Essa è stata scritta tutta dopo il Guglielmo Tell. Ma non pubblico nulla; e scrivo perché non posso farne a meno” rispose a Max Maria von Weber, figlio del compositore Karl che gli chiedeva perché non componesse più opere.
Rossini continua a comporre “Io sono qui a Milano" scrive nel ’37 a Carlo Severini “godendo di una vita piuttosto brillante; do accademie ossia esercizi musicali, tutti i venerdì in casa mia. Ho un bell’appartamento e tutti vorrebbero assistere a queste riunioni: si passa il tempo, si mangia bene e si parla spesso di voi.”, “Milano è una città di molte risorse” scrive nel dicembre dello stesso anno a Antonio Zoboli “e si passa una vita alquanto beata. Le mie serate musicali fanno qualche sensazione qui a Milano. Dilettanti, artisti maestri, tutti cantano nei cori; ho circa 40 voci di coro, senza contare tutti i solisti. Madame Pasta canterà venerdì prossimo. Come puoi credere, diventa questa una novità straordinaria, non volendo essa cantare in nessun altra casa. Ho tutti gli artisti dei teatri che fanno a gara di cantare e sono costretto lottare tutta la giornata per ricusare l’ammissione di altri satelliti. Le persone più distinte sono ammesse alle mie serate; Olimpia fa gli onori con successo e ce la passiamo bene.”
Anche Liszt partecipò e lasciò testimonianza “Rossini …. A ouvert sa maison a ses compatriotes, et durant tout l’hiver une société nombreuse a rempli ses salons, empressée à venir rendre hommage à l’une des plus grandes gloires de l’Italie. Entouré d’un essaim de jeunes dilettanti, le maestro prenait plaisir àleur faire étudier ses plus belles compositions : amateurs et artistes, tous se faisaient honneur d’être amis à ses concerts…
Durante le sue giornate a Milano, a Parigi, a Passy, Rossini compone i suoi peccati di vecchiaia, organizza e si gode le sue serate musicali, riceve visite di artisti di amici, di artisti, di compositori, riceve lettere e risponde.
Le composizioni, i suoi peccati di vecchiaia, come le sue serate, le sue lettere e i resoconti delle visite, ci rivelano non solo l’artista ma l’uomo Rossini. Sono composizioni brevi, scherzi, esperimenti. Rossini ci offre con questi tanti piccoli regali, due grandi opere lo Stabat Mater del 1835, la Petite messe solemnelleultimo peccato di vecchiaia” cinque anni prima della morte avvenuta il 13 novembre del ’68. "Buon Dio, voilà ecco terminata questa piccola messa. E’ musica sacra o sacra musica? Ero nato per l’opera buffa tu lo sai bene! Un po’ di scienza, un po’ di cuore, tutto lì…."
Peccati di Vecchiaia, serate musicali, li chiama Rossini ma, se tanti accorrevano a sentirli, se tanto interesse suscitano e hanno suscitato non sono certo frattaglie. Rossini ci dona frattaglie e piccoli gioielli. Valori musicali e diario esistenziale tutto quasi sempre con quel suo ironico, autoironico, ambiguo modo di essere. Arguzia, umorismo, auto presa in giro, spirito burlone.
Odiava la modernità Rossini e, con la modernità, anche quel nuovo mostro sferragliante che era il treno. Ne aveva una paura matta e se si lasciò convincere a salirci per un breve viaggio, l’esperienza fu così traumatica e paurosa che mai più osarono proporglielo. Rossini musicò anche quell'avventura. A modo suo. Scrivendo le note dello spartito e, accanto alle note musicali, i suoi arguti e scanzonati commenti che cominciano dal titolo, Un petit train de plasir, inserito nell’Album des enfants dégourdis, e proseguono cloche d’appell, invito a salire in carrozza, salita in carrozza, avanti con la macchina, dolce melodia del freno, les lions parisien offrant la main auxbiches pour descendre dub vagon. Suite de voyage, terribile deragliamento del convoglio, prima morte in paradiso, prima morte all’inferno, canto funebre, amen.
Un altro peccato, Marche et reminiscences puor dernier voyage, ripercorre a forma di marcia funebre e ossessiva la sua vita musicale con citazioni dal Tancredi, dalla Cenerentola, dalla Donna del Lago, dal Conte Ory, dal Tell, dall'Otello, dal Barbiere spesso non solo citati ma anche deformati e intervallati da pezzi ossessivamente ritmati. "Mon portrait" commenta verso la fine Rossini a fianco di un intervallo leggero, per poi riprendere la marcia fino al commento: “Requiem”
I peccati composti dopo il Tell e  prima della malattia comprendono pezzi pianistici, canzoni, duetti e ballabili. Respighi ad essi s’ispirò per la sua Rossiniana e per il balletto La boutique fantastique. Un duetto entusiasmò Wagner che lo orchestrò e lo diresse in un concerto. Litz ne ricavò dodici trascrizioni per pianoforte. Britten i balletti Divertimento e Fantasia italiana. 

A Parigi, a Passy venivano dall'Italia gli amici e Rossini riceveva tutti con affetto. Venivano gli impresari, gli artisti, i colleghi compositori. S’incontrò con Wagner; un Wagner non ancora famoso ma tenace propugnatore di una rivoluzione e di un nuovo teatro musicale, che, conoscendo l’avversione di Rossini per la nuova musica, per ogni nuova diavoleria del progresso, per il treno, per l’illuminazione a gas, per le barricate, tutto pensava tranne di essere ricevuto con tanta cordialità e di essere ascoltato con così grande attenzione mentre illustrava le sue idee sulla musica dell’avvenire. Del resto l’idea di un Rossini chiuso in una concezione musicale conservatrice e avversa ad ogni innovazione è del tutto falsa. “Voglio essere ricordato a Boito, di cui apprezzo infinitamente il bell'ingegno.” scrive al signor Tito dell’editore Ricordi “Egli mi mandò il suo libretto, Il Metistofele, dal quale vedo volere egli essere troppo precocemente innovatore. Non crediate che io faccia la guerra agli innovatori! Desidero solo che non si faccia in un giorno ciò che si può ottenere in parecchi anni. Che il caro Giulio legga “benignamente” il Demetrio e Polibio, il mio primo lavoro, e il Guglielmo Tell: vedrà che non fui un Gambaro!!!”

Con tutti i colleghi Rossini è gentile e persino appassionato. Mai un moto di supponenza o superbia. Lodi, al contrario, per le loro opere e ritiro a riccio, quasi timidezza, quando sono le sue a essere. Lo fa anche quando un entusiasta Wagner che cita e loda la scena delle tenebre del Mosè e quella della cospirazione del Guglielmo Tell. Stupisce Wagner, dimostrando grande apprezzamento per Weber, per l’amore incondizionato verso il grande Gluck, verso Mozart, Haydn, Bach. “ Se Beethoven è un prodigio dell’umanità, Bach è un miracolo di Dio!” dice e racconta di MendellshonGli domandai allora di Bach, molto di Bach.”…Mendellshon si stupì della mia domanda “Ma come,” disse “Voi Italiani amate a tal punto la musica tedesca?”, “Io non amo che quella” replicai “Quanto alla musica italiana me ne infischio”. 
È soprattutto la conoscenza e l’apprezzamento per Bach a stupire e entusiasmare un Wagner che, a quel punto, vuole sapere tutto della visita di Rossini a Beethoven. “Ah. Rossini, siete l’autore del Barbiere di Siviglia? Mi Felicito. E’ un’eccellente opera buffa; … non cercate mai di fare altre cose che opere buffe.” racconta Rossini di aver udito da Beethoven. 
Parlano poi di Weber e Rossini ricorda ancora come si fosse incontrato con lui a Parigi, di passaggio per Londra:. “…Egli fece delle visite come d’uso, ai musicisti più in vista, Cherubini, Heroldt, Boieldieu. Si presentò … Io devo confessare che vedendo inatteso davanti a me questo geniale compositore provai un’emozione non diversa a quella che provai in presenza di Beethoven

Forse intimamente Rossini non credé mai d’essere un grande compositore, forse, lui che ammirava così intensamente Beethoven, Mozart, Haydn  e che aveva imparato ad amarli fin da studente, a paragone di questi colossi, si sentiva piccolo, forse, ingannati da questo atteggiamento, anche noi abbiamo imparato a rimproverare a Rossini di non essere Mozart, di non essere Verdi, di non essere Haydn, dimenticando che Rossini non poteva che essere Rossini, il geniale Rossini, il colosso Rossini, l’intricato Rossini verso il quale tutte le opinioni artistiche appaiono contaminate da pregiudizi.
Riconosciamo la grandezza del Barbiere ma, nell'attimo stesso in cui lo affermiamo, quasi ci sentiamo in dovere di ricordare che l’altro Figaro quello di Mozart è un’altra cosa. Certo che è un’altra cosa perché Rossini era Rossini e non ha senso rimproverargli di non essere Mozart a proposito delle sue opere comiche o di non essere Wagner o Verdi per le sue opere serie. Schopenhauer quasi non osava confessare di preferire talvolta il Figaro di Rossini all'altro Figaro e fu proprio Rossini, quel Rossini che prendeva una sua ouverture da un’opera seria l’ Elisabetta e, con disinvoltura, la trasferiva al Barbiere, un’opera comica, a ispirare quella sua famosa teoria estetica secondo la quale la musica non è né seria né comica. 

All'inizio e alla fine del suo lungo crepuscolo Rossini compone uno Stabat Mater e La piccola messa solenne. Il primo, scritto su pressione di un impresario e dell’amico prelato spagnolo Don Manuel Fernández Varela, ebbe vita tormentata. Percorrono lo Stabat brividi del Guglielmo Tell e manierismi dell’opera che scandalizzarono i critici contemporanei e i colleghi che gli contestarono che lo Stabat non fosse scritto secondo i canoni della musica religiosa. Un problema che non preoccupò minimamente Rossini, perché era Rossini e perché il mondo dell’opera lo compenetrava ancor troppo profondamente. Lo Stabat ebbe un enorme successo, fu criticato da Wagner e lodato da Heine ma per l'intensa espressività lo Stabat è un capolavoro. Un altro ancor più grande capolavoro sarà La piccola messa solenne, un gioco di parole tipico di Rossini, che ci mostra come tra le due composizioni ci siano tutti gli anni e i peccati di vecchiaia
La messa, che li ricapitola per l’uso dell’armonium e di due pianoforti usati in modo percussivo,  è un capolavoro, un gioiello di colori e di armonie. Rossini, il conservatore Rossini ha fatto tesoro delle sperimentazioni dei suoi "peccati" e ha prodotto un nuovo Rossini che stupisce, commuove e sconcerta nuovamente i contemporanei mentre non sconcerta chi ben sa che mai fu rivoluzionario ma  mai fu "gambaro".
Come nei Peccati di Vecchiaia Rossini fu classico, conservatore e nello stesso tempo avanguardista. Lui, che col Guglielmo Tell era giunto ai crinali tra classicismo e romanticismo, scavalca d’un sol balzo tutto il romanticismo e giunge a Stravinskij. Non che Stravinskij si sia ispirato a Rossini ma, come dice Borges, gli artisti creano i loro precursori e noi possiamo assaporare le grandi novità di Rossini anche grazie a Stravinskij. C’è quasi un filo conduttore che lega all'indietro tanto Stravinskij a Rossini, che Strawinskij a Verdi del quale Stravinskij, in opposizione al gusto del suo tempo, ben conosceva e ammirava per la grande forza della sua musica, non tanto Otello e di Falstaff, ammirate dall'elite musicale, ma le sue opere più popolari come Rigoletto e Aida

Bon Dieu, la voilà terminèe cette pauvre petit e Messe. Est-ce bien de la musique sacrèe que je vien de faire ou bien de la sacrèe musique? J’étais né pour l’opera buffa, yu le sais bene ! Peu de science, un peu de coer, tout est là. Sois donc bèni et accorde-moi le Paradis" dice Rossini a proposito della sua Piccola Messa Solenne, ma, dopo il Guglielmo Tell, dopo aver scalato questa altissima vetta, possiamo tranquillamente dire che era fatto anche per l’opera seria.

ROMANTICISMO IN ROSSINI E WAGNER


ROMANTICISMO IN ROSSINI E WAGNER

Nulla nel Tell è più lontano dall’amore romantico, così come lo intesero i poeti romantici. Nulla è più lontano da quel sentimento vertiginoso, trascinante, ineluttabile, tiranno con cui il romanticismo celebra l’amore fra uomo e donna, tra l'uomo e la sua nazione, tra l'uomo e la natura.  L’amore fra uomo e donna nei romantici è una manifestazione dell’amore universale che abbraccia tutte le cose, che percorre le epoche, che si spinge nel favoloso medioevo dei cavalieri e dei loro disperati amori, che  abbraccia la natura secondo i sentimenti di un panteismo che unisce gli esseri alla natura e il divino, unendoli tutti in un'unica anima. Bruno è il filosofo più amato, quel Bruno che vede nel mondo l’infinità del Dio, nella natura la forza di Dio, nelle creature la presenza di Dio. Un vertiginoso sentimento in cui l’amore diventa il rovente punto d’incontro tra finito e infinito. Nulla di tutto ciò è presente nel Tell. Per molti versi è un’opera romantica perché in essa si celebra l’amore dei sentimenti, l’amore per la natura, la ribellione alla tirannia, la libertà, la guerra per la libertà, ma la natura, l’amore, la ribellione e il dio del Tell non sono quelli romantici.

Wagner scoprirà che il cuore degli dei è perverso come quello degli uomini, immenso come quello degli uomini. Scoprirà che le passioni degli uni sono quelle degli altri e compenetrano l’universo, il cielo e la terra. Il suo panteismo abbraccia zone prima inesplorate e vietate. Wagner vive nell’infinità dell’universo e nel suo pathos.
Il flusso del canto e dell’orchestra è un unico poema sinfonico che unisce il cielo e la terra, il fuoco fisico e quello spirituale, le passioni, la lava, i fulmini e non può mai interrompersi perché è il respiro stesso del’universo. Il panteismo romantico di Wagner è totale nel nuovo Olimpo germanico come nel cuore degli dei e degli uomini. 
L’impasto degli strumenti, l’eliminazione del divisionismo è tutt’uno con il continuo flusso orchestrale senza interruzioni né soste e con il divieto dei concertati da lui percepiti come una brutta confusione di voci e di sentimenti contrastanti, che rompe la voce panteistica di un universo unico e totale. Anche i leimotiv sono suoi figli, anche l’occupazione di tutte le possibilità vocali e strumentali al di fuori delle leggi di un’armonia che tracciano confini artificiali verso zone che non possono più  essere vietate né agli dei né agli umani. 
Se Wagner si espande e si spinge in alto, Verdi scopre il suo universo infinito all’interno dei singoli uomini. In lui il flusso risuona all’interno di ciascuno di noi e esce come canto di ognuno che si scontro coi canti degli altri. Il concertato passionale è il suo regno. Il panteismo è un sentire a lui totalmente alieno.

Lontano da loro il severo Guglielmo canta la patria, la famiglia e l'amore: il "suo amore"! Quello sereno e profondo che non si smarrisce mai nei dubbi e mai si nutre di dilemmi metafisici. Un amore coniugale, semplice forte e felice che mai parteciperà ai sacri misteri della divinità. La sua natura non è panteismo, il suo amore per la natura non è mistica unione con l’universo e con Dio! Il suo amore per la patria non è mistica unione di individui fino alla fusione. I suoi dubbi non sono vertigini di fronte a un universo in cui l’infinito e il finito si compenetrano.

Nonostante ciò, nessuno, come Rossini nel Tell, seppe esprimere in musica l’amore coniugale l’amore famigliare, le dolcezze e gli affetti dei due coniugi, del figlio, i timori di fronte al pericolo. Sono sentimenti ben presenti in tutto l’opera  ma rifulgono nell’invocazione “Resta immobile” che tanto commuoveva Wagner e nella stupenda preghiera della moglie per la salvezza di Guglielmo "tu che l'appoggio dei debol sei..." che non ho trovato su You Tube.













 L’amore coniugale semplice e profondo del Tell è totalmente diverso dai canti d’amore metafisici, cosmici, erotici, statici, estasiati di Wagner e da quelli travolgenti, passionali, densi di sentimento di Verdi.
Wagner aveva bisogno di un amore totale, capace di escludere il mondo e pensò che un simile amore non poteva che essere frutto di un filtro magico. L’amore fra Tristano e Isotta è magico e cosmico, ma non per questo meno umano. Il loro incontro nel giardino è denso erotico, sensuale, quasi delirante. Il procedere lento, estenuante, ricorda nei ritmi le lunghe, lunghe melodie di quel Bellini che Wagner preferiva a tutti gli altri compositori italiani. Ma è anche qualcosa di più: i lunghi estatici lamenti sembrano simboleggiare le carezze. Carezze prolungate, infinite, quasi gli amanti volessero portare all’infinito l’emozione. Il concitato crescendo finale che, con l’unisono fortissimo dell’orchestra, pare la vertiginosa ascesa verso l’estasi. La musica di Wagner è di una straordinaria densità di significati in cui convergono la sensibilità della carne sublimata e l’infinità dei sentimenti.
Nulla di tutto ciò nel Tell ma non per questo è meno grande. Il semplice, forte, profondo amore coniugale del Tell non è musicalmente meno grande del metafisico, magico, infinito amore fra Tristano e Isotta.

Nulla nel Tell è più lontano dall’amore romantico, così come lo intesero i poeti romantici. Nulla è più lontano da quel sentimento vertiginoso, trascinante, ineluttabile, tiranno con cui il romanticismo celebra l’amore fra uomo e donna, tra l'uomo e la sua nazione, tra l'uomo e la natura.  L’amore fra uomo e donna nei romantici è una manifestazione dell’amore universale che abbraccia tutte le cose, che percorre le epoche, che si spinge nel favoloso medioevo dei cavalieri e dei loro disperati amori, che  abbraccia la natura secondo i sentimenti di un panteismo che unisce gli esseri alla natura e il divino, unendoli tutti in un'unica anima. Bruno è il filosofo più amato, quel Bruno che vede nel mondo l’infinità del Dio, nella natura la forza di Dio, nelle creature la presenza di Dio. Un vertiginoso sentimento in cui l’amore diventa il rovente punto d’incontro tra finito e infinito. Nulla di tutto ciò è presente nel Tell. Per molti versi è un’opera romantica perché in essa si celebra l’amore dei sentimenti, l’amore per la natura, la ribellione alla tirannia, la libertà, la guerra per la libertà, ma la natura, l’amore, la ribellione e il dio del Tell non sono quelli romantici.

Wagner scoprirà che il cuore degli dei è perverso come quello degli uomini, immenso come quello degli uomini. Scoprirà che le passioni degli uni sono quelle degli altri e compenetrano l’universo, il cielo e la terra. Il suo panteismo abbraccia zone prima inesplorate e vietate. Wagner vive nell’infinità dell’universo e nel suo pathos.
Il flusso del canto e dell’orchestra è un unico poema sinfonico che unisce il cielo e la terra, il fuoco fisico e quello spirituale, le passioni, la lava, i fulmini e non può mai interrompersi perché è il respiro stesso del’universo. Il panteismo romantico di Wagner è totale nel nuovo Olimpo germanico come nel cuore degli dei e degli uomini. 
L’impasto degli strumenti, l’eliminazione del divisionismo è tutt’uno con il continuo flusso orchestrale senza interruzioni né soste e con il divieto dei concertati da lui percepiti come una brutta confusione di voci e di sentimenti contrastanti, che rompe la voce panteistica di un universo unico e totale. Anche i leimotiv sono suoi figli, anche l’occupazione di tutte le possibilità vocali e strumentali al di fuori delle leggi di un’armonia che tracciano confini artificiali verso zone che non possono più  essere vietate né agli dei né agli umani. 
Se Wagner si espande e si spinge in alto, Verdi scopre il suo universo infinito all’interno dei singoli uomini. In lui il flusso risuona all’interno di ciascuno di noi e esce come canto di ognuno che si scontro coi canti degli altri. Il concertato passionale è il suo regno. Il panteismo è un sentire a lui totalmente alieno.

Lontano da loro il severo Guglielmo canta la patria, la famiglia e l'amore: il "suo amore"! Quello sereno e profondo che non si smarrisce mai nei dubbi e mai si nutre di dilemmi metafisici. Un amore coniugale, semplice forte e felice che mai parteciperà ai sacri misteri della divinità. La sua natura non è panteismo, il suo amore per la natura non è mistica unione con l’universo e con Dio! Il suo amore per la patria non è mistica unione di individui fino alla fusione. I suoi dubbi non sono vertigini di fronte a un universo in cui l’infinito e il finito si compenetrano.

Nonostante ciò, nessuno, come Rossini nel Tell, seppe esprimere in musica l’amore coniugale l’amore famigliare, le dolcezze e gli affetti dei due coniugi, del figlio, i timori di fronte al pericolo. Sono sentimenti ben presenti in tutto l’opera  ma rifulgono nell’invocazione “Resta immobile” che tanto commuoveva Wagner e nella stupenda preghiera della moglie per la salvezza di Guglielmo "tu che l'appoggio dei debol sei..." che non ho trovato su You Tube.










 L’amore coniugale semplice e profondo del Tell è totalmente diverso dai canti d’amore metafisici, cosmici, erotici, statici, estasiati di Wagner e da quelli travolgenti, passionali, densi di sentimento di Verdi.
Wagner aveva bisogno di un amore totale, capace di escludere il mondo e pensò che un simile amore non poteva che essere frutto di un filtro magico. L’amore fra Tristano e Isotta è magico e cosmico, ma non per questo meno umano. Il loro incontro nel giardino è denso erotico, sensuale, quasi delirante. Il procedere lento, estenuante, ricorda nei ritmi le lunghe, lunghe melodie di quel Bellini che Wagner preferiva a tutti gli altri compositori italiani. Ma è anche qualcosa di più: i lunghi estatici lamenti sembrano simboleggiare le carezze. Carezze prolungate, infinite, quasi gli amanti volessero portare all’infinito l’emozione. Il concitato crescendo finale che, con l’unisono fortissimo dell’orchestra, pare la vertiginosa ascesa verso l’estasi. La musica di Wagner è di una straordinaria densità di significati in cui convergono la sensibilità della carne sublimata e l’infinità dei sentimenti.
Nulla di tutto ciò nel Tell ma non per questo è meno grande. Il semplice, forte, profondo amore coniugale del Tell non è musicalmente meno grande del metafisico, magico, infinito amore fra Tristano e Isotta.



venerdì 19 dicembre 2014

Presento i personaggi del mio Romanzo LA CITTA' E IL DEMONIO - GIOSUE' A FIRENZE


Presento i personaggi del mio Romanzo LA CITTA' E IL DEMONIO postando un o più capitoli che lo riguardano.


GIOSUE'





L’istituto

Così si realizzò quell’evento inatteso che mi mandò in visibilio. Un visibilio appena attenuato dal fatto che mi avrebbe accompagnato la mamma, mentre io volevo papà che però detestava le marmaglie volgari e saccenti dei treni.
Quel mattino Giosuè, medicati i bubboni, vestito come un piccolo lord, s’imbarcò con la mamma, vestita in modo tanto sgargiante e volgare da far vergognare Giosuè che sopportò con pazienza, pensando che quel rosso da vera mugnaia era il prezzo che Giosuè doveva pagare.
E così, come aveva temuto, Giosuè dové sorbirsi gli insulsi discorsi della massa che lanciava anatemi e disquisiva su tutto: su Turchi, governo, canzonettari e novele. E sulle novele, con foga, si gettò la mamma, che nel suo rosso chiassoso cominciò a raccogliere grano, macinarlo con cura, macinarlo con foga, sorridere a destra e sinistra, mulinare le gambe inguainate e parlanti che dicevano al Giorgio, venditore di arredi, “Guarda! Guarda che grazie!”
Così quel Giorgio sorrideva alla mamma, parlava alla mamma, elogiava la mamma e guardava le gambe, facendo impazzire Giosuè che, osservando la mamma che rispondeva eccitata a quel Giorgio perché lui le guardava le gambe, aiutando quel Giorgio a guardarle, restituendo parole e sorrisi, dilatò le sue pustole che crebbero come vulcani pronti a scoppiare e cominciò le sue danze, dapprima senza successo perché la mamma era troppo eccitata e poi frapponendosi fra quel Giorgio e le gambe e indicando i vulcani col dito fino a che anche la mamma e quel Giorgio videro il pus e tornarono a terra.
Seguì quindi la mamma mugnaia in toilette dove lei asciugò e disinfettò non solo senza la cura e l’affetto di una buona mamma canonica ma anche rimproverando Giosuè di parlare di pustole di fronte alla gente. Giosuè protestò, al che la mamma divenne furiosa e finì quel lavoro con tanta malgrazia che Giosuè se lo chiese sul serio che aveva quel Giorgio, a cui mamma voleva tanto mostrare le gambe e allora, sballottato dalle rotaie, umiliato dalla mamma Mugnaia, da quel Giorgio lascivo che si mangiava le gambe, si rifiutò di rientrare e rimase a guardare le montagne fra Bologna e Firenze, senza per questo dimenticare quei due, ché anzi, vedendo che chiacchieravano allegri, fece il suo dovere di figlio e poiché non poteva coprire le gambe e mettere un tappo alle bocche giulive, s’allontanò dal suo vetro, cosicché dove prima la mamma vedeva Giosuè, di colpo, vide il verde dei pini e, conoscendo le sue bizze dementi, uscì per cercarlo. Così avvenne che il treno passò l’Appennino, arrivò a Firenze e la mamma mugnaia scese dal treno, annotandosi il numero del lascivo Giorgio che invece, rimasto sul treno, promise che avrebbe usato quel numero e con gioia contattato la mamma.
In albergo Giosuè attese che mamma si rinfrescasse, poi dové rinfrescare se stesso e, ultimato il rinfresco, quando lui voleva volare al museo, la mamma ebbe un altro problema, poi ritenne che lo avesse Giosuè poi volle mangiarsi un bel toast, poi che lo mangiasse Giosuè, poi consumare un caffè, poi consultare la carta, poi consultar l’orologio, il cielo e le nubi per concludere che la mamma era stanca e che consumato un brodino sarebbe andata a dormire. «Faremo tutto domani» disse e Giosuè, che durante quella lunga melina aveva mangiato cacca in silenzio, si sorbì un brodino con cacca e un’insalata con cacca mentre l’aura di mamma mutava dal rosso al violaceo e il suo odore passava al fegato d’oca. Insomma, pur vedendo che mamma voleva irritarlo, Giosuè mantenne la calma e così, dopo la cena alla cacca, si ritirò.
Questo sorprese la mamma che invece, da stanca, distrutta, sfinita si scoprì riposata e ruspante «Non andiamo a passeggiare Giosuè?» chiese con colore inquieto e cangiante a Giosuè, che, angelico come non mai, si disse stanco e desideroso di pregare il Signore e così un Giosuè trionfante e la mamma, che, pur inquieta mugnaia, era pur sempre una mamma, salirono in camera dove Giosuè dormì soddisfatto.
Il mattino Giosuè e la mamma si lanciarono nella nuova avventura. Ma nulla filò perché Giosuè, dove s’aspettava dedizione per l’arte, trovò un direttore falso e mellifluo che si chinò a carezzargli la testa «Ah, questo è il giovanotto che ama i dipinti» ma poi vista la mamma di quel giovanotto, rossa sgargiante e con gambe parlanti, individuò la mugnaia e così, dimenticato il prodigio Giosuè, si dedicò al nuovo prodigio, ordinando a una torva impiegata di sollazzare Giosuè e illustrare come si sanavano i quadri.
Giosuè, che scorazzò in quelle dodici sale osservando tele malate, tele guarite, tavole morte, tavole vive, profeti, miracoli, fu incontenibile e mise i pollici ovunque mentre molti piangevano e pochi ridevano, tanto che un piangente bussò al direttore, al che l’orco, scocciato, rispose e solo dopo lunghi minuti la porta si aprì su un orco e su un’orca affannati, tanto rossi nei volti, che Giosuè, annusando le ottave, senti che mentre lui scorazzava felice tra i quadri, l’aggeggio dell’orco scorazzava in un altro oratorio.
Così terminò quella epica visita. Meraviglie nessuna: stanchi impiegati, carte di riso, cappuccini, dossier. Giosuè ritornò nauseato e la mamma entusiasta, raccontando a nonna e papà di questo e di quello, di direttori, di artisti, di arti e bellezze mai viste.

Giosuè fu dignitoso. Interrogato da nonna rispose con nulla e lasciò che la mamma completasse quel nulla, elogiando un Giosuè che, come Gesù coi sacerdoti del tempio, aveva parlato con garbo, esposto con ampia dottrina e stupito quei bravi pittori che s’erano sperticati in elogi per lui e congratulati con lei, onorevole mamma di tanto prodigio. Insomma Giosuè di fronte a tanto berciare avrebbe davvero cacciato i mercanti dal tempio, ma non potendolo fare, continuò a sopportare l’inesausta mamma mugnaia che decantò il direttore che, mugnaio di somma perizia, aveva elogiato Giosuè, magnificato Giosuè, carezzato Giosuè e invitato la mamma a visitare una pala splendente, appena finita, e pronta a tornare in Padania. Non parlò la mamma di altra pala carnosa, nodosa e carnale che s’era inoltrata, in un’altra Padania di cui solo papà possedeva la chiave legittima.


giovedì 18 dicembre 2014

Presento i personaggi del mio Romanzo LA CITTA' E IL DEMONIO - GIOSUE' AL MARE


Presento i personaggi del mio Romanzo LA CITTA' E IL DEMONIO postando un o più capitoli che lo riguardano.

GIOSUE'
Giosuè è un ragazzo permaloso e individualista nato con una perpetuo fioritura di pustole in volto. A scuola si innamora della sua insegnante d’inglese

Al mare

Quell’anno i dotti dottori decretarono per Giosuè il mare iodato dove il sole avrebbe prosciugato le pustole, livellato i crateri e dato al volto un superbo colore dorato.
Papà era scettico «Lo porterete a casa in barella» replicava papà che aggiungeva che mai e poi mai sarebbe andato alla spiaggia a respirare e mangiare la sabbia.
« E’ letame! La marmaglia ci mangia, ci sputa, ci piscia e ci sbava. E come volete vedermi? Distrutto dalla sabbia, dal sole, dai coglioni iodati, da bile e letame? E così finirà il ragazzo»
Anche Giosuè, che vedeva la fine del futuro Giosuè, voleva urlare che no, che non voleva né il letame né il mare ma poi con pazienza accettò. Lo fece per mamma: per prendersi cura di lei, per portarla al sole, al mare, allo iodio. Così partirono la mamma e Giosuè attrezzati da mare: ciambella con testa di cigno, salviette, costumi, cappelli e una cassa di unguenti, di oli e di creme che, in congiunzione con l’aria iodata, avrebbero salvato la mamma e Giosuè.
Così si trovarono, la mamma e Giosuè, a frequentare la spiaggia. La mamma al sole in bikini e Giosuè, trincerato nell’ombra a guardar la feccia scomposta che giocava alle biglie, costruiva castelli, divorava biscotti e beveva aranciate.
Giosuè leggeva montagne di Tex, che la mamma comprava in quantità oceaniche e sorvegliava la mamma che, non giocava ai birilli ma attirava i mosconi, esseri nuovi per l’arcaico Giosuè che, interessato a quel gioco, si mise a spiare la mamma, le mamme e i vigorosi, abbronzati mosconi che, ronzanti, sorridenti, ridenti atterravano sulle corolle di fiori e, sempre ronzando, parlavano come poeti di fiori e corolle, inneggiando alle corolle dei fiori, ridendo coi fiori e offrendo gelati ai figli dei fiori.
Si distrasse appena un momento, Giosuè per seguire un multiplo Tex inerpicarsi per alte montagne nevose popolate di indiani, banditi e bisonti e, quando tornò sulla spiaggia, vide un moscone insediato in trincea con lui e la mamma. Un moscone giovane e bello; un vero moscone dotato di baffi, di denti bianchissimi, lavati con Ava bucato che, seduto a fianco di mamma, intratteneva la mamma, elogiava la mamma, glorificava la mamma e, raccontando fandonie, incantava la mamma, che rideva, rideva, rideva e, felice, parlava di lei, della nuova Parietti, della nonna, del tempo, di Baudo, del Giosuè lì presente e perfino del bilioso Rattazzo, bevendo le favole che raccontava il moscone, che intanto parlando e ridendo con lei, interrogava un Giosuè sospettoso. Un Giosuè che - Giosuè lo rimarca -  mai e poi mai era andato a brucare con lui.
 Giosuè lo disse alla Mamma che il tizio gli offriva degli stupidi Crafen, «Vuoi un Crafen Giosuè?» «Vuoi la menta Giosuè?», «Stai bene Giosuè?», «Vuoi fare il bagno?». Al che la mamma rispose: «E’ solo educato, Giosuè! Quanto sei sciocco!» ma Giosuè non demorse perché se voleva nuotare lo chiedeva alla mamma e non a quel tomo, se voleva una spuma la chiedeva alla mamma e non a quel tomo, che rideva come un gorilla e produceva risucchi che a Giosuè non piacevano come non piaceva il bel tomo.
Insomma che interessava a quell’essere infido se Giosuè stava bene o se voleva bagnarsi? Perché pretendeva di prendersi cura dell’essere battezzato Giosuè, quando quell’essere aveva una mamma e, soprattutto, un papà che avrebbe atterrato quel povero fesso con una sola, poderosa e tremenda panciata?
Questo pensava Giosuè in maniera stoltamente retorica perché quello stesso Giosuè dové presto toccare con mano che, se chiedeva una spuma da bere, la mamma udiva il moscone che rideva e ronzava, ma non quel Giosuè in procinto di morire per sete, per cui dovette urlare, Giosuè, e quando finalmente la mamma, udito il richiamo, disse a Giosuè di non fare la rugna, di calmarsi, di abbassare la voce, Giosuè tenne duro, protestando che moriva di sete, il che non commosse per nulla la mamma mentre lui fu accusato di fare i capricci.
«Voglio solo una spuma!» disse Giosuè.
«L’erba voglio non esiste neppure nei giardini del re» rispose la mamma.
«Ho sete» disse Giosuè e lo disse con tanto vigore che la mamma cedette.
«Andiamo a prenderla al bar» disse al moscone
E così un Giosuè immusonito li vide cinguettare, ballare, raggiungere il bar e sparire ridendo, il che aumentò la sua rabbia. Odiava il mondo, Giosuè, odiava il tomo narrante e ridente, odiava quella mamma ridente che, dimentica del lontano Rattazzo, era attenta solo al moscone, ma odiava pure se stesso, incapace di prendersi cura di lei che era pur sempre la solita mamma giuliva di sempre e così, alzando gli occhi all’azzurro del cielo, decise di essere buono. Fu quindi un Giosuè tollerante e gentile quello che accolse la mamma e il bel tomo; un Giosuè che, sorprendendo la mamma, la udì sospirare sorridendo al bel tomo:
«Oh, ecco il mio caro Giosuè!» e questo non piacque a Giosuè, che poi scoppiò pure in delirio quando vide una bottiglia d’arancia “Ma come,” disse a se stesso, “non ricorda neppure che volevo la spuma?” e allora si mise a pestare la sabbia, dicendo che voleva la spuma, che la mamma non sentiva un bel niente e, offeso fino al midollo, pianse di rabbia recriminando sul mondo, sulla madre cretina e, laggiù nel profondo, pure sull’indegno se stesso che piangeva come un qualsiasi marmagliatico bimbo.
«Abbiamo chiesto una bottiglia di spuma» diceva la mamma «Si saranno sbagliati.» ma Giosuè non solo non depose le armi, ma, intensificati sia l’urlo che il pianto, iniziò a battere i piedi finchè mamma, sempre più inquieta, s’arrese: «…se ti ho offeso? … ecco che torno e prendo la spuma…» Al che Giosuè, vittorioso, ribadì che voleva la spuma e così poté, gongolante, osservare la mamma incamminarsi a comprare la spuma e il bel tomo sorridere nero, tirato e schiumante di rabbia. Si sedette quel Giosuè vittorioso sul mondo, guardò la plebe scomposta, si bevve la spuma, degustò la tristezza di mamma, l’ira del tomo e, godendo la sua vittoria di Pirro, riprese il suo Tex, che, sgominati gli adoratori del fuoco, correva in aiuto ai coloni del Texas.
Arrivò, infatti, quel Pirro e quando Giosuè vide la mano del bullo volare nel cielo e posarsi sulla spalla di mamma, quel Pirro sogghignò come un topo; e quando la mano del bullo passeggiò sulla schiena di mamma e comparve sul lato sinistro, Giosuè si sentì morire di rabbia, mentre il bullo esultava, la mamma chiocciava e Pirro schiaffeggiava Giosuè che impotente vide la mamma vibrante di karma, sgambettare sulla spiaggia dorata inseguita dal bullo ridente; e mentre i due folleggiavano in acqua, la mamma toccando il bel tomo e il bel tomo, la mamma, Pirro sorrise per schernire Giosuè.
E fu così che Giosuè, come un povero scemo, con paletta, Pirro e secchiello si ritrovò a seguire la mamma e il moscone; allegramente ciancianti. La mamma controllava ogni tanto che, dietro, la molesta appendice Giosuè, con cappello e brachette canoniche,ancora esistesse mentre lei, scoppiettante di gioia, sorrideva al moscone e voleva che Giosuè sorridesse «Sorridi!», «Perché non sorridi?» diceva la mamma, invitando quel testardo, irritante, Giosuè rompiscatole a sorridere in un giorno tanto radioso. Perché non rideva? Perché non rideva mentre il cielo era azzurro, il mare in bonaccia e loro a passeggio? No, Giosuè non sorrise e anzi più nero del nero preannunciava tempeste tanto imminenti da indurre la mamma a cercare qualcosa che evitasse il disastro. Brancolava, dunque, affannata a cercare il qualcosa e brancolava il suo infido bullo che, scomparso in un amen, ricomparve in un amen, sollevando in un sacchetto di nylon un misero pesce rossastro, rifilato a Giosuè con un coro d’urletti di gioia «Vedi che bel pesce rosso! Vedi che ha trovato l’Aldino? Sai che facciamo?» esultava cinciallegra la mamma “Chissà che facciamo!” rantolava in silenzio Giosuè “Una folle goduria!” ridacchiava quel Pirro.
E così il Giosuè si ritrovò come un povero scemo col sacchetto del pesce, la paletta e il secchiello, fino a che passando di fianco a una vasca turistica, liberò la vittima pesce per la gioia di un’oscena marmaglia che pascolava piroscafi.
Poi continuò a camminare quel Giosuè con paletta, secchiello e sacchetto e cominciò a stivare dentro il sacchetto candide cacche di gabbiani e colombi, mentre irritato e impotente, guardava quei due che cianciavano allegri pappando il gelato. Vide di colpo, capì e predisse che la mamma, spaesata dallo iodio e dal sole, confusa dal parlare del tomo, sarebbe presto finita sotto il pesce moscone nella posa della Mugnaia porcona.

S’arrovellava Giosuè per prendersi cura di una mamma perpetuamente sconnessa, quando i due si fermarono a guardare scialli, pareo e foulard, «Quanto ti starebbe bene quel foulard annodato alla vita!» incoraggiò il tagliaboschi e la mamma mugnaia entrò nel negozio seguita dal guappo, da un Giosuè spaesato, da Pirro e dal sacco puzzolente di cacche.
 La mamma provò il foulard sulla testa, sul collo, alla vita e il bellimbusto ammirando disse «Sei bella come una dea!» mentre lei in brodo di giuggiole, sorrideva allo specchio, non solo comprava quel foulard multiuso ma voleva che pure l’Aldino l’avesse e così l’Aldino in oggetto non se lo fece ripetere, lo prese di corsa e cominciò a dimenarsi davanti allo specchio, chiedendo al cielo e alla mamma «Come mi sta? Mi sta bene?» Al che, mentre il cielo rideva e Pirro rideva, la bella mugnaia, già pensando a un altro pennello, belò che gli stava a pennello.
Giosuè, inutile dirlo, assisteva al teatro e vedeva un altro teatro dove lei, mugnaia entusiasta, giocava col nuovo pennello mentre Pirro rideva, il pennello rideva, il mugnaio rideva e Giosuè non giocava al mugnaio né usava il pennello ma, dotato di un crafen, di secchiello, e paletta veniva spedito al di là del mulino a vedere in cielo i colombi infilzare colombe, in un sabba infernale di gabbiani, colombi, cacche e pennelli.
Su questo triste destino meditava il Giosuè quando qualcosa successe alla cassa fra i colombi tubanti con la rossa colomba che sputava veleno e il colombo che guardava in cagnesco, al che il redivivo Giosuè, visto che il pennello aveva una borsa, scaricò nella borsa la cacca, prima che lo stesso pennello, furente,uscisse chiamando ‘tardona’ la mamma. 
E così uscirono la mamma col pacco, il mugnaio col sacco e la cacca e Giosuè col secchiello e la mano puzzolente di cacca.
La mamma già nera divenne più nera:
«Ma che hai fatto Giosuè? Dove hai messo la mano? E il pesce dov’è? Ma perchè devi rompere sempre!?»
E così Giosuè, che viaggiava con la mano spianata e lontana dal naso, approdato a una fonte e nettato, s’avviò con mamma, che a un Giosuè interrogante rispose:
«Voleva che pagassi il foulard»
«Il tuo?» chiese Giosuè
«Il suo!» rispose la mamma. Insomma il moscone voleva la paga per fare il mugnaio e mamma che, iodata com’era, non vedeva un bulletto ma un cavalier d’arme e d’amore, di colpo aveva visto il bulletto che parlava di fate, d’armi e d’amore, ma vendeva pennelli e colombi e così immantinente diede volo al colombo e biada al bel tomo.
La sera Giosuè e la mamma si consolarono con carote, piselli e un faraonico cono al limone. La mamma divorava con rabbia, ma non quel Giosuè che teneva lontana dal corpo la mano appestata e intrisa dai residui collosi di cacca, poichè il primo e il successivo lavaggio avevano appena intaccato gli strati del guano.
Giosuè che stava soffrendo, tentò di annullare quelle essenze malefiche col globo al limone ma il freddo aggravò l’infezione e mamma, nervosa, latrando cominciò un lungo sproloquio contro un Giosuè delirante, inetto, folle e sprecone. Giosuè protestò mostrando la mano intrisa di cacca, ma la mamma confuse non solo la cacca e il gelato, ma pure il Giosuè del mattino con quello serale, perdendo infine ogni santa pazienza, perché quel Giosuè continuava a parlare di cacche, colombi e veleni mentre l’altro, il Giosuè bistrattato, infetto e incompreso, scuoteva disperato la testa.
Giosuè subì l’onta di un altro furioso lavaggio ma, deriso da Pirro, continuò le sue lagne, fino a che mamma concluse che si andava a dormire e Giosuè assentì ma non prima di mettersi un guanto per bloccare l’infezione mortifera.
 Quella notte Giosuè sognò Pirro e il moscone mugnaio che, mutato in cavaliere infernale, sul suo nero cavallo attaccava il castello, espugnava il castello e infilzava Giosuè e la mamma con un cazzo d’acciaio.
Sconvolto dall’orrenda visione si svegliò con la mano infuocata e, non osando togliere il guanto, corse allo specchio e urlò di spavento.
Poi tutto divenne frenetico; la mamma telefonò al lontano papa e al locale ospedale che inviò un dottorino appena adeguato per infarti e colpi di sole ma del tutto ignaro di patologie complesse del tipo Giosuè.
E, infatti, fu «Colpo di sole!» la prima, sicura, immutabile diagnosi emessa dallo stesso dottore che, annunciato al mondo il verdetto, dopo dodici colpi di sole e pronto a scappare, fu bloccato da una mamma in versione gorgonica:
«Lei resta! Lei misura la febbre! Lei sente il respiro! Lei visiona la mano!»
Il dottorino sbuffando eseguì, ribadendo «Colpo di sole! Tredicesimo colpo di sole e tredicesima madre impazzita»
Giosuè, inutile dirlo, apprezzò quel dottore impassibile, esecrando la mamma in versione sguaiata e plebea. Così, nonostante il dolore, decise di riacquistare la calma dell’usuale Giosuè che da sempre era conscio di essere oasi e parco, albergo, e ricovero per ogni batterio, eucariota o bacillo del mondo.
Perciò rimase tranquillo, sopportando il disordinato agitarsi di mamma, che, con scarsa cognizione di causa, sproloquiava su quell’essere anomalo che era Giosuè. «So tutto sui colpi di sole ma Giosuè non ha febbre, e poi l’ha vista la mano?» sbraitava la mamma al giovane inossidabile medico che alla fine, sbuffando, disposto il termometro, esaminati i crateri, auscultato il respiro, ordinò «Respira, non respirare, respira, non respirare» e, infine, osservata la mano infilata nel guanto, tentò di togliere il guanto. Giosuè ringhiò come un cane e allora il dottorino marittimo, stanco e irritato, lasciò in pace quel cane, sentenziò «La mano s’è fusa col guanto», ribadì ‘colpo di sole’, scrisse due fogli; per ricoverare Giosuè e la mamma gorgone e infine, in barba alle facce violacee, alle madri impazzite, ai colpi di sole, uscì, scavalcando la mamma, proprio mentre papà, annunciando il prossimo arrivo, sbraitava al telefono per la fretta di mamma di mandare Giosuè a farsi ammazzare al locale ospedale.
Debbo dire che il Giosuè di allora accolse con gioia la notizia dell’arrivo del padre, l’unico in grado di difendere il figlio Giosuè contro tutti, comprendendo nei tutti quel cavaliere dal “Cazzo d’acciaio”. Avvenne così che Giosuè si ritrovò in ospedale dove la mano fu liberata dai medici, veri nazisti al passo dell’oca, che lette le cartelle dell’essente Giosuè, tempestarono di domande mamma e papà, decretando per Giosuè un’allergia al colombo marittimo e per mamma e papà dei congeniti colpi di testa.
Dopo due giorni di austera penombra, Giosuè virò dal violaceo al porpora; dopo altri due giorni papà l’imbarcò sulla macchina e, scaricato quel triste ospedale dalle colpe passate, presenti e future, portò in salvo la mamma e Giosuè liberandoli, così, dai colombi, dal sole, dai dottori e dai beceri cavalieri infernali. Pirro, come sempre irridente, venne con noi.

 


mercoledì 17 dicembre 2014

IL PROFETA HEIDEGGER



HEIDEGGER

Provo in questa sede a parlare di Heidegger anche se non sono né un suo profondo conoscitore né un suo fan. Anzi mi aspetto che, se qualcuno legge e commenta queste poche righe, lo faccia dicendomi “Non hai capito nulla! Le cose non stanno come racconti tu” Non solo non mi offenderei ma sareri lieto di imparare qualcosa.

L’ESSERE e la VERITA’in Hedegger

L’ESSERE preceda la VERITA’, sostiene Heidegger, e determina le condizioni di verità. Questo pensiero mi appare non solo ragionevole ma addirittura ovvio. Ad esempio, in America un uomo può essere dichiarato colpevole nel processo civile e innocente nel processo penale. Nei due casi l’Essere delle istituzioni e delle leggi detta le modalità delle condizioni di verità e due differenti verità. In uno la colpevolezza deve essere esente da ogni possibile dubbio affinché la colpa sia vera, nell’altro processo, no. E così accade in chiesa nei tribunali, nelle scuole, in casa, ecc. E’ l’ESSERE a costituire le nostre condizioni di verità.
Ma Heidegger non vuole dire questo! Non sta sostenendo una forma relativistica della verità ma una forma assoluta, ontologica, direi metafisica. Per lui la “dimora dell’ESSERE” è nel linguaggio. Quindi è nel linguaggio che va cercato l’Essere. Ma quale linguaggio? Non certo, sostiene Heidegger, nel linguaggio della metafisica e della scienza.

LA SCIENZA E LA FILOSOFIA DOPO SOCRATE

Per Hedegger, dopo i presocratici, con l’adozione del linguaggio della fisica e della metafisica, il pensiero ha smarrito la giusta via, poiché le scienze occultano e violentano l’ESSERE.
Anche con questa affermazione non si può non essere d’accordo. I modelli e le teorie perdono e conquistano. Un modello di un edificio, ad esempio un modello plastico, non è l’edificio e da esso non si può risalire all’edificio. Lo stesso capita con un suo modello strutturale; da una serie di equazioni, di solai e di travi, con le loro armature, non si può risalire certo risalire all’edificio. Le teorie ci danno informazioni sul mondo ma perdono il mondo e per farlo devono esercitare violenza. Ma modelli e teorie non pretendono di offrirci il mondo in una sorta di abbraccio d’amore. Li elaboriamo e li inventiamo per avere informazioni e cerchiamo queste informazioni per rendere quello stesso mondo più prevedibile, più conoscibile, meno pauroso.


L’INDIGENZA DEL LINGUAGGIO

Il linguaggio della scienza è indigente. Hedegger dichiara di non poter scrivere con il linguaggio della metafisica la sua filosofia dell’Essere, di non poter narrare dell’ESSERE, di non potersene prendere Cura. Non mi stupisce e sono d’accordo. Il linguaggio è una preteoria ed è naturale che nella misura in cui è teoria, come tutte le teorie e i modelli, occulti e perda proprio per informare e conquistare.
La distinzione tra teorie e preteorie è spesso ambigua come si può facilmente constatare dalla matematica.
Con i numeri, le funzioni e gli algoritmi esprimiamo le discipline scientifiche che ci appaiono tanto più progredite quanto più riusciamo a matematizzarle, ma, a sua volta, la matematica, oltre che essere un linguaggio, una casa per scienza e tecnica, è anche un insieme di teorie con entità, teoremi, architetture proprie. I suoi teoremi ci aiutano a esprimere le altre teorie, dando loro una casa ma impongono con le loro regole vincoli e limiti.
Anche il linguaggio possiede questa duplice funzionalità. Da un lato ospita racconti, teorie, filosofie, dall’altro è essa stessa una teoria, la cui grammatica e la cui sintassi sono da sempre oggetto di studio. Logica, linguaggi artificiali, traduzione automatica sono alcuni fra i problemi che coinvolgono lo studio della lingua in quanto teoria. Lo stesso Chomsky intende la grammatica di una lingua come teoria della struttura di quella lingua[1].
Il linguaggio in quanto teoria vincola il nostro potere espressivo. Non è solo Heidegger a lamentare l’indigenza del linguaggio della metafisica. Noi tutti siamo come viaggiatori che vogliono perlustrare una regione ma possono viaggiare solo su un treno, senza neppure poter vedere le rotaie.

IL LINGUAGGIO DEI POETI

Il linguaggio in quanto dimora dell’essere ci offre aperture di verità ma il linguaggio di cui parla Heidegger è non il linguaggio della metafisica ma quello della POESIA In esso troviamo le aperture di verità nelle parole dei poeti e nelle etimologie delle parole stesse.
Che dire di una simile affermazione? Completamente d’accordo sul fatto che il linguaggio della scienza e della metafisica ha perso e continua a perdere. Lo fa perché continuiamo a produrre teorie e modelli ma naturalmente, come sopra accennato, lo facciamo per avere informazioni. E questo vuol dire conquista di informazioni e perdita dell’unione mistica con l’integrità del mondo.
Vado anche più avanti. Il nostro processo di conoscenza e uso del mondo è molto più simile al processo di nutrizione e di digestione dei cibi che all’osservazione disinteressata del mondo. Noi assimiliamo il mondo: usiamo il simile, assimiliamo il dissimile ed espelliamo ciò che non riusciamo ad assimilare. Ma da ciò ad arrivare all’approdo della parola dei poeti e dell’etimologia come verità la strada è lunga! Perché poi i poeti? Ci sono tante cose, tanti sentimenti che col linguaggio non riusciamo né mostrare né dire.
La filosofia non riuscirà mai a far risuonare dentro di noi i sentimenti e le emozioni che ci procurano le letture dei poeti, dei romanzieri e le grandi opere musicali. Penso che nessuno di noi pensi di trovate in essa tutto ciò che ci danno le musiche di Wagner, di Cherubini, dei cantanti rock. Per questo non leggiamo solo i filosofi ma ascoltiamo la musica.

Forse la mia è solo incomprensione dovuta a una divergenza di porsi di fronte alla vita. Per Heidegger il “nulla” non deriva dalla negazione e l’essere non deriva dall’esistenza ma viceversa. A questo proposito o si è con Heidegger o si è dal lato opposto. Una divisione tanto profonda come quella fra Aristotelici e Platonici.
  

  



[1] N. Chomsky Tre modelli per la descrizione della lingua in Linguaggio e sistemi formali a cura di A. De Palma 1974, Einaudi, Torino, p.203

IL LABORATORIO DI GIANCARLO GRAMAGLIA E DEI SUOI COLLABORATORI


IL LABORATORIO DI GIANCARLO GRAMAGLIA E DEI SUOI COLLABORATORI  

Da anni - non mi ricordo neppure più da quando - una, due volte la settimana - Giancarlo coi suoi collaboratori riceve nel Laboratorio e discute di psicoanalisi, di filosofia e di problemi sociali. La discussione avviene in questo modo: lui o uno dei suoi collaboratori introducono largomento, lo espongono da vari punti di vista e poi si da il via alle domande e alla discussione. Chiunque può intervenire e in effetti non solo il pubblico ma pure i collaboratori, chiariscono, pongono a loro volta quesiti, ascoltano pareri, rispondono, dialogano.
La sede, attrezzatissima e funzionale, offre la possibilità di seguire e di interloquire con Skype, da tutto il mondo: dallAsia e dalle Americhe, come da Torino, come in effetti avviene regolarmente. Uno schermo permette di visualizzare fotografie, filmati e attività sul computer:  lungometraggi, immagini e video prelevati dal Web.

La sede è in via Assisi n. 6 nel quartiere Madonna di Campagna a Torino. D'inverno si discute nel grande seminterrato con volta a botte e mattoni a vista

LA SALA A BOTTE


e durante la bella stagione nell'ampio giardino: una piccola oasi dove Giancarlo, la compagna e collega Flavia Giacometti (autrice del bel romanzo RICONOSCENZE DI VOLO), il pensatore e poeta Roberto Bertin (autore DAL DIS-ORDINE PENSIERO E POESIA) e l’artista Ernesto Rinaldi dopo aver faticosamente raccolto pietre della Stura, lose, sugheri, hanno ripristinato le decorazioni originali, sistemato le differenti tipologie dei mattoni e rimesso a nuovo gli antichi ferri battuti.  Hanno progettato e fatto costruire la saletta dei rinfreschi e il luogo di ritrovo all'aperto sotto un pergolato di glicine . Ma il vero miracolo è il giardino antestante dove sono state messe a dimora decine di piante e arbusti che un tempo erano famigliari al terreno. Tutto per costruire l'oasi-ambiente in cui ciascuno si trovi a proprio agio e si abbia piacere di scambiarsi pensieri in un ambiente ricco di suggestioni.

IL PICCOLO GIARDINO


ALCUNE INIZIATIVE DEL LABORATORIO:

   •      I seminari annuali che si svolgono con cadenza quindicinale
   •      Lo sportello d'ascolto punto ( uno presso la sede dellassociazione e un secondo Sportello di ascolto presso Casa di Quartiere le Vallette in piazza Eugenio Montale 18)
   •      Un punto di consultazione e lettura
   •      Il cortile del pensiero, luogo in cui avvengono dibattiti, presentazione di libri, eventi artistici e rinfreschi
   •      I ritrovi annuali come Casa aperta e La festa della Magnolia  
   •      L'attività editoriale
SOTTO IL PERGOLATO


Trascrivo le attività del punto di ascolto e di lettura e riporto alcune delle opere pubblicate dall'Editore LFLP

 Costituzione di un punto di consultazione e lettura

Le cartacce: lib&ri pensieri 

Le attività che nel corso degli anni si sono sviluppate all'interno e all'esterno della sede del LFLP hanno prodotto materiale raccolto in dispense e in pubblicazioni. In particolare il resoconto delle diversificate attività e delle partecipazioni a iniziative, dibattiti, convegni è avvenuta nella forma di libri di singoli autori e collettanei.
Inoltre sono stati raccolti testi inerenti collaborazioni con associazioni italiane ed estere oltre a numerosi libri di arte, letteratura, storia, psicologia utilizzati per lavori e seminari.
Allinterno del Laboratorio si possono stimare circa 10.000 testi tra libri, periodici e dispense, alcuni dei quali sono stati editati dallo stesso LFLP.
Un cospicuo materiale psicoanalitico, patrimonio dall'associazione è costituito da registrazioni audio e video che documentano la presenza e la partecipazione dell'associazione LFLP a seminari e convegni in Italia e in Europa.
Lattività che si intende svolgere consiste nel raccogliere il materiale riguardante i testi, le registrazioni audio e i video per poterli catalogare ed archiviare. Si tratta di suddividere per ambiti di argomento i vari libri, sbobinare le registrazioni e catalogare i video, quindi informatizzare il materiale individuando una catalogazione utile per costituire un punto di lettura e di consultazione che verrà messo a disposizione a ciascun cittadino interessato.
Inoltre sarà possibile consultare on-line il materiale catalogato sul sito internet dell'associazione, per permettere a ciascuno di ricercare qualsiasi testo e video che possa interessare.
Il luogo individuato ad ospitare le persone è la sede stessa dell'associazione. E' inoltre possibile utilizzare, nei mesi primaverili ed estivi, il Cortile del pensiero in quanto oltre al confortevole giardino è presente uno spazio di studio che può essere attrezzato con tavoli e sedie e nel quale è già attiva una copertura wi-fi che occorre ampliare.
L'attività descritta, si colloca appieno negli intenti che LFLP intende promuovere attraverso il coinvolgimento dei cittadini.
Obiettivo del lavoro è offrire uno spazio di incontro e di confronto attraverso la proposta di consultazione e lettura testi di generi diversificati che possano sollecitare il dialogo reciproco. L'accesso può essere diretto presso alla struttura oppure la fruizione dei testi può avvenire on-line, mantenendo comunque con i cittadini afferenti un contatto personale. Intento dell'iniziativa è infatti istituire un punto bibliotecario con una connotazione precipua volta alla possibilità di condivisione dei propri lib&ri pensieri ponendo l'attenzione a ciascun singolo soggetto facilitando l'integrazione e il legame sociale.

Alcune delle opere pubblicate dalleditore:  


GIANCARLO GRAMAGLIA - RUBRICA DI PSICOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA





FLAVIA GIACOMETTI - RI-CONOSCENZE DI VOLO 



ROBERTO BERTIN - DAL DISORDINE PENSIERI ANCHE IN POESIA