lunedì 1 dicembre 2014

PRIMA DOPO E DURANTE - UNA DISORDINATA PASSEGGIATA FRA LE NOTE - ROSSINI - GUGLIELMO TELL - PARTE TERZA DI CINQUE

PRIMA DOPO E DURANTE - UNA DISORDINATA PASSEGGIATA FRA LE NOTE - ROSSINI - GUGLIELMO TELL - PARTE SECONDA DI CINQUE 





Di Offenbach oggi si ricorda la barcarola dai Racconti di Hoffman e il Can-can dall’Orfeo all’Inferno, come del Guglielmo Tel, di tutto il Guglielmo Tell, si rischia di ricordare solo l’indiavolata galoppata finale della sinfonia d’apertura. 
Eppure, di quella incredibile sinfonia d’apertura, la galoppata finale non è neppure il pezzo migliore. L’ouverture è un poema sinfonico. La lenta, geniale introduzione del violoncello sfocia nell'annuncio del temporale, nel temporale, nel quieto canto pastorale che saluta la fine della tempesta, nello squillante vorticoso finale. Di questi quattro episodi descrittivi il primo e il terzo sono capolavori; appena al di sotto i travolgenti secondo e il quarto. 
Siamo molto lontani da altri famosi temporali come quello della sesta sinfonia di Beethoven o dai brevi intensi espressivi suoni del Rigoletto di Verdi. La fanfara finale è, in sé, un'ottima espressione del vorticoso genio musicale del miglior Rossini. Genialità di un galoppo unico e inimitabile in tutta la storia della musica. 
Quanto sia musicalmente accattivante lo si vede dalle numerose citazioni che se ne fa nei normali spettacoli televisivi, nei film e nella pubblicità. Anche la Cavalcata delle Valchirie è un pezzo di pari travolgente irruenza, anch’essa è presente nelle musiche da film e nella pubblicità ma, nella sua complessa articolazione nella sua irruenza assume toni tragici che, ben drammaticamente la inseriscono  all'interno dell’opera, all'inizio dell’ultimo atto. 
Nel film Apocalixe Now di  Stone non è citata come commento musicale ma suonata, con sadica, orgiastica, sarcastica volontà, come inno di guerra durante un’azione bestialmente distruttiva. L’inserzione ha straordinari esiti emozionali e artistici.

Molti compositori hanno musicato “Tempeste” e “Quieti dopo la tempesta”. Fra questi:
Rossini nell'introduzione e nel finale del Tell .
Verdi nel Rigoletto e nell’Otello
Beethoven nella sesta

Fra tutti questi preferisco il Verdi dell’Otello. L’Otello inizia con un assolo  violento come un colpo di fulmine e prosegue con una musica agitata di voci e strumenti che descrivono, invocano, inorridiscono fino all'approdo delle navi e al famoso “Esultate”. 
Nel Rigoletto Verdi non descrisse ma evocò e l’evocazione è un vero capolavoro che degnamente s’inserisce nel concertato che segue il quartetto.
Nel Tell la tempesta nella sinfonia è descrittiva e la successiva quiete è melodicamente lirica. Ma la vera quiete dopo la tempesta, una tempesta del cielo, degli elementi, della rivolta, arriva col finale dell’opera.
Tutto cangia il ciel s’abbella
L’aria è pura il dì è raggiante
La natura è lieta anch’ella
E allo sguardo incerto errante
Tutto dolce e nuovo appar,
 ecc.

Un eccetera che si biforca: la versione originale francese parla di “libertè”, la traduzione italiana per motivi di censura continua con la rinascita naturale:

Quel contento che in me sento
non può l’animo placar

E’ uno dei più belli finali d’opera. La RAI ne trasmetteva la versione strumentale per aprire e chiudere le trasmissioni.



PRIMA E DOPO 
Non penso che l’esame delle opere precedenti il Tell, soprattutto dei drammi “seri” sia molto illuminante per comprendere il Tell e la sua genesi. Nella mia pur scarsa esperienza ho trovato ben poche tracce sia nel Rossini “settecentesco” sia nel Rossini che ascoltando Gluck e Spontini, intraprende una nuova strada. Il Rossini del Tell è del tutto nuovo. Un miracolo, un evento unico. 
Se mi è parso poco illuminante il Rossini compositore di opere serie, penso, invece, che sia importante il prima, il prima dell’uomo Rossini, che arriva a Parigi, che ascolta opere di nuovi e vecchi compositori e che prende contatto con la lingua, con la metrica e la poesia francese. Tanto importante come il Rossini del dopo Tell. Quel silenzio, che non è silenzio completo ma solo silenzio operistico, è illuminante quanto la tensione che l’uomo Rossini dovette affrontare con la sfida di Parigi. Il Rossini del pre-Tell e il Rossini del dopo-Tell gettano, entrambi, luce su quella gemma che è il Tell.

IL CLIMA
Torniamo ora indietro e pensiamo a Rossini; non al compositore Rossini ma all'uomo Rossini. Non all'uomo Rossini trionfante in Italia, dove il suo primato musicale è indiscusso e dove il mito musicale è tutt'uno col mito umano, dove, cioè la sua fretta nel comporre, le sue battute, la fama di allegro e spensierato, ridanciano buongustaio si fondono con le cavatine, i crescendo, gli esilaranti concertati. Dove la fabbrica delle sue opere, non è una stanza solitaria, isolata, protetta, ma un ambiente dove lui, il re, compone correndo, attorniato da pressanti impresari, da editori, da cantanti, da copisti che si affannano, si agitano, lavorano, corrono, si ostacolano, si consultano, si disperano, ridono, offrendogli uno spettacolo non meno agitato, vivace, indiavolato che le stesse sue opere musicali. “Io l’ho veduto in Roma comporre la Cenerentola in mezzo al più gran Chiasso. Egli pregava gli amici così ad aiutarlo: “se ve ne andate (diceva egli talora) io manco di estro e di appoggi” Bizzarria singolare! Si rideva, si parlava ed anche si canticchiavano ariette piacevoli, sebbene in disparte.” racconta la cantante Righetti-Giorgi quando, nel suo piccolo saggio in difesa di Rossini, s’oppone polemicamente alle critiche che sotto lo pseudonimo di Alceste, nel 1822 Stendhal aveva rivolto alla sua musica.
Pensiamo ora al Rossini francese, che, raccolti in patria fama e onori, arriva a Parigi al culmine della sua fama Europea (Stendhal paragona la conquista musicale dell’Europa di Rossini a quella degli eserciti di Napoleone) per ricevere la consacrazione ufficiale, l’imprimatur definitivo, regale, imperiale non perché a Parigi ci sia il Re o l’imperatore d’Europa, ma perché Parigi è la capitale della musica.
Non è certo il primo Italiano a compiere questo viaggio. Lo hanno preceduto Lully due secoli prima, Piccinni, impietosamente chiamato a battagliare con la ‘stella’ Gluck, Sacchini, Cherubini, Spontini, ecc. La lista dei compositori, dei cantanti, degli impresari, dei musicisti che dall'Italia emigrano alle varie corti d’Europa per raccogliere, già famosi, altra fama e altri onori è senza fine come senza fine è la lista di artisti pressoché sconosciuti che partono per tentare la sorte.
Per questi emigranti le condizioni sono diverse ma non del tutto. Vienna e Parigi, soprattutto Parigi, costituiscono un banco di prova, un nuovo più severo, più autorevole tribunale, anche per i famosi: quasi un dover ricominciare e riconvincere. Né potrebbe essere diversamente visto che a Parigi si assegna l’alloro Europeo.

Questo Rossini lo sa. Una cosa è conquistare l’Europa stando in Italia, un’altra conquistare Parigi, usando la lingua, la prosodia, le convenzioni, i teatri, i drammi francesi e affrontando un'élite culturale e musicale che discute, si divide, critica e stronca. A Parigi, dove si condensa “l’intelligenza europea”, dove nascono le guerre musicali come l’accesa, combattuta, interminabile querelle fra buffonist e anti buffonist, dove si creano e si distruggono immortalità. Nell'ultima battaglia a contrastare l’’aulico’ Gluck , il nuovo Gluck, viene chiamato a Parigi il ‘melodico’ Piccinni, che si adatterà con fatica a metri, cadenze, accenti e gusto francese e dove, nonostante il contrastato successo, viene presto dimenticato e muore in miseria. Gran brutto vizio quello delle capitale della cultura di blandire, acclamare, invitare i musicisti e metterli l’un contro l’altro come se fossero galli o gladiatori. Ma è un vizio comune, ieri come oggi, fra cantante e cantante, tra Totti e Del Piero, tra Coppi e Bartali, tra Ungaretti e Quasimodo.

Aveva ascoltato Spontini (Ferdinando Cortez, diretto dallo stesso Spontini)  con ammirazione  a Napoli (La lezione è ben presente nel suo Mosè e nella sua Ermione) e si spinge senza remore su quella nuova strada. La rappresentazione del nuovo Maometto, col titolo Le Siege de Corinthe ottiene un buon successo e certamente lo incoraggia. Prima erano arrivati Il viaggio a Reims, una cantata, il rifacimento del Mosè, (Moise et Pharaon ou le passage de la Mer Rouge), l’opera comica Le Comte Omry ma il vero rinnovamento avviene col Guglielmo Tell. Una musica tanto nuova e diversa che Berlioz, suo feroce critico e altrettanto feroce critico dei “rossinismi” esalta, gridando al miracolo.
Quello stesso Berlioz, che aveva sempre disprezzato Rossini, e detestato Rossini, alla prima del Tell non solo grida al miracolo ma esclama :“Ma questo non è Rossini!” e il giorno dopo scrive “voilà la poesie, voilà de musique, voilà l’art beau, noble, et pure…ce style se soutient yusqu’à la fin de l’acte où dèsormais nous allons marcher de merveille en merveille»
Pensate dunque, alla luce degli eventi passati e dell'ambiente culturale parigino, all’uomo Rossini.
Indiscusso in patria, signore incontrastato dell’opera buffa con opere come l’Italiana in Algeri e il Barbiere di Siviglia, si porta al traino i suoi sforzi di dignitoso ma non eccelso operista serio. Quando a Vienna, dopo una rappresentazione del suo Tancredi si reca a rendere omaggio al ‘mito’ Beethoven, questo non lo elogia per il Tancredi ma lo invita a scrivere tanti 'barbieri': un complimento per la sua musica comica ma anche una critica all'operista serio. Non diversamente Schuman è quasi sarcastico: "La farfalla volò sulla via dell’aquila, ma questa la scansò per non schiacciarla con un colpo d’ala." Altrove è più generoso e parla del Barbiere come di “Una musica sempre rasserenante , ricca di spirito, la migliore che mai abbia scritto Rossini.”

Il compositore Rossini e l’uomo Rossini giungono dunque a Parigi, ostentando ottimismo e sicurezza. L’accoglienza, trionfale gli testimoniano il favore e l’ammirazione di cui gode la sua opera musicale ma alcune severe critiche ai “rossinismi” lo informano che non avrà vita facile. 
Riscrive, dunque, le partiture del suo Assedio di Corinto e del suo Mosè su testi francesi e trionfa, compone il conte Ory, un nuovo modello di opera comica, e trionfa. Ma la sua musica non piace a tutti e i suoi nemici sono impietosi. Berlioz, allora compositore poco apprezzato ma critico potente, ne fa un bersaglio e ridicolizza dispregiativamente come ‘rossinismi’ le notine ripetute, i crescendo, le bizzarrie, il pressappochismo, la velocità. Berlioz e, con lui, i nuovi critici romantici vogliono altro, qualcosa di nuovo e di diverso da ciò che ha prodotto in Italia. Lo vuole anche Rossini e giunge, così, l’ora del Guglielmo Tell.


Ma nuove sensibilità si stanno, nel frattempo, diffondendo: il 
romanticismo sta per esplodere. Non è solo una nuova atmosfera,
 né tantomeno un fenomeno di esotismo ma una nuova maniera di sentire e raccontare il mondo, la natura, i sentimenti, la dimensione dell’umano e del divino. Una nuova atmosfera che investe anche Rossini: il ridanciano Rossini, il razionalista Rossini, quello che aborre le rivolte e le barricate.
Questo era il clima in cui Rossini si accinse a comporre il suo Tell. 
Pressato degli ‘orchi’ come Berzioz e dalla nuova sensibilità romantica, memore delle parole del grande ‘vecchio’ Beethoven, che gli consiglia di comporre ‘Barbieri’, sente e comprende di dover oltrepassare se stesso, di dover creare un modello, un nuovo Rossini.

LA COMPOSIZIONE

Fin dai primi momenti ci sono chiari indizi di un impegno del tutto 
nuovo. Lui che si era vantato di poter mettere in musica l’elenco della spesa di una massaia, legge, medita, sceglie il librettista più famoso Victor Etienne de Joui ma ne è insoddisfatto. Il libretto viene passato ad Armand Marras. Rossini vuole che nel dramma risuonino l’amor di patria, l’amor filiale, l’amor coniugale, l’amore contrastato fra due giovani, l’orgoglio, l’eroismo, ma non vuole una tragedia fosca, tetra, chiusa. Vuole al contrario il sole, il paesaggio, la natura. Così neppure Marras lo soddisfa. Il libretto passa al precettore del figlio di un amico, un oscuro e sconosciuto versificatore, che, proprio perché oscuro, deve mostrasi diligente ascoltatore e fedele trascrittore dei suoi voleri e, così, bene o male il libretto viene alla luce. 

Visto l’antefatto (l’ansia, il desiderio di superarsi,) e l’esito (la 
malattia nervosa) si pensi a Rossini, a quello stesso Rossini che componeva un’opera al mese, chino per sei lunghi, snervanti mesi a scrivere note, provarle al pianoforte, rifarle, risentirle. Pensate a Rossini che cerca le melodie, le plasma, le lima, le cancella in uno snervante lavoro di rifacimenti e di rifinitura, lui che scriveva le melodie così come venivano, in mezzo al frastuono dei trascrittori, degli impresari, delle cameriere, lui che prendeva un’aria, un’ouverture da un’opera e la piazzava in un’altra, magari un’aria da un’opera comica per trasferirla in un’opera seria o viceversa, (avvallando così la teoria di Schopenauer che un’aria, un melodia, un concerto, non fossero di per sé nè buffi né seri). Immaginate dunque un Rossini, che sulla spontaneità, sulla vivacità, sulla freschezza, aveva costruito i suoi trionfi, colto dai dubbi e dall’ansia.
Rossini non è uno sprovveduto e ben sa che diversamente da lui, 
per altri compositori la composizione è sempre stata ansia, tortura, rifacimento, limatura, fatica. Ed è questa la via che sceglie, una via del tutto nuova da inventare e collaudare. Una via che forse richiede altra tempra che non la sua, un' altra resistenza che non la sua, un altro carattere. 
Anche Verdi si trovò condizioni di dover sfornare un’opera dietro 
l’altra prima del trittico Rigoletto, Traviata, Trovatore. Ricorderà quegli anni come anni di galera. Anche Donizetti, come Rossini sfornava un’opera in tre settimana. Anche per lui, come per Rossini, l’immediatezza dell’ispirazione era la via maestra.  Rimproverato (come Rossini) per quella fretta che scivolava troppo spesso nella sciatteria, non abiurò e rispose che quella era la sua natura e che con quella velocità aveva composto sia l’Elisir che la Lucia.

Rossini al contrario di Donizetti forse forzò troppo la sua natura. 
Forse non riuscì a trovare le cadenze e i tempi, forse gli mancava l’uso e l’abitudine ma è indubbio che il male e il logorio progredirono, come accade normalmente a chi forza la propria natura. Forse la tensione nervosa lo sostenne fino all’ultima nota e come potè rilassarsi esplose. In ogni caso giunse alla fine. Curato nei particolari, attento nella parte orchestrata, il Tell è unico nella 
produzione di Rossini; nulla compare di quell’andamento musicale, ritmico e melodico che ce lo rende immediatamente riconoscibile, che ci fa dire “Questo è Rossini!”. Non ci sono insomma quei tratti che Berlioz tanto detestava e che chiamava con disprezzo ‘rossinismi’. 

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