martedì 31 marzo 2020

Nuovo editore


Che dire della casa editrice CasaSIRIO editore  nata  coraggiosamente nel panorama politico italiano, in un momento così decadente per i libri, in cui le librerie chiudono e gli editori campano con libracci di canzonettari, attrici, attricette, gruberiadi,? Che dire se non applaudire e incoraggiare i tre fondatori?

Il fondatore di Repubblica a un intervistatore che gli chiedeva cosa consigliasse alla direzione di un nuovo giornale, rispose che valutava come ottima la possibilità di esplorare il campo della destra così come Repubblica e l'Espresso avevano fatto con la sinistra. In realtà i due giornali non esplorarono ma assimilarono e coprirono i relitti in disfacimento del partito comunista, avviandoli non alla democrazia ma alla repubblica di Platone, alle Elite potenti, alla conquista dei centri cittadini, ma a parte ciò, molti di noi ritengono che il consiglio di esplorare il pensiero di destra nelle sue varie articolazioni, ricche di pensiero, sia una via da percorrere.
A noi di interclassisti o destra che abbiamo difficoltà a farci pubblicare, che da cinquant'anni subiamo l'odioso giogo culturale della sinistra, un nuovo editore fa sempre sperare in una casa editrice culturalmente non allineata. Questa come sarà? Accettiamola comunque e battiamo le mani.
Arriveranno comunque per noi tempi migliori vista la situazione attuale che si trascina da anni e ha portato la cultura italiana all'incultura. L'italia non fa figli e non fa neppure musica e romanzi. Un tempo gli dei della musica erano i grandi compositori come Verdi e Puccini, oggi sono le bacchette magiche, i grandi directstrar in coppia con i grandi registar, tutta gente prolifica come i muli. Non è più uscito un grande romanzo dai tempi del Gattopardo e anche quello è uscito per miracolo, visto che era stato scartato da gli editori a cui era stato sottoposto, I grandi film sono finiti da chissà quanto tempo, e con loro anche i grandi attori,. i testi teatrali, ecc.
Io che leggevo di giorno, di notte, in ferie, da vent'anni non entro più in una libreria e il motivo l'ho esposto in un saggio che naturalmente nessun editore ha preso in considerazione. La stessa fine hanno fatto dei miei dieci romanzi anche se solo due li ho proposti. La stesso per i miei quattro saggi di filosofia, ma gioisco comunque quando tre amanti della lettura aprono un nuovo editore. Auguri..


lunedì 30 marzo 2020

La sinistra inventò l'insulto. Non dimentichiamo



L’enorme ricchezza accumulata da Berlusconi con Mediaset si deve in parte alla ridicola concorrenza che gli faceva la RAI a cui non bastò la società civile e il soccorso della magistratura per correre velocemente verso il fallimento.
Non fu il conflitto d’interessi ciò che mobilitò il popolo della civiltà, fu la spaventosa idea che fosse giunta l’età dei Lumpen, del dominio dei lumpen.
La reazione degli intellettuali della sinistra, degli impegnati della autonominatasi società civile, nata in alleanza della magistratura, ma subito mutatasi in opposizione alla lega, definita barbara e incivile, insultata come barbara e incivile, additata come barbara, rozza, incivile. E dire che gran parte di quella società aveva sostenuto la macelleria comunista.
Ci fu una reazione rabbiosa. Vinceva Berlusconi! Incredibile! Il padrone delle tivù private! Di quelle incredibili tivù private. Della pubblicità, dei pannolini, dei sorrisi a quaranta denti, della superficialità, dell’evasione dal pubblico, dalla moralità, dall’impegno civile, vinceva l’ignoranza e la superficialità. Irrisione e condanna per chi lo ha votato, descrizioni feroci di chi lo ha votato, proclamazioni dell’ignoranza di chi lo ha votato, dei suggestionabili dalla tivù commerciale del divertimento, dell’evasione.
Il fronte intellettuale affida il proprio pensiero al giornale diretto da Furio Colombo e Antonio Padellare, che appare come un interminabile tuffarsi nell'apocalisse. Ecco Dario Fo, di cui viene integralmente riprodotta la requisitoria antiberlusconiana apparsa su Le Monde, che denuncia un clima mefitico in cui in Italia si tornerebbe nientemeno che a parlare di «difesa della razza». Oppure Antonio Tabucchi, che bacchetta il Presidente della Repubblica, reo di non essersi immolato nella trincea posta a difesa dell'Italia dall'assalto dei nuovi barbari. O la scrittrice Francesca Sanvitale, che sferza gli italiani affinché ritrovino intatte le parole di un'immedicabile «indignazione». Si applaude ripetutamente il membro diessino del Csm, Di Cagno, che ha pubblicamente paragonato i magistrati antigovernativi agli ebrei vessati e decimati dal regime hitleriano, scomodando persino la celeberrima formula di Primo Levi: «Se non ora quando». Persino un poeta solitamente schivo e parco di dichiarazioni politiche come Mario Luzi si arruola nella crociata contro il «nuovo regime», con uno spirito che non ammette tentennamenti o obiezioni, la cui semplice espressione viene senz'altro riprovata alla stregua di un «tradimento».
Si allarga il discorso agli amici e ai suoi simili, volgari come lui

La piazzata è così sconclusionata, canina, in rivolta pure verso i politici di sinistra troppo arrendevoli mentre dovrebbero imbracciare il fucile, o, perlomeno, trasformare le piazze, le vie, i palazzi in una permanente sfilata di slogan e insulti, che pure le travi del partito di sinistra è perlomeno perplesso.
Il guaio è che il «fronte» degli intellettuali di sinistra è tutto contro di loro. Massimo D'Alema e Piero Passino, rispettivamente presidente e segretario dei Democratici di sinistra, esortano a cambiare linea. Sondaggi alla mano, scoprono che il muro contro muro, l'opposizione tutta urla e strepiti, la retorica dell'«allarme democratico» con connesso diuturno e irrituale appello al Quirinale, anziché indebolirlo e sfiancarlo, rafforzano il nemico Berlusconi. Perciò invitano la sinistra a rettificare linguaggio e comportamenti, propongono di iniziare davvero, smaltito il trauma frastornante della sconfitta, la lunga, impervia traversata nel deserto. Fassino chiede al partito di liberarsi dell'illusione della spallata, di smetterla di baloccarsi con l'invocazione delle virtù salvifiche della piazza, D'Alema convoca la sua Fondazione Italiani europei per azzerare mesi e mesi di opposizione rovinosamente autolesionista. Ma ambedue devono affrontare il fronte recalcitrante degli intellettuali che hanno imboccato la strada opposta. Forse è dai tempi della svolta di Achille Ochetto alla Bolognina che non si percepisce un distacco così radicale tra il partito e gli intellettuali. Nel 1989 Fabio Mussi liquidava le accorate rimostranze di Natalia Ginzburg contro l'abbandono dell'identità comunista come la manifestazione di un'invincibile nostalgia per il Pci «bambolotto di pezza» coltivata da una cultura incapace di distogliere lo sguardo impietrito sul passato. Oggi gli intellettuali sembrano ipnotizzati dalla mitologia dell'ultima spiaggia: la condizione psico-culturale peggiore per affrontare svolte.
Le voci della sinistra intellettuale difformi o stonate nel coro che chiama alla mobilitazione generale appaiono infatti flebili, sporadiche, isolate. Del senatore dei Ds Franco Debenedetti viene invocata addirittura la testa, sotto forma di espulsione dai luoghi deputati della sinistra (Massimo Roccella sull'Unità). E tale è la reattività degli animi esacerbati che proprio sul capo di Debenedetti, Gianni Vattimo ha lasciato che aleggiasse lo spettro del «tradimento». Come nei tempi corruschi del giacobinismo rivoluzionario, sono i «tiepidi» sospettati, per il loro scarso ardore attivistico, di albergare sentimenti disfattisti abilmente dissimulati, ad essere indicati alla pubblica esecrazione. Altri intellettuali poco propensi alla demonizzazione dell'avversario, come Michele Salvati o Augusto Barbera, non sembrano raccogliere ascolto nei ranghi serrati dell"«intellettualità» di sinistra. Una rivista come Le ragioni del socialismo di Emanuele Macaluso agita là bandiera del riformismo, ma con una dichiarata propensione al minoritarismo dentro una cultura di sinistra tutt'altro che desiderosa di abbandonare un atteggiamento di irriducibile oltranzismo: quello che corrosivamente Francois Furet definiva «L'oligarchia dell'attivismo». Nel seminario della Fondazione Italianieuropei in cui più è emersa l'esigenza di superare atteggiamenti rissosi e verbosità inconcludenti, gli intellettuali del cinema e del teatro, della letteratura e dell'arte hanno brillato per la loro assenza. Persino un intellettuale noto per la sua prolungata e autorevole appartenenza riformista come Massimo L. Salvadori ha di recente indicato con toni accorati e ultimativi l'insorgere di una terribile «emergenza democratica», con l'ovvia conseguenza di cancellarla radicalmente
Ogni aggiustamento di linea politica nella direzione opposta a quella della guerra civile ideologica che punta alla delegittimazione reciproca e all'annientamento di ogni valore condiviso tra due schieramenti avversari ma non nemici alla morte.
Le uniche voci della sinistra intellettuale che si sono alzate per commentare l'idea del Capo dello Stato di un Museo dedicato all'identità italiana sono apparse su Liberazione e con toni veementemente polemici nei confronti di un'iniziativa inevitabilmente destinata a ridurre il fossato incolmabile che secondo i detrattori della proposta divide (e deve continuare, indefinitamente, a dividere) in due metàincomunicanti gli schieramenti politici che si contendono la leadership del Paese.
La teoria dello scontro frontale con lo schieramento attualmente al governo suggerisce a cospicui settori della cultura di sinistra, sovente tra gli applausi di ammirazione, il lessico della guerra totale e senza mediazioni. Viene accolto con sollievo il linguaggio dell'economista Paolo Sylos Labini che descrive il presidente del Consiglio come il capo di un clan criminale, che andrebbe condotto alla sua natura puramente delinquenziale. Malgrado le resistenze di Fassino, di D'Alema e anche di Luciano Violante, suscita adesioni l'idea di Paolo Flores d'Arcais e di MicroMega di celebrare solennemente il decimo anniversario di Mani pulite e se D'Alema eccepisce che una sinistra non forcaiola può festeggiare la presa liberatoria della Bastiglia, ma non i colpi secchi della ghigliottina che fanno rotolare le teste dei nemici del popolo, Flores d'Arcais replica sulla Stampa che anche i «liberatori» della Bastiglia, se proprio occorre inerpicarsi sulla strada delle comparazioni storiche, portavano infilzate sulle loro picche le teste dei nemici. Ma è nell'uso corrente della comparazione tra berlusconismo e fascismo che si misura la distanza incolmabile tra la nuova linea proposta da D'Alema e Fassino e la parte più ciarliera e combattiva dell'intellighenzia di sinistra.
L'idea della «vigilanza» democratica, dell'emergenza, della barriera «antifascista», del pericolo attualissimo di un tuffo nel passato, l'evocazione ricorrente (e fortemente contestata, isolatamente, da Debenedetti) di Hitler come precedente storico di un dittatore dapprima democraticamente eletto e poi trascinatore del proprio popolo negli abissi del totalitarismo, fanno da nutrimento culturale e psicologico di un prossimo «Giorno della memoria» del 27 gennaio all'insegna dell'attualizzazione del pericolo fascista e persino nazista. Un giurista sofisticato come Franco Corderò si abbandona a tortuosi ed eccentrici itinerari comparativi per evocare nientemeno che il fantasma di Goebbels. Lo storico Paul Ginsborg mette in guardia, sulla scorta di un Tocqueville, repentinamente riscoperto, dai rischi estremi della «tirannide della maggioranza». Tra i cineasti di sinistra crea allarme e indignazione persino la nomina alla Scuola nazionale del cinema di un sociologo tutt'altro che fedele all'ortodossia berlusconiana come Francesco Alberoni. Come se il grido di battaglia di conio borrelliano, «resistere, resistere, resistere», fosse diventato il motto di un intero schieramento culturale, si auspica la spallata giudiziaria per rovesciare il tavolo e azzerare per incanto l'«anomalia» berlusconiana. Tutto il contrario del lento lavoro di ricostruzione che, nella prospettiva di Fassino e di D'Alema, dovrebbe riportare la sinistra a ricucire quei rapporti strappati con la società e di cui si è sinora giovato lo schieramento opposto.
Il rapporto con gli intellettuali costituirà nel prosieguo una spina nel fianco della leadership politica della sinistra diessina. Come dopo la Bolognina, appunto, quando molti intellettuali parteciparono con furore al «fronte del No» alla svolta che avrebbe messo fine al Pci. Oggi come allora, all'indomani di una sconfitta storica che inasprisce gli animi e rende sempre più arduo l'avvio della lunga e solitaria “traversata nel deserto”.

Pierluigi Battista scrive sulla stampa del 23/1/02 un articolo dal titolo A sinistra nasce il partito dell’Apocalisse.
Come ha ben riferito Battista in un parolaio del 2003, SYLOS LABINI NEGA CHE CI SIA QUALCUNO IMPEGNATO con odio A DEMONIZZARE berlusconi
meno che il famoso critico cucurbitaceo Armando Gnisci otto chili di sinapsi che le usa tutti quei kili che ha sofferto per la sua discesa in campo come un’offesa estremamente umiliante, in quanto letterato nativo europeo di lingua italiana. … lei incarna psicofisicamente il peggioè un capo opprimente e contraffatto…di un ridicolo estremo… goffo … vuoto …falso… lei è una maschera trucida ….bisogna parlare al cuore di lei per tentare di fracassarlo …il suo è un fascino mostruoso   lei è l’orrore incarnato …oscilla sulla frontiera del disumano del ventesimo secolo … lei va abrogato.
Più moderato Angelo D’orsi ricorda che è vero che comanda chi ha più voti ma non è detto che chi ha più suffragi sia quello che ha ragione. Anche con lui siamo in piena repubblica di Platone. 
La reazione alla discesa e alla prima vittoria è isterica. Ha vinto la cultura dei pannoloni, della tivù di plastica, della pubblicità, del populismo, della volgarità. Ricordo l’espressione “L’ingresso della volgarità nelle istituzioni”. Dura contro lui, contro il suo partito il che è normale. Normale è anche la caratterizzazione brutale, infamate del nemico politico, ma non la sistematica offesa dei suoi elettori che non sarebbero coscienti di cosa fanno, che sarebbero, deficienti stupidi, barbari ecc. Poi la solita storia imbonitore/imboniti, illusionista/illusi che tanto ricorda gli altri accoppiamenti del passato del tipo sobillatori/sobillati o demonio seduttore/ peccatori. Non solo contro Berlusconi ma contro tutti gli amici e coloro che non si scagliavano contro. 
Paradigmatico è il caso della “Milano da bere”. Paradigmatico perché queste tre parole che, in qualche modo, sintetizzano un importante cambiamento culturale, erano diventate per gli allora moralisti berlingueriani sintesi di un disprezzo morale anticraxiano e antiberlusconiamo. Da una parte loro, i limpidi, i puri comunisti e dall’altra la nuova avanzante immorale cultura ed economia fracassona, volgare, indecente.
E’ evidente che la nuova cultura e il nuovo lavoro connessi alla moda, alle sfilate, ai laboratori, ai negozi di moda portavano con sé un fervore che comprendeva, con le sfilate, anche le indossatrici, le aspirante indossatrici, le divette, le esibizioni, i fotografi, le notti nei locali con movida notturna. Ma questo non era il contorno di una nuova economia capace di creare grande ricchezza, lavoro qualificato, prodotti ad alti valore aggiunto, turismo di lavoro, bellezza, arte, ecc.; capace di elevare e portare il nome italiano in tutto il mondo. Un contorno, creatore, esso stesso di turismo e di ricchezza; quello stesso contorno che immortalato da Fellini col nome DOLCE VITA caratterizzava la fiorente produzione cinematografica italiana del dopoguerra, tanto amata dai confusi puri come se fosse tutt’altra cosa rispetto a quella della “Milano da bere”

Abbiamo citato Cafonal. Cafonal è uno dei tanti aggettivi inventati dalla cultura antiberlusconiana per caratterizzare la volgarità berlusconiana. Non si può certo parlare di “cultura Berlusconiana” perché la cultura berlusconiana non esiste come cultura per i suoi coltissimi nemici.” Compaiono i termini non-cultura, anticultura, sottocultura e veniamo ributtati all'indietro di decenni quando alle elementari maestri e maestre per sgridarti quando, secondo loro,  non avevi studiato ti redarguivano con frasi del tipo “Mica vuoi crescere come un negro dell’Africa.”, “Di questo passo farai al massimo lo Zulu”.
Fummo poi indottrinati da una nuova idea che esecrava quella appresa dalle maestre secondo cui l’idea di una cultura (la nostra, quella della civiltà occidentale) contrapposta a una incultura (quella delle tribù, della barbarie, della negritudine, ecc.) era profondamente ingiusta, errata, connotata di razzismo e di imperialismo. Si affermava così la dignità di tutte le culture.
Ebbene - potenza di Berlusconi – tutto è cultura: i vini, bere vino, il cibo, la cucina, la coltivazione dell’orto, le canzonette, i romanzi, gialli, rosa, ecc. Tutto, dicevamo, è cultura tranne quella del berlusconismo. Siamo tornati ai tristi tempi degli Zulu sostituendo a Zulu i baluba “berlusconidi”.

Per le elite e le aggregazioni elite sinistra radical chic esiste una solo cultura, la loro. La cultura è quella che loro considerano cultura, fosse anche la conoscenza della loro cacca. I confini li fissano loro, questo sì questo no. Sono cultura i teatri, le mostre, le conferenze, i convegni, i bachi da seta, l’inseminazione artificiale dei coleotteri, la preparazione dei bignè della Pomerania. Tutto è cultura, tutta quella approvata da questi cavalieri della cultura, tutto ciò che passa nelle loro cervici, nei loro intestini, nei loro stomaci, nelle loro pance, tutto tranne ciò che ieri riguardava Berlusconi e oggi i nuovi infami populismi, i nuovi mostri, i nuovi, barbare, i nuovi Attila, che invece la cultura, la democrazia, la civiltà la distruggono. La fine del mondo civile, l’apocalisse!
Inchiniamoci noi, stupidi ignoranti, inchiniamoci ai libri letti dalla mammellata ministra dei beni culturali, con villa in Kenia, frequentatrice delle feste, in quello stesso Kenia, dell’orrido cafonal Briatore e pronta a smentire, bugiardamente, quella sua presenza fino a che una fotografia ridicolizzava la sua menzogna, inchiniamoci alla già ministra della cultura lei, che si diceva avesse in vita sua letto ben cinque libri e stesse coraggiosamente leggendo il sesto e che ora inquina la seggiola di amministratrice niente di meno che del Maxi; una sedia donde diceva lei avrebbe disseminato la sua cultura del tutto gratuitamente ma alla quale fu lestamente riconosciuto l’abbondante appannaggio da aggiungere al suo lussuoso assegno pensionistico come ex parlamentare e lettrice di libri.
Meraviglioso pacchetto confezionato subdolamente dai suoi compagni di partito e dalle elite culturali associate di cui non si vergognano neppure.
L’avesse fatta Berlusconi una cosa simile, l’avessero fatta i Berlusconidi una cosa simili, giornalisti, giudici, società civile, popolo dei fax, girotondisti, sarebbero insorti facendo un baccano del diavolo, un baccano da barbari, da squilibrati, come i tanti messi in moto da questa ammorbante elite che si muoveva per molto meno. Bastò un muro caduto a Pompei per una sceneggiata isterica contro il ministro berlusconiano fino a farlo dimettere ma quello era un muro speciale. I muri continuarono a cadere a Pompei ma nessuno si mosse contro i ministri non berlusconidi.
E dopo questo indegno scoppio d’ira populista ecco che veniamo colti dal pentimento. Ecco che abbiamo dimenticato che tutto ciò che fanno la sinistra e i loro compagni di merenda è bene, bene per loro e bene per noi tutti e quindi facciamo ammenda e ripetiamolo che loro sono ecc. ecc.

sabato 28 marzo 2020

Premio Nobel ad Hanche. Riotta una caduta d’umanità e di logica



Il nobel allo scrittore che negò i crimini di Milosevich
Spiace e spiace molto criticare l’articolo di Riotta su La Stampa sul Nobel assegnato a Peter Handke. Spiace perché Riotta è fra i pochi giornalisti che leggono con continuità opere letterarie contemporanee, spiace perché ha dimostrato di conoscere la teoria grammaticale di Chomsky. Per la maggior parte dei suoi colleghi giornalisti e opinionisti, Chomsky è solo l’autore di trattati animati da infuocato antimperialismo e anticapitalismo. Saranno pure importanti anche questi, ma, dozzinali, come sono, non sarebbero neppure stati pubblicati, se Chomsky non fosse stato l’inventore della grammatica generativa.
Ciò detto si deve prendere nota che anche Riotta appartiene, è in armi contro gli odiati populismi.
Su La Stampa del 1/11/16  scrive “La classe globale invisa a May, le Pen, Trump, Sanders e Corbyn e ai nostri populismi domestici ha perduto la battaglia del consenso per snobismo, avidità, mancanza di fiducia nei nostri valori. 
Se non vogliamo che, come sempre avviene nella Storia, il nazionalismo liberi i suoi figli rabbiosi, razzismo, antisemitismo, totalitarismo, dobbiamo ripartire da pochi semplici ideali e riforme: lavoro, sviluppo, ricerca, apertura alle altre culture ma con fierezza e difesa.” 
Tutto bene ma perché la parola populismo? Che significa populismo? Delle due frasi citate pare quasi che il populismo sia il nazionalismo che libera i suoi figli rabbiosi, razzismo, antisemitismo, totalitarismo. I nostri figli rabbiosi liberano l'inimicizia contro l'elite e i loro servi, contro i nuovi aristocratici, il nuovo impero. Non l'avete ancora capito oltre che ignoranti avete anche teste ottuse e dure.
A questo punto anche la sua prima frase assume un significato banale. E’ sicuro Riotta che sia democratica una costituzione dove, ad esempio,  i parlamentari hanno il diritto di decidere sul loro numero, sui loro benefit, sulle loro pensioni? O non è che un emblema di una costituzione in cui regna sovrano il conflitto di interessi? 
Naturalmente tutto ciò che altrove è brutto, in Italia è pessimo e lo abbiamo sperimentato con le reazioni alla nascita della Lega, alla discesa in campo di Berlusconi, al tipo di opposizione del tutto antidemocratica contro il berlusconismo.
Prima degli attuali odiati populisti, il populista era Berlusconi col suo partito, coi suoi elettori. Ora non lo è più?  Ma che significa populismo in Italia? Chi si oppone alla democrazia delle elite? Chi vede in questa una variante della vecchia aristocrazia? Chi si oppone all’ingresso dei cittadini di altri stati? Chi vuole la sharia fuori dai propri confini? Chi si oppone alle elite dei giornalisti, delle università, delle menti colte dei professoroni? 

Detto ciò, mi piace poco la dura condanna di Handke è l’altrettanto dura condanna della commissione del Nobel per averglielo assegnato. Per Riotta la giuria ha commesso un errore storico nel trascurare i propositi del fondatore che subordinava il premio alle motivazioni ideali. Ma per favore non inchiniamoci a celebrare il mistico matrimonio fra etica e arte che portò ad assegnare il primo a Giosuè in epoca di egemone culturale mangiapreti, ad Hansum in epoca di egemone vitalismo a Kipling in tempi in cui, dalla Società Civile, l’imperialismo era considerata alta missione religiosa, civile e morale e deprechiamo che quello stesso mistico premio sia stato negato a quei porcelloni di Moravia e di Joyce, a quel fascista di Borges, a quell’altro fascista di Celine, mettendo in forte dubbio che quei supremi accademici abbiano confuso l’idealità con la morale alla moda. Così è stato per Carducci, per Hansum, per Kipling, per Moravia, per Joyce, per Borges, per Celine.
Il Nobel ha sempre saputo rinnovare le sue idealità, e cambiare. Se Riotta e, come penso, molti editorialisti, l’intera Società Civile compresa, condannano, senza se e senza ma, la generazione di Milosevich, viene il sospetto che, al contrario, i professoroni del Nobel abbiano iniziato una revisione dei giudizi sui pensieri e sulla azione di quegli eventi sanguinosi.
La condanna conformista in blocco di quegli attori che riassumono i sentimenti di molti Serbi, riaffiorati dalla notte dei tempi, e la loro condanna “Senza Se e senza Ma” mi pare ottusa: proprio nella forma dei vari “Sì… MA…” , “No… Ma…”, così comuni nel nostro ragionare, si nasconde la realtà.    
L’uso di sintagmi del tipo “No, non condanno ma ”, “Si, assolvo ma…”, è salvifico.
Con il si dà un giudizio, con il ma si espone una giustificazione o un’attenuante. La forma proposizionale del si ma gestisce non solo una logica giudiziaria ma anche una logica politica.
Forme come “Il tale è colpevole ma era stato provocato da…..“E’ vero ma…” sono paradigmatiche e invano si tenterebbe di analizzare quel “Ma” come una particella logica vero funzionale. La forma quando viene usata nel discorso politico, pare composta da un giudizio di assoluzione o di condanna relativo a un certo evento e da un racconto che tende a modificare il verdetto del giudizio. Il racconto di cui si parla è in genere un racconto storico e segue quindi la logica del racconto storico; ma qual è la logica del racconto storico?
Quando ci dedichiamo alla storia, cerchiamo di capire la concatenazione fra gli eventi. Capire vuol dire connettere in qualche modo (catene di coordinazione, subordinazione, connessioni causali, finalistiche o probabilistiche) affinché si possa concludere “Questo è accaduto perché in precedenza è accaduto quest’altro”, “Agì in questo modo per queste ragioni”, “Agì perché motivato da …”.
L'allievo che ascolta una spiegazione di storia in questo non è diverso dal professore che la illustra: per l’uno e per l’altro l’obiettivo è la comprensibilità, il professore cerca di trasmetterla e l’allievo di comprenderla. 
Ma che significa "comprensibilità"?  
Il “Comprendere” assume significazione nel connettere fra loro gli eventi. Non sarebbe comprensibile che una palla calciata a Roma arrivi fino a Milano perché il lancio di una palla, il suo volo e il suo approdo sono connessi da leggi fisiche incompatibili con un simile evento. Anche nella storia, raccontando gli eventi, cerchiamo di connettere le azioni, gli attori, gli esiti, in base cercando le cause, le motivazioni, i caratteri, le situazioni, i fini e così via. Proposizioni quali: “Il tale Presidente fece questo perché doveva reagire”, “Il tal generale si mosse nel tal modo perché voleva raggiungere quel tal obiettivo”, ci dicono come si debba ricorrere a tutti i tipi di connessioni-motivazioni di tipo politico, comportamentale, statistico, sociologico, psicologico, fisico, ecc. per riuscire a connettere gli eventi in una catena o in una ramificazione di catene. 
Anche se molti filosofi della storia storcerebbero il naso, l’ideale della comprensibilità è la “necessità”. Anche se lo si ammette con difficoltà, una serie di eventi è tanto più compresa quanto più la catena che li connette è necessaria, ossia quanto più crea tra gli eventi dei vincoli che escludono tutti i possibili gradi di libertà: la storia è tanto più ’comprensibile’ quanto più le connessioni sono necessarie, quanto più il percorso è irrigidito in una serie di ragioni e cause che non lasciano spazio ad altre possibilità. Lo sforzo di comprensibilità assume così le forme di una razionalizzazione secondo forme. Col nascere della riflessione sulla storia e sulle narrazioni della storia, nasce anche la tensione verso la razionalizzazione in forme di necessità. Se Erodoto racconta la storia come una successione di contingenze, Tucidide racconta l’addivenire della guerra tra Sparta e Atene come un evento ineluttabile e un destino già depositato nella filigrana degli eventi che la precedettero. Tucidide raccontava ma non teorizzava. La razionalizzazione della storia come teoria avvenne molto più tardi e per analizzarla e trarne conseguenze dobbiamo ritornare al razionalismo illuminista Il mito della ragione illuminista permeò una cultura ma questa cultura continuò. Il romanticismo fu una reazione alla ragione astratta dell’illuminismo ma a questa ragione astratta i romantici opposero le ragioni della storia, delle tradizioni, dei miti, dei costumi, dei sentimenti ma in parte la incorporarono nei loro sistemi d’interpretazione della storia. Con Hegel la ragione diveniva la logica del comprendere e contemporaneamente la logica dell’essere e del divenire. Per lui “Ciò che razionale è reale e ciò che è reale è razionale”. Comunque la si voglia interpretare, questa formula più volte richiamata da Hegel, ci invita a considerare razionale e necessario lo svolgersi degli eventi storici. Hegel originò un movimento e creò un paradigma. Anche Marx si sentirà in dovere di completare il suo materialismo storico con un materialismo dialettico che rendeva congeneri i mondi della storia e della natura.
La forma “Si… Ma…” è composta da un giudizio di valore e una storia. E’ la necessità di capire il perché degli eventi a indurci a inserire la storia in una catena di necessità. E’ quasi una necessità ‘vitale’ e salvifica. Così noi parliamo di storia come maestra di vita, così noi ‘giustifichiamo’ gli eventi. li ‘giustifichiamo’ e, sull’ambiguità paradigmatica di quel ‘giustificare’, li connettiamo comunque con inesorabilità. Se è la necessità a muovere, è la stessa necessità a giustificare: quasi come se chi è obbligato a compiere un’azione, non ne avesse responsabilità. colpa o merito, chiudendo al giudizio morale: ciò che è avvenuto è tale perché giustificato e/o imposto dagli eventi, anche se la narrazione storica non riesce, certo, a essere esposta come se ogni evento fosse un teorema. Ma accanto a questa constatazione è altrettanto indubbia la tensione verso la massima ‘comprensibilità’ intesa come necessità.
Se, invece, entriamo in una logica di contemporaneità la guida è la logica giudiziaria. 
Nella logica del processo giudiziario la catena degli eventi e delle loro connessioni viene spezzata, perché oggetto di giudizio sono le singole azioni, che, disarticolate dalla catena di connessioni, perdono il loro carattere di necessità. Un’azione delittuosa viene giudicata in quanto tale al sì o al no mentre le possibili connessioni causali, giustificatorie, ambientali, assumono uno statuto logico di provocazione, reazione, influenza, ecc. con precisi sensi giuridici che le porta a intervenire nel calcolo del giudizio finale, come attenuanti o aggravanti, ciascuna giuridicamente prevista e definita in gradazione e peso, affinché possa entrare nel calcolo della quantità di pena attribuita per il delitto, considerato come fatto a sé. 
Naturalmente non tutte le attenuanti sono del tipo ambientale, storico e causale. La mancanza di precedenti non ha in genere nessun nesso causale con l’evento delittuoso oggetto del giudizio ma è in genere “attenuante” così come l’essere commesso in associazione con altri soggetti è in genere un ‘aggravante’ ma tutto ciò non fa che confermare la differenza delle due logiche, anche se questo non vuol dire che nel processo non si cerchi quello stesso tipo di comprensibilità, perchè l’insieme degli eventi, e la loro connessione, deve essere in ogni caso capita, deve essere comprensibile e avere un senso; questo è possibile solo inserendo il fatto specifico in una serie di connessioni che attribuiscono senso. 
Ciò che cambia profondamente è però la logica. In quella processuale il presupposto è l’esistenza della ‘libertà’ delle azioni e la 'responsabilità’ che le accompagna. La logica processuale è il regno della libertà e della responsabilità, se non lo fosse non potrebbe essere emesso alcun giudizio di condanna o di assoluzione. 
Se la razionalità storica tende a instaurare il regno della necessità la razionalità del processo giuridico è il regno della libertà. Il passaggio dal “sì” al “ma”, segna il passaggio dalla logica della libertà a quella necessità. 
Se trasportiamo la prima concettualità nel mondo giudiziario, avremo come conseguenza che nessun delitto può essere sanzionato, perché l’autore del delitto risulterà sempre non libero nella sua scelta ma costretto dagli eventi. Il mondo giudiziario non sparirebbe ma sarebbe circoscritto al compito di accertare il delitto, di accertare l’autore (non ‘responsabile’ ma ‘autore’). Al contrario se riconosciamo una libertà illimitata dovrebbero sparire nella valutazione del ogni tipo di attenuante. In ogni caso assume un significato discriminatorio l’opposizione determinismo/libertà. 
Senza spingersi oltre si può concludere che un giudizio “Si …Ma” è l’espressione di un giudizio eminentemente politico, che deve essere compreso nella sua origine, nella sua possibilità e nel suo senso tenendo in debito conto cosa comporti il cambio di paradigma o la confusione dei paradigmi adottati. E’ compito del pensiero politico, svolgere quell’opera di chiarimento e distinzione senza i quali ogni giudizio politico diventa, a sua volta, paradigma d’incomprensione e di sistematica ambiguità.
La formula del “Si ma o no ma”. che domina i nostri ragionamenti, i nostri giudizi, i nostri discorsi ci dimostra che ci appoggiamo ben saldi su una confusa, indecidibile ambiguità. Noi, come Riotta, noi, come coloro che hanno assegnato il Nobel. Non pensiamo che Handke approvi il massacro di Srebrenica ma che abbia sempre pensato e sostenuto le sue convinzioni secondo l’ambiguità del si ma e del no ma. Di fronte al palestinese che si fa esplodere su un tram israeliano, all’abbattimento delle torri gemelle, al massacro di Srebrenica, al bombardamento di Clinton e della Nato delle città serbe, dei ponti serbi, dei treni serbi, sappiamo che vengono emessi tanti verdetti di Sì senza Ma, di No, senza Ma e di altrettanti Si Ma e No ma, come quello di Handke. 
Se Riotta avesse parlato con qualche serbo, anche giovane, saprebbe che per troppe generazioni di fronte alla repressione, al sangue slavo versato dagli ottomani, durissimi nel reprimere i “partigiani”, se avesse meditato dell’enorme valore mitico di sacrificio ed eroismo di cui si sono caricate le battaglie perse dai serbi contro gli ottomani in Kosovo, che proprio in virtù di questa comprensione mitica (vedi Cassirer) considerano il Kosovo, con le sue chiese erette in memoria, territorio serbo e cristiano, se avesse valutato quanto dentro la memoria collettiva serba era vivo. Vivo quanto l’ordine morale che sanciva “Ora non possiamo cacciarli, ora non possiamo ribellarci ma la nostra memoria rimane nella nostra anima di Serbi” e invitava i padri serbi a non dimenticare e a trasmettere questa promessa a figli e nipoti, e figli e nipoti per secoli “Non dovete dimenticare, dovere mantenere viva la fiamma, verrà il giorno sacro della giustizia”, capirebbe quanto valore ha avuto a Srebrenica, prima e dopo Srebrenica il “MA” serbo. Del Resto Riotta, giornalista colto e non ignorante come tanti suoi colleghi, ha senz’altro letto “Il ponte sulla Drina” a cui il nuovo Nobel rinvia e l’agghiacciante, lunga, calma, descrizione dell’impalazione ottomana.
Stiamo correndo in tutto il mondo in una successione di vendette senza fine e non è certo ciò che noi “incivili” vogliamo. Ma c’è un’alternativa? Fascista di qui, fascista di là, barbaro, incivile, sovranista, costruttore di muri. E ancora e ancora: un’infaticabile corsa all’insulto ingigantitasi con la discesa in campo di Berlusconi. Avete perfino bruciato in strada il suo ritratto. Mai un segno di ravvedimento: i nostri scritti, i nostri saggi, i nostri romanzi che parlano di Foibe, di repubbliche di Platone, puntualmente respinti, giacciono nei cassetti. Neppure più li scriviamo: non servirebbe a nulla. Volete imporci una memoria comune che poi non è altro che la Vostra falsa memoria. Noi abbiamo la nostra e non vogliamo nessuna memoria comune. Almeno quella. Tenete almeno a bada i vostri cani che vorrebbero imporre la vostra a suon di censure.

Nel suo BUONGIORNO dal titolo L’intransigenza del bene, Mattia Feltri ricorda come in una lezione agli studenti dell’università del Michigan nel 1987 Brodskij (un’altro Nobel) che il male è umano, ammorbidendo l’affermazione con l’invito di non fare mai le vittime, e di controllare il proprio dito indice assetato di biasimo. “Nel momento in cui si localizza la colpa, si mina la determinazione a cambiare qualcosa” Il giudice, e specialmente se volontario e collettivo: quello gli faceva paura.
Quando Brodskij nella sua conferenza realisticamente, prima di ammorbidirla, afferma che il male è umano, non fa altro che aprire gli occhi anche all’interno di quella che si vorrebbe far passare per la civilissima Europa, la civilissima Nato, il civilissimo Onu.
Vengono prodotti film, telefilm in cui la vendetta, la rivalsa, (additate come giustizia) assumono la personalità di individui offesi, a cui lo stato, la comunità, la forza della civiltà non presta attenzione o da risposte del tutto insufficienti a placare quello che per la società civile è barbarie e per loro giustizia. Questi commissari, questi amici, questi parenti  vendicatori anche nelle brevi frasi di presentazione vengono presentati come giustizieri che agiscono con “Metodi anche non convenzionali” per perseguire la giustizia. Gli spettatori escono dal film, dal tele film con un animo placato come avessero assistito a vicende che sul difficile crinale del male e del bene dell’ingiustizia che attende giustizia, avessero infine assistito a un “lieto fine”, alla fine di una tensione vissuta  e placata finalmente dall’esecuzione della vendetta. In contrapposizione le tivù di stato mettono in scena film e telefilm dove, al contrario, avviene il lieto fine, senza il ricorso a metodi non convenzionali e seguendo i dettami della civiltà, quella che caratterizza la civilissima Europa, l’ONU, ecc. Anche in questi spettacoli la giustizia di stato arriva sempre, il lieto fine, sempre. Il colpevole viene sempre trovato, o la sua anima, soccorsa dalle provvidenziali parole, del don Matteo di turno, si pente e confessa, accettando la giusta pena, di cui non si parla mai. Se non esiste un don Matteo che passa il suo tempo nella caserma dei carabinieri, esiste tutta una pletora di marescialli, di indagatori, di indagatrici, di commissari che vivono tutti in paesotti, in contee, in cittadine con un numero di abitanti variabile da qualche migliaio a poche decine di migliaia ma letteralmente infestati dai delitti, uno due alla settimana o al mese, tutti brillantemente risolti, tutti ricondotti a buon fine ad edificazione delle vecchia e della nuove generazioni, affinché tutte le anime buone capiscano e si convincano che il paese dei balocchi non esiste solo nel libro di Pinocchio ma è saldante insediato nella nostra civilissima civiltà, purché questi zucconi e barbari qualunquisti della barbarie si convertano finalmente, come il Manzoniano Innominato non a Dio ma alla luce della società civile. 

E ora guardiamo il famigerato massacro di Srebrenica, la mattanza di Srebrenica. Una mattanza senza pietà che non è avvenuta da un minuto all’altro ma la cui generazione si è evoluta con lentezza davanti agli occhi volutamente distratti della civilissima Europa, rigenerata da un passato imperialista, e anche del civilissimo, dal civilissimo Onu che aveva addirittura le sue truppe, ben armate a poca distanza, quasi a tiro di fucile, dalla Srebrenica maomettana, assediata dai serbi cristiani animati da secoli di desideri di rivalsa e vendetta, in attesa del giorno in cui il sole sarebbe sorto il sole nero. 
L’ONU, la Nato, l’UE, vedevano che l’assedio stava concludendosi, che la città sarebbe caduta e sarebbe arrivata la strage della vendetta, ma a quelle truppe Onu non arrivò affatto l’ordine di interposizione, di salvaguardia. Perfettamente a conoscenza di ciò che sarebbe accaduto ipocritamente guardavano da un’altra parte e il comandante, privo di comandi fu lasciato solo a decidere in una situazione che sotto traccia lasciava intendere: lasciamo che, finalmente, vendetta tanto attesa avvenga. Così probabilmente il comandante interpretò quell’incomprensibile distratta afasia, quell’attendista disinteresse, come un ordine sottinteso che veniva dall’alto, e non si mosse. Lui fu poi processato, ma dovevano essere processati tutti quelli che in quella lunga attesa si voltarono dall’altra parte e attesero. 
Del resto gli ipocriti avevano dalla loro parte uno sterminato numero di comportamenti addirittura più pesanti, anche questi concessi come vendette. Le stragi dei soldati russi, il via libera alle vendette dei partigiani, italiani e francesi per qualche giorno. Ma oltre al via libera ai soldati russi e ai partigiani di ogni paese, c’erano stati altri orrori impuniti, del tutto impuniti a cominciare dal bombardamento indiscriminato delle città tedesche e italiane, un vero e proprio massacro non di stabilimenti e obiettivi bellici, ma di abitati civili, di secoli di civiltà, di monumenti, di chiese, di civili, attuato in piena consapevolezza e portato avanti con lucida criminalità col solo obiettivo di fiaccare gli animi dei civili e di provocare una loro insurrezione che non aveva la minima possibilità di avvenire. Così fu bombardata Dresda, la Firenze del nord, con l’intento della distruzione totale. Un bombardamento proseguito per giorni e giorni su ogni suo angolo, con l’intento dichiarato di farne un mucchio di macerie, di incendiare e polverizzare ogni cosa, rendendola irrespirabile e mortale l’aria per la cenere, i veleni, il fuoco l’atmosfera rovente, coi muri, le pietre, le strade che prendevano fuoco. Un bombardamento che ebbe un testimone americano d’eccezione, che lo raccontò in un suo romanzo testimonianza.    
Leggano il romanzo-memoria di Kurt Vonnegut, grande, umanissimo scrittore americano prigioniero in una cella a Dresda, quel Mattatoio n 5 altrettanto efficace della Guernica di Picasso, che ben cosciente di non poter rendere sulla tela l’orrore di quelle bombe e degli abitanti, con un quadro realistico o cubista, ricorse alle invenzioni del fumetto americano con un capolavoro capace di raccontare e trasfigurare. Non ci fu un’ altra Guernica per Dresda ma il libro di Kurt Vonnegut relegato dalla società civile degli intellettuali, quasi a bizzarro romanzo di fantascienza. 
Dopo ai serbi toccarono altre morti, altre distruzioni quando i capi del mondo civile, Non l’Onu che non diede il permesso e al quale neppure fu chiesto, ma la Nato scatenò le forze aeree, le bombe dall’alto sulle truppe serbe, sui civili serbi, sulla Serbia, perfino sulla capitale serba e sui treni serbi, per favorire l’indipendenza del Kosovo, di quella terra sacra per i serbi per cui i loro progenitori si erano sacrificati per fermare le orde massacratrici turche.   
E i serbi hanno dovuto assistere all’elevazione del Kosovo, del loro Kosovo coi loro santuari,  a stato indipendente sotto la protezione dell’UE che li finanziava e che di fatto li manteneva. Strana concezione della civiltà del diritto di autodeterminazione, neppure considerato, in Crimea, in catalogna, in Corsica, sulle montagne spagnole abitate dai baschi, popolo culturalmente indipendente da sempre addirittura con una antichissima lingua propria. 

Di fronte alle difficoltà di un si ma che non poteva essere ridotto a un sì senza ma, la società civile sta insistendo da anni sulla creazione di una memoria comune pacificatrice, di una memoria condivisa ma in modo così goffo e partigiano da renderla impossibile. Basti pensare alle Foibe, ancor oggi dopo settantacinque anni, forse settantasette. 
Scrive Pier luigi Battista il 17-2 sul corriere nella sua scheda Particelle elementari:
Davvero non si capisce, a 75 anni di stanza, un’eternità, questo ottuso residuo negazionista di una parte della cultura di sinistra sulle Foibe. Questa incredibile e testarda mitizzazione sulle migliaia e migliaia di italiani infoibati, sull’orrore delle famiglie sterminate,, sul fil di ferro che legava i polsi delle vittime sulla sommità di quelle voragini per risparmiare sui proiettili si sparava a uno e se ne ammazzavano dieci. Questa spessa coltre di imbarazzo che ancor oggi, ma perché?Impedisce di vedere la verità storica, non sa comprendere il senso del linciaggio e dell’isolamento con cui quasi trecentomila istriani e dalmati – poche cose raccolte nella fuga, il terrore stampati sugli occhi dei bambini, nessuna notizia sui parenti spariti nelle foibe - vennero oltraggiati dall’Italia, messi al bando, accolti dall’ostilità alla stazione di Bologna, perché non avevano voluto trasformarsi in sudditi del comunismo di Tito, il capo dei massacratori…
Non sto a riportare tutto l’articolo, visibile sul Corriere  

Di fronte a parole come queste che si può dire? Di fronte alla prole di Brodskij che si può dire. Memoria condivisa? Che vuol dire? Che non si ha diritto alla giustizia? No, risponderebbe la società buonista e civile, ben sapendo che, però, che gli ottomani nei Balcani ci sono e non possono essere cacciati. 
Rinuncia all’inimicizia, al biasimo in nome di cosa? Ancora le vittime invitate a non fare neppure le vittime a non protestare, a dimenticare? Ad aderire in pace a una memoria comune? La società dei colpevoli e dei loro eredi non deve fare nulla? Molti di noi si stanno ribellando a una democrazia trasformata in un’elitaria repubblica di Platone e non c’è nessuna marcia indietro. Nessun dovere per chi ci chiama ignoranti e barbari? Neppure il tentativo di capire le nostre argomentazioni? No, censura, censura, censura. I nostri scritti, che siano saggi o romanzi non arrivano mai in libreria. 
La condanna dei serbi e di Milosevic nell’Europa della civiltà, Nell’impero del “Bene” è unanime ed è arrivata fino al tribunale internazionale. Chi come Handke li difendeva opponendo alla logica del sì senza se e senza ma opponeva la logica del Si ma veniva ostracizzato, additato al pubblico sdegno, bollato come criminale


venerdì 27 marzo 2020

Quel posteggiatore abusivo di Conte, quel monatto di Conte



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Quel monatto di Conte e i suoi accoliti PD e Cinque stelle stanno attuando un colpo di stato. Non convoca il parlamento perchè, povero monatto, è mica colpa sua se c'è l'epidemia e bisogna rispettare le distanza! Non istituisce una cabina di regia con l'opposizione perché in Italia basta lui, il nuovo Napoleone. Fa quel che vuole approfittando del facile ricatto dell'unità nazionale. Ma l'unità nazionale è solo il Napoleone, il posteggiatore abusivo, il monatto Conte. La magistratura è con lui e seppellirà l'odiato Salvini cucinandolo come ha già cucinato Berlusconi, quando con l'avviso che "Non poteva non sapere", annunciò alle elite di stare tranquilli perché la magistratura  novella sciagurata MONACA di Monza rispose, sta rispondendo e risponderà. Il presidente della repubblica dorme o fa finta di dormire.
A questo punto anche la Destra si deve svegliare. Guida il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, la Liguria e deve far sentire che non è disposta a soggiacere ancora al posteggiatore abusivo monatto Conte anche minacciando l'autonomia e la disobbedienza. 
A questo punto lo chiediamo a Draghi di battere un colpo che permetta di cacciare l'abusivo monatto Conte. Draghi sicuramente un democratico e competente, che non ha bisogno del disastro italiano per nobilitarsi, che non ha ambizioni golpiste e napoleoniche, sarebbe accettato da tutti anche se non dai Cinque stelle e darebbe subito, con la sua presenza, forza al governo  anche verso l'esterno.
E l'Altro Matteo che fa? Guarda attonito?  

giovedì 26 marzo 2020

Sua Signoria radical chic Gramellini Buongiorno


Sua signoria radical chic Gramellini Buongiorno 

La discesa in campo di Berlusconi e dei cittadini che lo votavano è stata una cartina al tornasole per mettere in evidenza quanto era ipocrita e falsa la cultura radical chic ed elitaria della società civile, dell’autonominatasi “società civile” in contrapposizione alla società incivile, alla maggioranza silenziosa nixoniana, che improvvisamente usciva dall’anonimato, capitanata dal mostro delle tivù indecenti e dell’incultura.
Leggete ciò che scrive l’orgogliosamente azionista Gramellini, il civile Gramellini, il democratico Gramellini in un suo Buongiorno sulla stampa.
“Mai come in queste drammatiche ore ci sentiamo di dar ragione all’economista luigi Zingales quando dice che l’Italia è una peggiocrazia, il governo dei peggiori- la prevalenza del cretino, o comunque del mediocre, raggiunge la sua apoteosi in quella caricatura di democrazia che è diventata la nostra democrazia. oggi qualsiasi persona di buonsenso, di destra o di sinistra, riconosce che questa politica svilita dai clown dalle caste dovrebbe affidarsi ai seri e ai competenti. figure alla Mario Monti per intenderci e ce ne sono tante. ma qualsiasi persona di buon senso sa che se i Mario Monti si presentassero alle elezioni, le perderebbero. perché non sono istrionici né seducenti. verrebbero surclassati da chi conosce l’arte della promessa facile e dello slogan accattivante, in quanto una parte non piccola degli elettori è così immatura da privilegiare i peggiori: per ignoranza, corruzione, menefreghismo.
dirò una cosa aristocratica solo in apparenza. Neppure le sacrosante primarie bastano a garantire la selezione dei migliori. Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della costituzione? E adesso lapidatemi pure. 
Potessimo! Solo potessimo! E’ contento il democratico Gramellini?
Non abbia timori il “democratico” Granellini, l’ipocrita Gramellini, il moralista Gramellini, la maggioranza silenziosa non fa barricate, non lapida e non fa girotondi e piazzate. Grazie comunque 
Cosa dire, invece, di un simile articolo espresso da un signore, un giornalista, un vicedirettore di un giornale (il terzo per tiratura) in Italia, da un cittadino che si dice influenzato dal Partito d’azione? Se la democrazia italiana sta male, il signor Gramellini, come cittadino democratico sta molto peggio.
Ciò detto, tutto mi pare non funzionare in quel breve articolo. Non funzionano innanzitutto l’uso di termini comuni quali “peggiocrazia”e “buon senso”. Grazie comunque per termini quali prevalenza del cretino, o comunque del mediocre, perché supponiamo giunga da una persona tutto sommato superba e ignorante. I suoi insulti sono generici verso persone di cui Gramellini non conosce complessità e cultura, mentre i nostri sono ragionati e sulla base dei tanti “Buongiorno” letti.
Ma laggiù, sotto, nella pancia con cui Gramellini sembra pensare (pancia elitaria e azionista, vera pancia doc, tutt’altra cosa che la pancia volgare dei cittadini comuni) il sentimento che anima questo scritto è evidente. Di fronte ai voti dei Berlusconiani, degli ignoranti berlusconiani, degli indecenti e ignoranti cittadini che lo votano, è semplice: La democrazia va bene se ci votano, se non ci votano, creiamo barriere, impediamo a loro di votare: non più una testa, un voto ma una testachevotanoi,2 un voto. Siamo ormai dentro alla Repubblica di Platone e Gramellini è non il suo profeta ma uno dei suoi profeti.
All’interno della società civile la sua non era una posizione isolata ma era diffusissima: una reazione, un’esaltazione alla trincea violenta, virale. 
In una delle tante lettere inviate ai giornali in quel periodo, in questo caso al direttore Mario Calabresi de La stampa si legge. 
Mi colloco, nel mio piccolo, a «sinistra» da sempre (le virgolette si spiegano con le variegazioni e oscillazioni attuali). Dopo l'esito delle ultime elezioni regionali, vorrei fare una «proposta» selettiva se non francamente reazionaria, Il voto è costituzionalmente (ecco perché le se-conde virgolette) un diritto-dovere: ma dovrebbe essere anche un merito per gli elettori.
Troppe volte ho sentito dire da amici, a proposito di molte persone (anche a prescindere dal loro orientamento), che queste ultime, avendo dimostrato, variamente, la loro insipienza, ignoranza, egoismo e/o malafede, tuttavia «manifestano opinioni, vanno a votare».
Mi chiedo se non sia il caso di sottoporle, prima di tornate elettorali, a un esame elementare per vedere se appunto meritino di votare. Basterebbe anche solo chiedergli: 1) chi è il presidente della Repubblica; 2) chi quello della Camera, del Senato e del Consiglio; 3) quali sono i programmi degli schieramenti presenti e un minimo della storia e delle ideologie delle loro varie componenti (cioè come si è giunti al periodo attuale; e/o domande altrettanto semplici - perché gli elettori non si passino le risposte, almeno di 1) e 2), usciti dal seggio). Sarebbe ammesso al voto chi supera questo minimo esame.
Il suffragio universale dovrebbe essere, anche se quasi-simbolicamente, guadagnato sul campo: non più, in qualche modo octroyé; come regalato a chi può influire sulla formazione di governi pure essendo, come si diceva una volta, «fuori della storia» (e non solo).
Firmato Gianni Bernardini, università di Siena.
Complimenti signor Bernardini, lei sarebbe piaciuto ai saggi della repubblica di Platone, dove avrebbe banchettato in allegra e, soprattutto, colta compagnia. Ma lei è sicuro di essere una persona colta? E chi le ha dato la patente di cultura? L’università di Siena? Quale delle sue facoltà? 
Vorrei ancora ricordare la posizione di un brillante azionista e opinionista dell’Espresso, parlo di Giorgio Bocca. 
Non era proprio Giorgio Bocca un illustre esponente del partito d’azione e della società civile? E non era proprio Giorgio Bocca quell’illustre partigiano azionista che, dopo la prima votazione non solo non si recò mai più a votare e illustrò quella sua decisione come una adeguata reazione a quegli italiani (Maledetti? Infami? Ignoranti? Irresponsabili? Disinformati? Papponi?), che dopo il fascismo, dopo la guerra, dopo i partigiani, dopo la liberazione votavano (incredibile!) non il suo Partito d’azione ma partiti popolari, di massa, come il democristiano o il comunista? 
Incredibile per l’intellettuale-partigiano Bocca che, da allora fino alla morte, decise di non giocare più. “Non vinco? Non gioco più?” Bella democrazia! Bel democratico. In realtà a Bocca dava fastidio non tanto il voto Democristiano o il voto Comunista, ma il voto popolare, non informato, non consapevole (naturalmente il suo, come quelli della sua banda, i giudici di questa consapevolezza chi erano se non loro stessi, i saggi, i colti, i morali cittadini della repubblica di Platone?). 
L’abolizione dell’Isola dei famosi e del Bagaglino Rai furono fra i tanti assurdi provvedimenti (https://criticaimpura.wordpress.com/2014/09/27/democrazia-degli-incivili-degli-indecenti-bagaglini-delle-indecenti-isole-dei-famosi-una-difesa-filosofica-del-diritto-al-trash/) dal palinsesto adottati dall’elite dei filosofi della repubblica venuti da Milano, dal pollaio delle corti universitarie e dal pollaio ancor più dorato della Banca d’Italia, incomprensibili se non alla luce di un elite etica che decideva i confini del gusto e degli ascolti che dovevano essere concessi al popolo bue. Ma i veri fiori furono la truce, infame congiura contro il Presidente Leone, contro il partito autenticamente popolare interclassista della D.C. attuata dal partito dell’Espresso tramite la famigerata Cederna per eleggere un socialista, Pertini a presidente della Repubblica e l’ancora peggiore, vero e proprio oltraggio di superbia dell’elite dei filosofi elezione a presidente della repubblica di un cittadino che mai abbandonò il partito comunista, un partito in se stesso, popolare, non aristocratico, dove però i singoli, come Napolitano, avevano approvato o assistito approvando tra l’altro la repressione ungherese e l’elevazione dei Muro. Del famigerato Muro dove vedevano ammazzare coloro che volevano scappare da quel regime. Dopo di loro nessun stupore di fronte all’invasione degli aristocratici come Ciampi e Dini nel campo politico e l’avversione verso la cultura popolare delle tivù di Berlusconi, gli ulteriori passi di sudditanza verso l’elite della UE.
La repubblica di Platone è la repubblica dei filosofi, dei colti. E come si può rifiuta tare di essere guidati dai colti, dagli intellettuali, dalla società civile e non dai Cafonal?


Cafonal è uno dei tanti aggettivi inventati dalla cultura antiberlusconiana per caratterizzare la volgarità berlusconiana. Non si può certo parlare di “cultura Berlusconiana” perché la cultura berlusconiana non esiste come cultura per i suoi coltissimi nemici.” Compaiono i termini non-cultura, anticultura, sottocultura e veniamo ributtati all’indietro di decenni quando alle elementari maestri e maestre per sgridarti quando, secondo loro,  non avevi studiato? Ti redarguivano con frasi del tipo “Mica vuoi crescere come un negro dell’Africa.”, “di questo passo, farai al massimo lo Zulu”. 
Fummo poi indottrinati da una nuova idea che esecrava quella appresa dalle maestre, secondo cui l’idea di una cultura (la nostra, quella della civiltà occidentale) contrapposta a una incultura (quella delle tribù, della barbarie, della negritudine, ecc.) era profondamente ingiusta, errata, connotata di razzismo e di imperialismo. Si affermava così la dignità di tutte le culture. 
Ebbene - potenza di Berlusconi! – oggi tutto è cultura: i vini, bere vino, il cibo, la cucina, la coltivazione dell’orto, le canzonette, i romanzi, gialli, rosa, ecc. Tutto, dicevamo, è cultura tranne quella del berlusconismo. Siamo tornati ai tristi tempi degli Zulu, sostituendo a Zulu i baluba “berlusconidi”.


In Italia e in misura minore ma non meno efficace nel mondo è arte e cultura ciò che permette e definisce l’infame cupola culturale della sinistra, la sua ottusa egemonia con invenzioni conservatrici come la “Società Civile” 
La Società Civile, autonominatesi come tale, in contrapposizione a una società incivile, a cui noi “incivili” siamo orgogliosi di appartenere, costituisce un blocco solido ramificato e viscido a sufficienza per dare risposte fittizie ma efficaci alle domande sopra formulate. Perfettamente consapevole che civiltà e cultura sono a fondamento del potere diffuso, s’ammanta per di più di una parvenza di cuore morale, quasi a rappresentare quella morale universale, basata su imperativi categorici del tipo predicato da Kant. 
Ma che è questa società civile, autoelettasi civile? Se la sono mai posta seriamente questa domanda coloro che se ne sentono parte, che la citano e la inalberano come un vessillo contro l’innominabile società incivile? Si sono mai chiesti se non sia altro che una società elitaria e moralmente egemone, quella stessa che sotto varie forme in ogni età e situazione sociale cerca di emergere e di egemonizzare moralmente e culturalmente la società? Se non sia, ad esempio, la degna versione modernizzata di quella società che spadroneggiava nell’Inghilterra vittoriana, post vittoriane e che è riuscita a distendere le sue lunghe propaggini protettive fin al secondo dopoguerra? Che non sia, sotto nomi diversi, quella stessa che fu di volta in volta paladina dell’alta funzione civilizzatrice della civiltà occidentale e della sua alta funzione moralizzatrice! Quella stessa che celebrò l’imperialismo, quella stesso che portò, anche con la violenza, la parola di Dio ai pagani e ai selvaggi, quella stessa che si sottomise ad adorare il DIO-NAZIONALISMO. 
Sulla cultura l’avvento di Berlusconi fu rivelatore. Le accuse di ignoranza, di fascismo, di barbarie al potere furono ossessive. Nulla da dire sulle accuse di conflitto di interessi. Molti di noi le condividevamo allora e le condividiamo oggi. Ma l’esplosione di rabbia, di odio, fu tutta contro la cultura degli elettori che lo avevano votato. Il popolo sostenitore di Berlusconi veniva tacciata di bieca incultura. L’esaltata e fanatica opposizione alla cultura berlusconiana portò ad esempio la rivista Kainos n° 11° a una raccolta di scritti dal titolo Ignoranza e cultura in Italia all’insegna del detto dell’eccelso, sapiente, sotutto e professorone Stefano Bartezzaghi che recita “Il berlusconismo è elaborato in modo da essere pienamente compreso e accettato soprattutto da chi più è privo di strumenti culturali.” Il che significa tra l’altro che chi votava contro Berlusconi prima e per Berlusconi poi, aveva perso dalla sua tasca i fatidici strumenti culturali. 


Per le elite e le aggregazioni elite sinistra radical chic esiste una solo cultura, la loro. La cultura è quella che loro considerano cultura, fosse anche la conoscenza della loro cacca. I confini li fissano loro, “Questo sì, questo no”. Sono cultura i teatri, le mostre, le conferenze, i convegni, i bachi da seta, l’inseminazione artificiale dei coleotteri, la preparazione dei bignè della Pomerania. Tutto è cultura, tutta quella approvata da questi cavalieri della cultura, tutto ciò che passa nelle loro cervici, nei loro intestini, nei loro stomaci, nelle loro pance, tutto tranne ciò che ieri riguardava Berlusconi, il popolo di Berlusconi, e oggi i nuovi infami populismi, i nuovi mostri, i nuovi, barbari, i nuovi Attila, che invece la cultura, la democrazia, la civiltà la distruggono. La fine del mondo civile, l’apocalisse!


Ciò che ci permette di irridere alla cultura, alle credenze, alla morale della società civile è da un lato l’ingenua, dall’altro perversa, convinzione dei loro superbi adepti di credere nell’Universalità e nell’Eternità dei loro giudizi morali. La comoda convinzione di incarnarli di fronte alla barbarie e al delinquenza, con cui sono obbligati a convivere mentre i loro dogmi morali, che esternano con protervia, non sono null’altro che pregiudizi provvisori. Quegli stessi che condannarono a umiliante galera Oscar Wilde, quegli stessi che condannarono l’alta immoralità gay del matematico Turing! Quegli stessi che furono alla base del suo processo e della sua condanna alla castrazione chimica, inducendolo al suicidio!
Ma non importa! La Società civile procede implacabile alimentata la sua boria, dal suo potere, dal suo falso manto morale.
Il punto importante è comunque uno solo: abbattere questa perdurante egemonia della sinistra, abbattere questa elite, abbattere questi editori che per anni l’hanno favorita, queste elite che si sono insediate. Abbattere la mafia culturale. 


Un ultimo fiore radical chic (uno dei tanti) di Gramellini
“Anni fa fu per me di grande insegnamento” scrive il sublime Gramellini “la visione di un film di Woody Allen in un cinema romano. “La dea dell’amore”. Un susseguirsi esilarante di battute fini per le quali in sala mi sembrava di ridere, o sorridere a voce alta, solo io. Ma appena Woody chiese alla prostituta Mira Sorvino se per caso fosse nata a Vaccopoli, dei tizi dietro di me esplosero in uno sghignazzo irrefrenabile. Mi voltai a guardarli: erano i portavoce di due partiti dell’epoca, oggi (ancora per poco) in uno solo. 
Neppure se ne rendeva conto il nostro sommo, sublime Gramellini, la nostra Aquila Torinese ma aveva varato un definitivo test per separare la società civile, da quella incivile, gli incivili, dai colti, i barbari, dai civilizzati, gli ignoranti, dai colti, i sensibili, dagli insensibili, i belli, dai brutti, la sinistra, dalla destra, i fini, dai rozzi, gli intelligenti, dai cretini, i seri da Joker, la rozza, sfacciata, ignorante, congrega berlusconiana, dal club dei sublimi colti, belli, intelligenti, civilmente chic progressisti. I sondaggisti esultano, i giornalisti sono al settimo cielo, il comitato dei nobel, riunito in permanenza, si chiede “Glielo diamo per la letteratura il nobel o per la chimica o per la pace”;
Il criterio è infallibile: Prendi due tizi qualsiasi li porti al susseguirsi esilarante di battute (finissime) del film e, se alla parola “Vaccopoli”, esplodono in uno sghignazzo irrefrenabile, sei sicuro sono di destra. Se ne porti quattro e se tutti alla parola Vaccopoli esplodono in uno sghignazzo (irrefrenabile) sei sicuro che sono di destra
Il test funziona anche per gruppi dispari e perfino per un individuo solo; anche per te che stai leggendo e anche per me. Pronunci Vaccopoli e se ride sai chi sei e ti spari, se non ridi, esulti e chiedi la tessera dei belli, bravi, colti, intelligenti progressisti. Se ti comporterai bene e mai scoppierai in uno sghignazzo irrefrenabile quando sul treno, sul tram, al telefono, in ufficio sarai sottoposto al test dello sghignazzo, verrai iscritto al club delle società civili. 
Io da parte mia, purtroppo, mente scrivo Vaccopoli, scoppio in uno sghignazzo irrefrenabile e siccome di Vaccopoli ne ho già scritti sei, non la finisco più di sghignazzare in maniera irrefrenabile e nessuno riesce più a fermarmi, mia moglie e i miei figli sono disperati ma ecco che vedendo sghignazzare me, scoppiano a sghignazzare anche loro, Sghignazza metà condominio e cominciano a sghignazzare in strada. Io poveretto sono dilaniato ma intanto penso.
Penso che per sapere se un individuo è civile o incivile, berlusconiano o no, non è neppure necessario prenderlo di brutto (magari sta scopando), trascinarlo al cinema dove programmano in permanenza il film “La dea dell’amore” di Woody Allen, attendere con pazienza il susseguirsi di (esilarante) battute (fini, finissime)  per le quali in sala ride solo il signor Gramellini e infine vedere se alla parola VACCOPOLI sghignazza irrefrenabilmente come sto sghignazzando irrefrenabilmente io. Basta pronunciare con dizione chiara la Parola VACCOPOLI ed ecco che gli ex Alleanza nazionale e gli ex Forza Italia esplodono nel solito irrefrenabile sghignazzo mentre i simil Gramellini sorridono al susseguirsi di battute finissime, anche se nessuno pronuncia alcun susseguirsi di battute finissime 
Il signor Gramellini continua il suo brillantissimo articolo partorito dalla sua brillantissima mente cacciandosi “in un sentiero pericoloso: il sorriso come esclusiva degli snob esangui e acculturati, mentre i barbari affrontano la risata di petto, proprio come la vita” e riconoscendosi così come acculturato, il che non fa una grinza, e noi non avevamo alcun dubbio perché come tutta la nostra alta altissima società civile è:
Bello, intelligente, solidale colto
Bello, intelligente, solidale colto
Bello, intelligente, solidale colto
Per favore ripetere ogni giorno per almeno cento volte. 
Mi chiedo, se si riconosce acculturato, se s’è accordo della colonna operistica del film? S’è accorto che compariva un brano ben raramente usato come commento musicale del film? Che pezzo Acculturato Gramellini? Qual è l’opera? Qual è il compositore? Io dico che lei non lo sa e allora la soccorro: si tratta del duetto famoso del primo atto tra Tell e Arnold. 
Dico il vero o la piglio per i fondelli? 
Eppure Voi colti e intelligenti pifferi di sinistra, ripetete a tutto spiano che la destra non conosce la storia. Quale storia Vaccopoli Gramellini? Quella della musica del medioevo, del cinquecento, del seicento, del settecento dell’ottocento, del novecento con l’orribile dodecafonia? Quella della scienza? Quella della matematica? Sa cos’è un infinitesimo? E un indivisibile? Il resto di Peano? Ha letto ON denoting di Russell? 
No lei non sa nulla di tutto ciò. Non sa nulla di nulla; sa solo che la destra incolta ride al suono di vaccopoli e, naturalmente parlare con odio e disprezzo di Berlusconi.
Berlusconi ha dato agli italiani una TV gratuita e lei cosa ha dato agli italiani? Vaccopoli? Un po’ poco rispetto a tre canali di tv, guardati da quel quaranta per cento di italiani che naturalmente scoppiano in sghignazzi a sentire il suono di Vaccopoli.
Ha anche dato migliaia di posti di lavoro, e lei quanti posti ha dato? Altrettante migliaia nel paese di VACCOPOLI? 

Dimenticavo: lei è autore di un romanzo di grande successo. Il premio Nobel lo daranno a Lei o a Veltroni?