L’enorme ricchezza accumulata da Berlusconi con Mediaset si
deve in parte alla ridicola concorrenza che gli faceva la RAI a cui non bastò
la società civile e il soccorso della magistratura per correre velocemente
verso il fallimento.
Non fu il conflitto d’interessi ciò che mobilitò il popolo
della civiltà, fu la spaventosa idea che fosse giunta l’età dei Lumpen, del
dominio dei lumpen.
La reazione degli intellettuali
della sinistra, degli impegnati della autonominatasi società civile, nata in alleanza della magistratura, ma subito mutatasi in opposizione alla lega, definita barbara e incivile, insultata come barbara e incivile, additata come
barbara, rozza, incivile. E dire che gran parte di quella società aveva
sostenuto la macelleria comunista.
Ci fu una reazione rabbiosa. Vinceva Berlusconi! Incredibile! Il padrone delle tivù private! Di quelle
incredibili tivù private. Della pubblicità, dei pannolini, dei sorrisi a
quaranta denti, della superficialità, dell’evasione dal pubblico, dalla
moralità, dall’impegno civile, vinceva l’ignoranza e la superficialità.
Irrisione e condanna per chi lo ha votato, descrizioni feroci di chi lo ha votato,
proclamazioni dell’ignoranza di chi lo ha votato, dei suggestionabili dalla
tivù commerciale del divertimento, dell’evasione.
Il fronte intellettuale affida il
proprio pensiero al giornale diretto da Furio Colombo e Antonio Padellare, che appare come un interminabile tuffarsi nell'apocalisse. Ecco Dario Fo, di cui
viene integralmente riprodotta la requisitoria antiberlusconiana apparsa su Le
Monde, che denuncia un clima mefitico in cui in Italia si tornerebbe nientemeno
che a parlare di «difesa della razza». Oppure Antonio Tabucchi, che bacchetta
il Presidente della Repubblica, reo di non essersi immolato nella trincea posta
a difesa dell'Italia dall'assalto dei nuovi barbari. O la scrittrice Francesca
Sanvitale, che sferza gli italiani affinché ritrovino intatte le parole di
un'immedicabile «indignazione». Si applaude ripetutamente il membro diessino
del Csm, Di Cagno, che ha pubblicamente paragonato i magistrati antigovernativi
agli ebrei vessati e decimati dal regime hitleriano, scomodando persino la celeberrima
formula di Primo Levi: «Se non ora quando». Persino un poeta solitamente schivo
e parco di dichiarazioni politiche come Mario Luzi si arruola nella crociata
contro il «nuovo regime», con uno spirito che non ammette tentennamenti o
obiezioni, la cui semplice espressione viene senz'altro riprovata alla stregua
di un «tradimento».
Si allarga il discorso agli
amici e ai suoi simili, volgari come lui
La piazzata è così sconclusionata,
canina, in rivolta pure verso i politici di sinistra troppo arrendevoli mentre
dovrebbero imbracciare il fucile, o, perlomeno, trasformare le piazze, le vie,
i palazzi in una permanente sfilata di slogan e insulti, che pure le travi del
partito di sinistra è perlomeno perplesso.
Il guaio è che il «fronte» degli
intellettuali di sinistra è tutto contro di loro. Massimo D'Alema e Piero
Passino, rispettivamente presidente e segretario dei Democratici di sinistra,
esortano a cambiare linea. Sondaggi alla mano, scoprono che il muro contro
muro, l'opposizione tutta urla e strepiti, la retorica dell'«allarme
democratico» con connesso diuturno e irrituale appello al Quirinale, anziché
indebolirlo e sfiancarlo, rafforzano il nemico Berlusconi. Perciò invitano la
sinistra a rettificare linguaggio e comportamenti, propongono di iniziare
davvero, smaltito il trauma frastornante della sconfitta, la lunga, impervia
traversata nel deserto. Fassino chiede al partito di liberarsi dell'illusione
della spallata, di smetterla di baloccarsi con l'invocazione delle virtù
salvifiche della piazza, D'Alema convoca la sua Fondazione Italiani europei per
azzerare mesi e mesi di opposizione rovinosamente autolesionista. Ma ambedue
devono affrontare il fronte recalcitrante degli intellettuali che hanno
imboccato la strada opposta. Forse è dai tempi della svolta di Achille Ochetto
alla Bolognina che non si percepisce un distacco così radicale tra il partito e
gli intellettuali. Nel 1989 Fabio Mussi liquidava le accorate rimostranze di
Natalia Ginzburg contro l'abbandono dell'identità comunista come la manifestazione
di un'invincibile nostalgia per il Pci «bambolotto di pezza» coltivata da una
cultura incapace di distogliere lo sguardo impietrito sul passato. Oggi gli
intellettuali sembrano ipnotizzati dalla mitologia dell'ultima spiaggia: la
condizione psico-culturale peggiore per affrontare svolte.
Le voci della sinistra
intellettuale difformi o stonate nel coro che chiama alla mobilitazione
generale appaiono infatti flebili, sporadiche, isolate. Del senatore dei Ds
Franco Debenedetti viene invocata addirittura la testa, sotto forma di
espulsione dai luoghi deputati della sinistra (Massimo Roccella sull'Unità). E
tale è la reattività degli animi esacerbati che proprio sul capo di Debenedetti,
Gianni Vattimo ha lasciato che aleggiasse lo spettro del «tradimento». Come nei
tempi corruschi del giacobinismo rivoluzionario, sono i «tiepidi» sospettati, per
il loro scarso ardore attivistico, di albergare sentimenti disfattisti
abilmente dissimulati, ad essere indicati alla pubblica esecrazione. Altri
intellettuali poco propensi alla demonizzazione dell'avversario, come Michele
Salvati o Augusto Barbera, non sembrano raccogliere ascolto nei ranghi serrati
dell"«intellettualità» di sinistra. Una rivista come Le ragioni del
socialismo di Emanuele Macaluso agita là bandiera del riformismo, ma con una
dichiarata propensione al minoritarismo dentro una cultura di sinistra
tutt'altro che desiderosa di abbandonare un atteggiamento di irriducibile
oltranzismo: quello che corrosivamente Francois Furet definiva «L'oligarchia
dell'attivismo». Nel seminario della Fondazione Italianieuropei in cui più è
emersa l'esigenza di superare atteggiamenti rissosi e verbosità inconcludenti,
gli intellettuali del cinema e del teatro, della letteratura e dell'arte hanno
brillato per la loro assenza. Persino un intellettuale noto per la sua
prolungata e autorevole appartenenza riformista come Massimo L. Salvadori ha di
recente indicato con toni accorati e ultimativi l'insorgere di una terribile
«emergenza democratica», con l'ovvia conseguenza di cancellarla radicalmente
Ogni aggiustamento di linea
politica nella direzione opposta a quella della guerra civile ideologica che
punta alla delegittimazione reciproca e all'annientamento di ogni valore
condiviso tra due schieramenti avversari ma non nemici alla morte.
Le uniche voci della sinistra
intellettuale che si sono alzate per commentare l'idea del Capo dello Stato di
un Museo dedicato all'identità italiana sono apparse su Liberazione e con toni
veementemente polemici nei confronti di un'iniziativa inevitabilmente destinata
a ridurre il fossato incolmabile che secondo i detrattori della proposta divide
(e deve continuare, indefinitamente, a dividere) in due metàincomunicanti gli schieramenti
politici che si contendono la leadership del Paese.
La teoria dello scontro frontale
con lo schieramento attualmente al governo suggerisce a cospicui settori della
cultura di sinistra, sovente tra gli applausi di ammirazione, il lessico della
guerra totale e senza mediazioni. Viene accolto con sollievo il linguaggio
dell'economista Paolo Sylos Labini che descrive il presidente del Consiglio
come il capo di un clan criminale, che andrebbe condotto alla sua natura
puramente delinquenziale. Malgrado le resistenze di Fassino, di D'Alema e anche
di Luciano Violante, suscita adesioni l'idea di Paolo Flores d'Arcais e di
MicroMega di celebrare solennemente il decimo anniversario di Mani pulite e se
D'Alema eccepisce che una sinistra non forcaiola può festeggiare la presa
liberatoria della Bastiglia, ma non i colpi secchi della ghigliottina che fanno
rotolare le teste dei nemici del popolo, Flores d'Arcais replica sulla Stampa
che anche i «liberatori» della Bastiglia, se proprio occorre inerpicarsi sulla
strada delle comparazioni storiche, portavano infilzate sulle loro picche le
teste dei nemici. Ma è nell'uso corrente della comparazione tra berlusconismo e
fascismo che si misura la distanza incolmabile tra la nuova linea proposta da
D'Alema e Fassino e la parte più ciarliera e combattiva dell'intellighenzia di
sinistra.
L'idea della «vigilanza»
democratica, dell'emergenza, della barriera «antifascista», del pericolo
attualissimo di un tuffo nel passato, l'evocazione ricorrente (e fortemente
contestata, isolatamente, da Debenedetti) di Hitler come precedente storico di
un dittatore dapprima democraticamente eletto e poi trascinatore del proprio
popolo negli abissi del totalitarismo, fanno da nutrimento culturale e
psicologico di un prossimo «Giorno della memoria» del 27 gennaio all'insegna
dell'attualizzazione del pericolo fascista e persino nazista. Un giurista
sofisticato come Franco Corderò si abbandona a tortuosi ed eccentrici itinerari
comparativi per evocare nientemeno che il fantasma di Goebbels. Lo storico Paul
Ginsborg mette in guardia, sulla scorta di un Tocqueville, repentinamente
riscoperto, dai rischi estremi della «tirannide della maggioranza». Tra i
cineasti di sinistra crea allarme e indignazione persino la nomina alla Scuola
nazionale del cinema di un sociologo tutt'altro che fedele all'ortodossia
berlusconiana come Francesco Alberoni. Come se il grido di battaglia di conio
borrelliano, «resistere, resistere, resistere», fosse diventato il motto di un
intero schieramento culturale, si auspica la spallata giudiziaria per
rovesciare il tavolo e azzerare per incanto l'«anomalia» berlusconiana. Tutto
il contrario del lento lavoro di ricostruzione che, nella prospettiva di Fassino
e di D'Alema, dovrebbe riportare la sinistra a ricucire quei rapporti strappati
con la società e di cui si è sinora giovato lo schieramento opposto.
Il rapporto con gli intellettuali
costituirà nel prosieguo una spina nel fianco della leadership politica della
sinistra diessina. Come dopo la
Bolognina , appunto, quando molti intellettuali parteciparono
con furore al «fronte del No» alla svolta che avrebbe messo fine al Pci. Oggi
come allora, all'indomani di una sconfitta storica che inasprisce gli animi e
rende sempre più arduo l'avvio della lunga e solitaria “traversata nel
deserto”.
Pierluigi Battista scrive sulla
stampa del 23/1/02 un articolo dal titolo A
sinistra nasce il partito dell’Apocalisse.
Come ha ben riferito Battista in
un parolaio del 2003, SYLOS LABINI NEGA CHE CI SIA QUALCUNO IMPEGNATO con odio
A DEMONIZZARE berlusconi
meno che il famoso critico
cucurbitaceo Armando Gnisci otto chili di sinapsi che le usa tutti quei kili che
ha sofferto per la sua discesa in campo come un’offesa estremamente umiliante,
in quanto letterato nativo europeo di lingua italiana. … lei incarna
psicofisicamente il peggio… è un capo opprimente e
contraffatto…di un ridicolo estremo… goffo … vuoto …falso… lei è una maschera
trucida ….bisogna parlare al cuore di lei per tentare di fracassarlo …il suo è
un fascino mostruoso lei è l’orrore
incarnato …oscilla sulla frontiera del disumano del ventesimo secolo … lei va
abrogato.
Più moderato Angelo D’orsi ricorda
che è vero che comanda chi ha più voti
ma non è detto che chi ha più suffragi sia quello che ha ragione. Anche con lui
siamo in piena repubblica di Platone.
La reazione alla discesa e alla prima vittoria è
isterica. Ha vinto la cultura dei pannoloni, della tivù di plastica, della
pubblicità, del populismo, della volgarità. Ricordo l’espressione “L’ingresso
della volgarità nelle istituzioni”. Dura contro lui, contro il suo partito il
che è normale. Normale è anche la caratterizzazione brutale, infamate del nemico
politico, ma non la sistematica offesa dei suoi elettori che non sarebbero
coscienti di cosa fanno, che sarebbero, deficienti stupidi, barbari ecc. Poi la
solita storia imbonitore/imboniti, illusionista/illusi che tanto ricorda gli
altri accoppiamenti del passato del tipo sobillatori/sobillati o demonio
seduttore/ peccatori. Non solo contro Berlusconi ma contro tutti gli amici e coloro che non si
scagliavano contro.
Paradigmatico è il caso della “Milano da bere”.
Paradigmatico perché queste tre parole che, in qualche modo, sintetizzano un
importante cambiamento culturale, erano diventate per gli allora moralisti
berlingueriani sintesi di un disprezzo morale anticraxiano e antiberlusconiamo.
Da una parte loro, i limpidi, i puri comunisti e dall’altra la nuova avanzante
immorale cultura ed economia fracassona, volgare, indecente.
E’ evidente che
la nuova cultura e il nuovo lavoro connessi alla moda, alle sfilate, ai
laboratori, ai negozi di moda portavano con sé un fervore che comprendeva, con
le sfilate, anche le indossatrici, le aspirante indossatrici, le divette, le
esibizioni, i fotografi, le notti nei locali con movida notturna. Ma questo non
era il contorno di una nuova economia capace di creare grande ricchezza, lavoro
qualificato, prodotti ad alti valore aggiunto, turismo di lavoro, bellezza,
arte, ecc.; capace di elevare e portare il nome italiano in tutto il mondo. Un
contorno, creatore, esso stesso di turismo e di ricchezza; quello stesso
contorno che immortalato da Fellini col nome DOLCE VITA caratterizzava la
fiorente produzione cinematografica italiana del dopoguerra, tanto amata dai
confusi puri come se fosse tutt’altra cosa rispetto a quella della “Milano da
bere”
Abbiamo citato Cafonal. Cafonal è
uno dei tanti aggettivi inventati dalla cultura antiberlusconiana per
caratterizzare la volgarità berlusconiana. Non si può certo parlare di “cultura
Berlusconiana” perché la cultura berlusconiana non esiste come cultura per i
suoi coltissimi nemici.” Compaiono i termini non-cultura, anticultura,
sottocultura e veniamo ributtati all'indietro di decenni quando alle elementari
maestri e maestre per sgridarti quando, secondo loro, non avevi studiato ti redarguivano con frasi
del tipo “Mica vuoi crescere come un negro dell’Africa.”, “Di questo passo
farai al massimo lo Zulu”.
Fummo poi indottrinati da una
nuova idea che esecrava quella appresa dalle maestre secondo cui l’idea di una
cultura (la nostra, quella della civiltà occidentale) contrapposta a una
incultura (quella delle tribù, della barbarie, della negritudine, ecc.) era
profondamente ingiusta, errata, connotata di razzismo e di imperialismo. Si
affermava così la dignità di tutte le culture.
Ebbene - potenza di Berlusconi – tutto è cultura: i vini, bere vino, il cibo, la cucina, la coltivazione
dell’orto, le canzonette, i romanzi, gialli, rosa, ecc. Tutto, dicevamo, è
cultura tranne quella del berlusconismo. Siamo tornati ai tristi tempi degli
Zulu sostituendo a Zulu i baluba “berlusconidi”.
Per le elite e le aggregazioni
elite sinistra radical chic esiste una solo cultura, la loro. La cultura è
quella che loro considerano cultura, fosse anche la conoscenza della loro
cacca. I confini li fissano loro, questo sì questo no. Sono cultura i teatri,
le mostre, le conferenze, i convegni, i bachi da seta, l’inseminazione
artificiale dei coleotteri, la preparazione dei bignè della Pomerania. Tutto è
cultura, tutta quella approvata da questi cavalieri della cultura, tutto ciò
che passa nelle loro cervici, nei loro intestini, nei loro stomaci, nelle loro
pance, tutto tranne ciò che ieri riguardava Berlusconi e oggi i nuovi infami
populismi, i nuovi mostri, i nuovi, barbare, i nuovi Attila, che invece la
cultura, la democrazia, la civiltà la distruggono. La fine del mondo civile,
l’apocalisse!
Inchiniamoci noi, stupidi
ignoranti, inchiniamoci ai libri letti dalla mammellata ministra dei
beni culturali, con villa in Kenia, frequentatrice delle feste, in quello
stesso Kenia, dell’orrido cafonal Briatore e pronta a smentire, bugiardamente, quella sua presenza fino a che una fotografia ridicolizzava la sua menzogna,
inchiniamoci alla già ministra della cultura lei, che si diceva avesse in vita
sua letto ben cinque libri e stesse coraggiosamente leggendo il sesto e che ora
inquina la seggiola di amministratrice niente di meno che del Maxi; una sedia
donde diceva lei avrebbe disseminato la sua cultura del tutto gratuitamente ma
alla quale fu lestamente riconosciuto l’abbondante appannaggio da aggiungere al
suo lussuoso assegno pensionistico come ex parlamentare e lettrice di libri.
Meraviglioso pacchetto
confezionato subdolamente dai suoi compagni di partito e dalle elite culturali
associate di cui non si vergognano neppure.
L’avesse fatta Berlusconi una cosa
simile, l’avessero fatta i Berlusconidi una cosa simili, giornalisti, giudici,
società civile, popolo dei fax, girotondisti, sarebbero insorti facendo un
baccano del diavolo, un baccano da barbari, da squilibrati, come i tanti messi
in moto da questa ammorbante elite che si muoveva per molto meno. Bastò un muro
caduto a Pompei per una sceneggiata isterica contro il ministro berlusconiano
fino a farlo dimettere ma quello era un muro speciale. I muri continuarono a
cadere a Pompei ma nessuno si mosse contro i ministri non berlusconidi.
E dopo questo indegno scoppio
d’ira populista ecco che veniamo colti dal pentimento. Ecco che abbiamo dimenticato
che tutto ciò che fanno la sinistra e i loro compagni di merenda è bene, bene
per loro e bene per noi tutti e quindi facciamo ammenda e ripetiamolo che loro
sono ecc. ecc.
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