lunedì 30 marzo 2020

La sinistra inventò l'insulto. Non dimentichiamo



L’enorme ricchezza accumulata da Berlusconi con Mediaset si deve in parte alla ridicola concorrenza che gli faceva la RAI a cui non bastò la società civile e il soccorso della magistratura per correre velocemente verso il fallimento.
Non fu il conflitto d’interessi ciò che mobilitò il popolo della civiltà, fu la spaventosa idea che fosse giunta l’età dei Lumpen, del dominio dei lumpen.
La reazione degli intellettuali della sinistra, degli impegnati della autonominatasi società civile, nata in alleanza della magistratura, ma subito mutatasi in opposizione alla lega, definita barbara e incivile, insultata come barbara e incivile, additata come barbara, rozza, incivile. E dire che gran parte di quella società aveva sostenuto la macelleria comunista.
Ci fu una reazione rabbiosa. Vinceva Berlusconi! Incredibile! Il padrone delle tivù private! Di quelle incredibili tivù private. Della pubblicità, dei pannolini, dei sorrisi a quaranta denti, della superficialità, dell’evasione dal pubblico, dalla moralità, dall’impegno civile, vinceva l’ignoranza e la superficialità. Irrisione e condanna per chi lo ha votato, descrizioni feroci di chi lo ha votato, proclamazioni dell’ignoranza di chi lo ha votato, dei suggestionabili dalla tivù commerciale del divertimento, dell’evasione.
Il fronte intellettuale affida il proprio pensiero al giornale diretto da Furio Colombo e Antonio Padellare, che appare come un interminabile tuffarsi nell'apocalisse. Ecco Dario Fo, di cui viene integralmente riprodotta la requisitoria antiberlusconiana apparsa su Le Monde, che denuncia un clima mefitico in cui in Italia si tornerebbe nientemeno che a parlare di «difesa della razza». Oppure Antonio Tabucchi, che bacchetta il Presidente della Repubblica, reo di non essersi immolato nella trincea posta a difesa dell'Italia dall'assalto dei nuovi barbari. O la scrittrice Francesca Sanvitale, che sferza gli italiani affinché ritrovino intatte le parole di un'immedicabile «indignazione». Si applaude ripetutamente il membro diessino del Csm, Di Cagno, che ha pubblicamente paragonato i magistrati antigovernativi agli ebrei vessati e decimati dal regime hitleriano, scomodando persino la celeberrima formula di Primo Levi: «Se non ora quando». Persino un poeta solitamente schivo e parco di dichiarazioni politiche come Mario Luzi si arruola nella crociata contro il «nuovo regime», con uno spirito che non ammette tentennamenti o obiezioni, la cui semplice espressione viene senz'altro riprovata alla stregua di un «tradimento».
Si allarga il discorso agli amici e ai suoi simili, volgari come lui

La piazzata è così sconclusionata, canina, in rivolta pure verso i politici di sinistra troppo arrendevoli mentre dovrebbero imbracciare il fucile, o, perlomeno, trasformare le piazze, le vie, i palazzi in una permanente sfilata di slogan e insulti, che pure le travi del partito di sinistra è perlomeno perplesso.
Il guaio è che il «fronte» degli intellettuali di sinistra è tutto contro di loro. Massimo D'Alema e Piero Passino, rispettivamente presidente e segretario dei Democratici di sinistra, esortano a cambiare linea. Sondaggi alla mano, scoprono che il muro contro muro, l'opposizione tutta urla e strepiti, la retorica dell'«allarme democratico» con connesso diuturno e irrituale appello al Quirinale, anziché indebolirlo e sfiancarlo, rafforzano il nemico Berlusconi. Perciò invitano la sinistra a rettificare linguaggio e comportamenti, propongono di iniziare davvero, smaltito il trauma frastornante della sconfitta, la lunga, impervia traversata nel deserto. Fassino chiede al partito di liberarsi dell'illusione della spallata, di smetterla di baloccarsi con l'invocazione delle virtù salvifiche della piazza, D'Alema convoca la sua Fondazione Italiani europei per azzerare mesi e mesi di opposizione rovinosamente autolesionista. Ma ambedue devono affrontare il fronte recalcitrante degli intellettuali che hanno imboccato la strada opposta. Forse è dai tempi della svolta di Achille Ochetto alla Bolognina che non si percepisce un distacco così radicale tra il partito e gli intellettuali. Nel 1989 Fabio Mussi liquidava le accorate rimostranze di Natalia Ginzburg contro l'abbandono dell'identità comunista come la manifestazione di un'invincibile nostalgia per il Pci «bambolotto di pezza» coltivata da una cultura incapace di distogliere lo sguardo impietrito sul passato. Oggi gli intellettuali sembrano ipnotizzati dalla mitologia dell'ultima spiaggia: la condizione psico-culturale peggiore per affrontare svolte.
Le voci della sinistra intellettuale difformi o stonate nel coro che chiama alla mobilitazione generale appaiono infatti flebili, sporadiche, isolate. Del senatore dei Ds Franco Debenedetti viene invocata addirittura la testa, sotto forma di espulsione dai luoghi deputati della sinistra (Massimo Roccella sull'Unità). E tale è la reattività degli animi esacerbati che proprio sul capo di Debenedetti, Gianni Vattimo ha lasciato che aleggiasse lo spettro del «tradimento». Come nei tempi corruschi del giacobinismo rivoluzionario, sono i «tiepidi» sospettati, per il loro scarso ardore attivistico, di albergare sentimenti disfattisti abilmente dissimulati, ad essere indicati alla pubblica esecrazione. Altri intellettuali poco propensi alla demonizzazione dell'avversario, come Michele Salvati o Augusto Barbera, non sembrano raccogliere ascolto nei ranghi serrati dell"«intellettualità» di sinistra. Una rivista come Le ragioni del socialismo di Emanuele Macaluso agita là bandiera del riformismo, ma con una dichiarata propensione al minoritarismo dentro una cultura di sinistra tutt'altro che desiderosa di abbandonare un atteggiamento di irriducibile oltranzismo: quello che corrosivamente Francois Furet definiva «L'oligarchia dell'attivismo». Nel seminario della Fondazione Italianieuropei in cui più è emersa l'esigenza di superare atteggiamenti rissosi e verbosità inconcludenti, gli intellettuali del cinema e del teatro, della letteratura e dell'arte hanno brillato per la loro assenza. Persino un intellettuale noto per la sua prolungata e autorevole appartenenza riformista come Massimo L. Salvadori ha di recente indicato con toni accorati e ultimativi l'insorgere di una terribile «emergenza democratica», con l'ovvia conseguenza di cancellarla radicalmente
Ogni aggiustamento di linea politica nella direzione opposta a quella della guerra civile ideologica che punta alla delegittimazione reciproca e all'annientamento di ogni valore condiviso tra due schieramenti avversari ma non nemici alla morte.
Le uniche voci della sinistra intellettuale che si sono alzate per commentare l'idea del Capo dello Stato di un Museo dedicato all'identità italiana sono apparse su Liberazione e con toni veementemente polemici nei confronti di un'iniziativa inevitabilmente destinata a ridurre il fossato incolmabile che secondo i detrattori della proposta divide (e deve continuare, indefinitamente, a dividere) in due metàincomunicanti gli schieramenti politici che si contendono la leadership del Paese.
La teoria dello scontro frontale con lo schieramento attualmente al governo suggerisce a cospicui settori della cultura di sinistra, sovente tra gli applausi di ammirazione, il lessico della guerra totale e senza mediazioni. Viene accolto con sollievo il linguaggio dell'economista Paolo Sylos Labini che descrive il presidente del Consiglio come il capo di un clan criminale, che andrebbe condotto alla sua natura puramente delinquenziale. Malgrado le resistenze di Fassino, di D'Alema e anche di Luciano Violante, suscita adesioni l'idea di Paolo Flores d'Arcais e di MicroMega di celebrare solennemente il decimo anniversario di Mani pulite e se D'Alema eccepisce che una sinistra non forcaiola può festeggiare la presa liberatoria della Bastiglia, ma non i colpi secchi della ghigliottina che fanno rotolare le teste dei nemici del popolo, Flores d'Arcais replica sulla Stampa che anche i «liberatori» della Bastiglia, se proprio occorre inerpicarsi sulla strada delle comparazioni storiche, portavano infilzate sulle loro picche le teste dei nemici. Ma è nell'uso corrente della comparazione tra berlusconismo e fascismo che si misura la distanza incolmabile tra la nuova linea proposta da D'Alema e Fassino e la parte più ciarliera e combattiva dell'intellighenzia di sinistra.
L'idea della «vigilanza» democratica, dell'emergenza, della barriera «antifascista», del pericolo attualissimo di un tuffo nel passato, l'evocazione ricorrente (e fortemente contestata, isolatamente, da Debenedetti) di Hitler come precedente storico di un dittatore dapprima democraticamente eletto e poi trascinatore del proprio popolo negli abissi del totalitarismo, fanno da nutrimento culturale e psicologico di un prossimo «Giorno della memoria» del 27 gennaio all'insegna dell'attualizzazione del pericolo fascista e persino nazista. Un giurista sofisticato come Franco Corderò si abbandona a tortuosi ed eccentrici itinerari comparativi per evocare nientemeno che il fantasma di Goebbels. Lo storico Paul Ginsborg mette in guardia, sulla scorta di un Tocqueville, repentinamente riscoperto, dai rischi estremi della «tirannide della maggioranza». Tra i cineasti di sinistra crea allarme e indignazione persino la nomina alla Scuola nazionale del cinema di un sociologo tutt'altro che fedele all'ortodossia berlusconiana come Francesco Alberoni. Come se il grido di battaglia di conio borrelliano, «resistere, resistere, resistere», fosse diventato il motto di un intero schieramento culturale, si auspica la spallata giudiziaria per rovesciare il tavolo e azzerare per incanto l'«anomalia» berlusconiana. Tutto il contrario del lento lavoro di ricostruzione che, nella prospettiva di Fassino e di D'Alema, dovrebbe riportare la sinistra a ricucire quei rapporti strappati con la società e di cui si è sinora giovato lo schieramento opposto.
Il rapporto con gli intellettuali costituirà nel prosieguo una spina nel fianco della leadership politica della sinistra diessina. Come dopo la Bolognina, appunto, quando molti intellettuali parteciparono con furore al «fronte del No» alla svolta che avrebbe messo fine al Pci. Oggi come allora, all'indomani di una sconfitta storica che inasprisce gli animi e rende sempre più arduo l'avvio della lunga e solitaria “traversata nel deserto”.

Pierluigi Battista scrive sulla stampa del 23/1/02 un articolo dal titolo A sinistra nasce il partito dell’Apocalisse.
Come ha ben riferito Battista in un parolaio del 2003, SYLOS LABINI NEGA CHE CI SIA QUALCUNO IMPEGNATO con odio A DEMONIZZARE berlusconi
meno che il famoso critico cucurbitaceo Armando Gnisci otto chili di sinapsi che le usa tutti quei kili che ha sofferto per la sua discesa in campo come un’offesa estremamente umiliante, in quanto letterato nativo europeo di lingua italiana. … lei incarna psicofisicamente il peggioè un capo opprimente e contraffatto…di un ridicolo estremo… goffo … vuoto …falso… lei è una maschera trucida ….bisogna parlare al cuore di lei per tentare di fracassarlo …il suo è un fascino mostruoso   lei è l’orrore incarnato …oscilla sulla frontiera del disumano del ventesimo secolo … lei va abrogato.
Più moderato Angelo D’orsi ricorda che è vero che comanda chi ha più voti ma non è detto che chi ha più suffragi sia quello che ha ragione. Anche con lui siamo in piena repubblica di Platone. 
La reazione alla discesa e alla prima vittoria è isterica. Ha vinto la cultura dei pannoloni, della tivù di plastica, della pubblicità, del populismo, della volgarità. Ricordo l’espressione “L’ingresso della volgarità nelle istituzioni”. Dura contro lui, contro il suo partito il che è normale. Normale è anche la caratterizzazione brutale, infamate del nemico politico, ma non la sistematica offesa dei suoi elettori che non sarebbero coscienti di cosa fanno, che sarebbero, deficienti stupidi, barbari ecc. Poi la solita storia imbonitore/imboniti, illusionista/illusi che tanto ricorda gli altri accoppiamenti del passato del tipo sobillatori/sobillati o demonio seduttore/ peccatori. Non solo contro Berlusconi ma contro tutti gli amici e coloro che non si scagliavano contro. 
Paradigmatico è il caso della “Milano da bere”. Paradigmatico perché queste tre parole che, in qualche modo, sintetizzano un importante cambiamento culturale, erano diventate per gli allora moralisti berlingueriani sintesi di un disprezzo morale anticraxiano e antiberlusconiamo. Da una parte loro, i limpidi, i puri comunisti e dall’altra la nuova avanzante immorale cultura ed economia fracassona, volgare, indecente.
E’ evidente che la nuova cultura e il nuovo lavoro connessi alla moda, alle sfilate, ai laboratori, ai negozi di moda portavano con sé un fervore che comprendeva, con le sfilate, anche le indossatrici, le aspirante indossatrici, le divette, le esibizioni, i fotografi, le notti nei locali con movida notturna. Ma questo non era il contorno di una nuova economia capace di creare grande ricchezza, lavoro qualificato, prodotti ad alti valore aggiunto, turismo di lavoro, bellezza, arte, ecc.; capace di elevare e portare il nome italiano in tutto il mondo. Un contorno, creatore, esso stesso di turismo e di ricchezza; quello stesso contorno che immortalato da Fellini col nome DOLCE VITA caratterizzava la fiorente produzione cinematografica italiana del dopoguerra, tanto amata dai confusi puri come se fosse tutt’altra cosa rispetto a quella della “Milano da bere”

Abbiamo citato Cafonal. Cafonal è uno dei tanti aggettivi inventati dalla cultura antiberlusconiana per caratterizzare la volgarità berlusconiana. Non si può certo parlare di “cultura Berlusconiana” perché la cultura berlusconiana non esiste come cultura per i suoi coltissimi nemici.” Compaiono i termini non-cultura, anticultura, sottocultura e veniamo ributtati all'indietro di decenni quando alle elementari maestri e maestre per sgridarti quando, secondo loro,  non avevi studiato ti redarguivano con frasi del tipo “Mica vuoi crescere come un negro dell’Africa.”, “Di questo passo farai al massimo lo Zulu”.
Fummo poi indottrinati da una nuova idea che esecrava quella appresa dalle maestre secondo cui l’idea di una cultura (la nostra, quella della civiltà occidentale) contrapposta a una incultura (quella delle tribù, della barbarie, della negritudine, ecc.) era profondamente ingiusta, errata, connotata di razzismo e di imperialismo. Si affermava così la dignità di tutte le culture.
Ebbene - potenza di Berlusconi – tutto è cultura: i vini, bere vino, il cibo, la cucina, la coltivazione dell’orto, le canzonette, i romanzi, gialli, rosa, ecc. Tutto, dicevamo, è cultura tranne quella del berlusconismo. Siamo tornati ai tristi tempi degli Zulu sostituendo a Zulu i baluba “berlusconidi”.

Per le elite e le aggregazioni elite sinistra radical chic esiste una solo cultura, la loro. La cultura è quella che loro considerano cultura, fosse anche la conoscenza della loro cacca. I confini li fissano loro, questo sì questo no. Sono cultura i teatri, le mostre, le conferenze, i convegni, i bachi da seta, l’inseminazione artificiale dei coleotteri, la preparazione dei bignè della Pomerania. Tutto è cultura, tutta quella approvata da questi cavalieri della cultura, tutto ciò che passa nelle loro cervici, nei loro intestini, nei loro stomaci, nelle loro pance, tutto tranne ciò che ieri riguardava Berlusconi e oggi i nuovi infami populismi, i nuovi mostri, i nuovi, barbare, i nuovi Attila, che invece la cultura, la democrazia, la civiltà la distruggono. La fine del mondo civile, l’apocalisse!
Inchiniamoci noi, stupidi ignoranti, inchiniamoci ai libri letti dalla mammellata ministra dei beni culturali, con villa in Kenia, frequentatrice delle feste, in quello stesso Kenia, dell’orrido cafonal Briatore e pronta a smentire, bugiardamente, quella sua presenza fino a che una fotografia ridicolizzava la sua menzogna, inchiniamoci alla già ministra della cultura lei, che si diceva avesse in vita sua letto ben cinque libri e stesse coraggiosamente leggendo il sesto e che ora inquina la seggiola di amministratrice niente di meno che del Maxi; una sedia donde diceva lei avrebbe disseminato la sua cultura del tutto gratuitamente ma alla quale fu lestamente riconosciuto l’abbondante appannaggio da aggiungere al suo lussuoso assegno pensionistico come ex parlamentare e lettrice di libri.
Meraviglioso pacchetto confezionato subdolamente dai suoi compagni di partito e dalle elite culturali associate di cui non si vergognano neppure.
L’avesse fatta Berlusconi una cosa simile, l’avessero fatta i Berlusconidi una cosa simili, giornalisti, giudici, società civile, popolo dei fax, girotondisti, sarebbero insorti facendo un baccano del diavolo, un baccano da barbari, da squilibrati, come i tanti messi in moto da questa ammorbante elite che si muoveva per molto meno. Bastò un muro caduto a Pompei per una sceneggiata isterica contro il ministro berlusconiano fino a farlo dimettere ma quello era un muro speciale. I muri continuarono a cadere a Pompei ma nessuno si mosse contro i ministri non berlusconidi.
E dopo questo indegno scoppio d’ira populista ecco che veniamo colti dal pentimento. Ecco che abbiamo dimenticato che tutto ciò che fanno la sinistra e i loro compagni di merenda è bene, bene per loro e bene per noi tutti e quindi facciamo ammenda e ripetiamolo che loro sono ecc. ecc.

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