giovedì 30 ottobre 2014

MUSICA RUSSA - Ezio Saia



La musica Russa 

Boris, La Kovancina di Musorgkij, l’Angelo di fuoco di Prokokiev, la Lady Macbheth del distretto di Minsk di Sostakovic Le Nozze e l’Oedipus Rex di Stravinskij, Non c’è niente da fare, la Russia è il gigante musicale degli ultimi due secoli. E non ho neppure citato il balletto e i poemi sinfonici! Ciajkovski, Rimski Korsakov, Borodin, Prokokiev. La musica orchestrale, le sinfonie. Ancora da ribadire: la musica russa è il gigante che attraversa l’otto e il novecento.
Certo, se ascolti L’angelo di fuoco, senti la modernità il ritmo, il sentimento, la forza. Ma non il fuoco!
Il fuoco c’è solo nei grandi incendiari: Wagner, Verdi, ecc. Musorgskij su tutti.


mercoledì 29 ottobre 2014

I GUSTI DI STRAVINSKIJ - MUSICA - Ezio Saia



 I gusti di Stravinskij - Musica 

Detestava Wagner e Strauss, e con loro, i maledetti leitmotiv. Ma non era certo tenero con i grandi Russi Storceva la bocca anche verso il grande Musorgskij. Neppure l’opera del suo grande amico Debussy riusciva a soddisfarlo. Debussy non esitava a indicare Petrushka come una delle migliore opere mai scritte mentre lui di fronte a chi s’incantava di fronte alla bellezza di Pelléas et Mélisande dichiarava di preferire al duplicato (il Pelleas) l’originale (il Boris di Musorgskij) che non gli piaceva più di tanto, come gli piacevano poco le opere degli altri russi del gruppo dei cinque, compreso quelle del suo maestro Rimskij Korsakov.
Quali musiche gli piacevano in definitiva? Ciaikovskij e Verdi e di Verdi solo le opere popolari come Aida, Rigoletto, Traviata. Le amava per la loro istintiva forza e scuoteva il capo di fronte a Otello e a Falstaff dove, a suo avviso, il colosso Verdi si era arreso a scimmiottare il grande incantatore Wagner. Tra le opere di Verdi prediligeva il Rigoletto.
I suoi giudizi stavano agli antipodi rispetto ai gusti elitari aristocratici dalla società esteticamente civile e dotata di aristocratiche puzze sotto nasi sensibilissimi, nasi aristocraticissimi, nasi civilissimi, nasi greci e nobili. In seguito modificò il suo Giudizio, riabilitò il Falstaff che divenne la sua opere preferita ma non Wagner e non Strauss.
Non amava, e la cosa era palese e ben risaputa, Schomberg. Pare che i due non volessero neppure incrociarsi e che si evitassero con cura. Mentre il secondo si lanciava verso l’atonalità completa e programmatica e la portava fino all’ascetismo, il primo cominciava il suo viaggio verso il passato, lungo l’opera barocca, verso i madrigalisti, verso la classicità dell’ Oedipus Rex, verso il grande Gesualdo da Venosa e ancora più giù a sentire e imparare dai Gabrieli a Venezia nella Basilica di San Marco.
Poi di colpo la conversione alla dodecafonia. Ma non secondo tutti. Molti videro in quelle opere un altro passo verso i modi del medioevo. Io non ho certo le conoscenze tecniche per dire chi ha ragione, ma mi pare più probabile la seconda,




venerdì 24 ottobre 2014

DIALOGHI TRA PADRE E FIGLIO - di Giancarlo Gramaglia

DIALOGHI TRA PADRE E FIGLIO 
di Giancarlo Gramaglia

LA COPERTINA DEL LIBRO  DIALOGHI TRA PADRE E FIGLIO

Questa non può essere e non è una recensione estetica degli splendidi quadri, delle sculture, dei bei giocattoli di Ettore Gramaglia. Non lo è perché non sono un critico estetico e le mie osservazioni sarebbero poco di più dei “MI PIACE” e “NON MI PIACE” che compaiono su Facebook. Non lo è e deve esserlo perché il splendido libro pieno d’amore di cui parlerò è il distillato di un dialogo durato tutta la vita di convivenza fra padre e figlio e proseguito dopo la morte. Un dialogo fra il padre pittore, Ettore Gramaglia e il figlio psicanalista Giancarlo Gramaglia.
Innanzitutto esprimo tutta l'ammirazione per l'enormità dell'opera. Solo un grande amore poteva spingere un figlio alla infinita battaglia di aprire scatoloni, faldoni vecchi di decenni, leggere le decine e decine di carte, datarle e interpretarle. Riconoscere o far riconoscere decine di volti e di fotografie, rintracciare le parole, le allusioni ai quadri, identificarli, rincorrere le opere regalate, fotografarle, commentarle. Un colossale Puzzle che solo in virtù di un grande amore poteva essere ricomposto.

Il loro incontro e i loro dialoghi testimoniano il tempo della memoria, i ricordi, il tempo che fu e il ripiegarsi del figlio alla ricerca di quel tempo da riconquistare spingendosi oltre la memoria dei propri ricordi, oltre la memoria dei momenti passati insieme, delle parole e dei silenzi, per appoggiarsi alle tracce e ai segni visibili che il padre ha lasciato appesi alle pareti e al soffitto, non perché fossero venduti e monetizzati giacchè non erano stati fatti a questo fine ma come attività di vita, come parole visive da conservare con cura. I bei quadri, le sculture, i mobili, i giocattoli costruiti dal padre ora sono, essi stessi, parole del dialogo che fu e che si rinnova nel ricordo contaminato dalla commozione.
Tutto ciò traspare nel libro dove la personalità pur forte del figlio non deve soverchiare e non soverchia  affatto quella del padre, dove la dottrina del figlio, psicanalista attivo e di successo, non deve inquinare e non inquina affatto il ricordo del padre. Parlano le fotografie dei quadri, parlano i ricordi ed è giusto che sia così.

L’arabesco dei ricordi dilaga come un mare quando si dispone di tracce così vaste come quegli scritti, quegli appunti, quei quadri, quei giocattoli, quelle sculture: una miriade di tasselli che vanno a comporre un comunque incompleto puzzle divenuto nel tempo una trama densa di sentimenti, quasi il ritrovamento di una casa di affetti, di una casa simbolica, in cui padre e figlio vivono e convivono con i loro pensieri, con le raccomandazioni, le parole ricordate, quelle scritte, le filastrocche, le visite degli amici. Amici che brindano, che parlano, che guardano e commentano col padre e col figlio non solo i quadri ma il tempo che fu. Un tempo trasformato in permanenza, in “durata” bersgoniana, un tempo “ritrovato” come il tempo di Proust, che in parte, solo in parte, solo in minima parte, può giungere e fissarsi sulla pagina, perché ci sono sentimenti che possono essere nominati, evocati ma non descritti, perché il linguaggio come ci ricorda Heidegger, diventa “indigente” e perché, come afferma Wittgenstein, i sentimenti sono come i gusti e nessuno è mai riuscito o riuscirà a descrivere i vari gusti dell’amaro e del dolce.

E’ normale quindi che i ricordi presentino piatti colmi di felicità e commozione. E’normale che ogni tassello diventi emozione in sé stesso e nel suo trovare una sistemazione in quel puzzle che, pur sempre incompleto, diventa richiamo e indicazione di percorrenza  per sé e per gli altri. La casa simbolica è fatta di pareti e di un tetto ed è bello rifugiarsi nella casa dove è tornata viva la presenza di un padre ritrovato.
La filosofia del figlio compare in margine nel riconoscere che “Oggi è un bel tempo: è un tempo ritrovato, è un beneficio riconosciuto.” (p.11) nel sorprendersi: “Credevo che il mio mestiere mi avesse portato lontano, e poi rieccomi qui a dire ancora sulla funzione del padre, a darne testimonianza con atto d’amore.” (p. 11) Nel riconoscere quell’amore “che mi ci è voluto tanto per cogliere, ma da quando l’ho ritrovato non mi ha più abbandonato: è il tesoro del soggetto.” (p.11), nel riconoscere che “la possibilità del dialogo come incontro” è possibile” ma solo a condizione che sia “rispettata “la condizione di leggibilità data dal riconoscimento della legge propria di ciascuno.”, dove la condizione della leggibilità “è una sola: che nel soggetto avvenga la norma soggettiva e cioè che il soggetto lavori per individuare la condizione affinché le proprie regole siano riconosciute come tali in primo luogo da lui stesso.” (p.12)
Il profilo del racconto non si risolve in una acritica esaltazione del padre e questo è davvero un pregio, né si risolve in un eccessivo personalismo e questo è un altro pregio, né si riduce in una più o meno arida critica alla produzione artistica del padre Ettore in quanto artista pittore, che sarebbe non solo fuori luogo ma romperebbe la tensione emotiva che non è mai e mai dev’essere solo tensione emotiva di tipo artistico né solo commozione poetica indirizzata alle opere ma si risolve in un dialogo di cui tanto le opere che i ricordi, che i documenti assumono il senso di tracce, di testimonianze, di tessere, di punti fissi, di appigli per costruire quella casa simbolica che accoglie l’incontro fra padre e figlio.
 Nessuna arida invadenza teorica, quindi, che inquinerebbe e stonerebbe. Stonerebbe con la personalità dell’autore del libro, con la personalità del padre Ettore, con una filosofia di vita e con atteggiamenti e concezioni che, acriticamente romantiche, sono ancora pur così diffuse. 
L’arte è vista “come modo di vita non del genio, ma del semplice e del comune quotidiano.” (p.2) La pittura è vista “al servizio del piacere e della soddisfazione.” E così il dipingere, come l’operare, diviene  “la modalità del suo star bene perché alimenta il dialogo Io-Es, perché ritrova il soddisfacente equilibrio- squilibrio con la sua storia attraverso il canale espressivo dell’arte.”
 Il tema della dialettica Io-Es pur ricorrente non è, come ho detto poco sopra, invasivo proprio per permettere un dialogo non inquinato da alcuna teoria.
Non stupisce quindi che l’autore Giancarlo osservi senza alcun fastidio come possibile osservazione critica l’assenza di melanconia nella pittura del padre. Una osservazione simile, sì, che rivelerebbe proprio quell’inquinamento teorico di cui si sta parlando, che, dovuto a  residui di concettualità romantica rivelano solo, l’ignoranza dottrinale, i pregiudizi di una cultura ormai stantia, un’ideologia romantica che ha fatto il suo tempo, non perché fuori moda ma per l’esaltazione acritica e addirittura isterica che dominò una cultura.
Giustamente il curatore Giancarlo, uno degli attori del dialogo, puntualizza come l’operare artistico del padre lo conduca attraverso il suo lungo operare a esaltare quella pienezza di vita che non può essere confusa “con la banalità” né può accondiscendere al mito romantico che identifica nel "dolore" (p.67) e nella "confittualità"(67) la condizione della produzione di poesia." 
La cercheranno invano questi ideologi, questa sofferenza inquieta, in artisti come Piero della Francesca o come Canova per far due grandi nomi del passato e in quel grande artista piemontese, attivo negli stessi anni in cui Ettore Gramaglia operava, come Felice Casorati.
Sono pienamente d’accordo con l'autore: di volta in volta il succedersi delle culture provoca una affannoso tentativo di scrivere leggi generali sull’arte e sulla poesia derivate unicamente da un comune sentire del periodo, cioè da una “moda”. Si giunge addirittura non solo a legiferare circa ciò che è arte e ciò che non lo è, ma a prescrivere criteri di giudizio che non sono altro che espressioni della cultura egemone del periodo. L’arte non ha come fine la meraviglia come sostenevano il Marino e i marinisti né deve dimostrare di essere un prodotto di secrezione di inquiete e contorte sofferenze esistenziali, né deve urtare o spaesare o provocare come sostengono, fra gli altri, Adorno e Vattimo.
Ricostruendo di volta in volta con leggere pennellate l’ambiente culturale e di vita, il racconto del libro Dialoghi tra padre e figlio si snoda dall’apertura  pensione per cavalli del nonno di Ettore Gramaglia, alla frequentazione della scuola di ebanisteria, alla progettazione dei primi mobili, alla partecipazione alla prima guerra mondiale. L'autore si sofferma per raccontare con parole e immagini la stagione di formazione umana, civile, culturale e artistica in cui nascono e vengono coltivate le passioni per il teatro, per il disegno, per la pittura, per la fotografia. Con attenzione e partecipazione viene raccontata, per quanto è possibile ricostruire dai documenti, la sua intensa attività conviviale: le frequentazioni, le gite, i pranzi, le filastrocche, le esperienze d’interazione con gli amici.. Sono anni d’intensa attività, di grande vitalità che sfoceranno tanto nell’attività artistica e nei grandi quadri di quel periodo quanto nelle iniziative culturali e nell'attività di dirigente industriale nella cartiera De Medici.
Quando Ettore Gramaglia si sposa e nasce il figlio Giancarlo, continua intensa la vita nella sua nuova vita di marito e di padre. Sono anni di intensa attività culturale e artistica e compaiono gli stupendi, scolpiti, lavorati, miniati e colorati  giocattoli .
Giustamente il libro documenta questo periodo con entusiasmo e amore. E' lo stesso entusiasmo e amore che motivava il padre quando inventava e realizzava quei numerosi giocattoli. L’arte si fa vita e amore: ce lo dicono alle pagine 61, 62, 63, gli scranni, i soprammobili, gli animali in legno, pinocchio, gli sciatori. Il libro li documenta con la stessa attenzione con cui documenta e commenta i grandi quadri “Le comari” (argutamente rinominato, Parlesssere), i ritratti, i nudi femminile e La madonna di S. Girolamo di cui vengono raccontate, studiate e, nei limite del possibile, documentate la genesi, la storia e le varianti. L'autore continua a descrivere le opere non solo artisticamente con pur ispirata esposizione, ma sempre seguendo il filo arabescato dell’atmosfera, nello spirito del dialogo ininterrotto fra padre e figlio.



 Si giunge così al periodo dei paesaggi, delle frazioni, degli angoli di montagna, della case in pietra e in legno, l’amato legno, dove ciò che più sembra ispirare è l’immediatezza dell’emozione, resa con pennellate ampie, intuitive e veloci.

 Le figure umane sono poche ma l’operare umano, testimoniato dalle opere dell’uomo, dalla case, dalle chiesette, dalle decorazioni è quasi onnipresente e sfocia nel quadro a mio avviso più bello non solo di quell'intenso periodo ma forse di tutta l’attività pittorica quell'altare maggiore della chiesa di Antagnici parrocchia di S. Martino che nello splendore e nell'immediatezza della rappresentazione non ha nulla da invidiare a la Cathédrale de Rouen. le portail et la tour Saint-romain, effet du matin di Monet.
Sono arrivato alla fine del post, che non può mai per molte ragioni (non ultima quella dello spazio concesso), andare oltre una certa lunghezza e mi rendo conto di non aver parlato delle numerose e importanti attività culturali dell'autore Giancarlo Gramaglia. Non importa, scriverò un altro Post.





giovedì 23 ottobre 2014

Il VAMPIRO di MARSCHNER di E. Saia - MUSICA

Il Vampiro  di MARSCHNER  -  MUSICA 


Avevo due vecchi nastri con l’opera di MARSCHNER quasi completa e la sentivo con piacere mentre facevo altro. Questo succedeva molto tempo fa e oggi mi è ricapitato il nastro in mano. Tutta l’opera è bella e l’aria di Emy è eccezionale. L’opera è bella e ambigua. Ambigua come molte opere di quel periodo alle soglie del Romanticismo ma ancora radicate nel settecento (Non solo Mozart. Si pensì all’ambiguo romanticismo del Guglielmo Tell, a opere come La Vestale e Medea) per le quali sento un’attrazione quasi morbosa.


mercoledì 22 ottobre 2014

NOBEL A WAGNER di E. SAIA - M


 Nobel a Wagner -  M




DOMANDA:
l’avrebbero dato a Wagner il Nobel per la musica il professoroni dell’accademia svedese, ammesso che fosse già esistito il premio e, annualmente, venisse premiato anche un musicista?

PRIMA RISPOSTA: 
non l’avrebbero dato di certo a Wagner che era un così feroce antisemita!

SECONDA RISPOSTA:
Perché no?
Quegli elevati professori, quei sommi e culmini della eticità, idealità e società civile forse glielo avrebbero dato proprio perché era antisemita!


lunedì 20 ottobre 2014

MATEMATICA COME FANTASTICA STORIA DI ERESIE E DI ERETICI - SECONDA PARTE


LA PRIMA PARTE DELL'ARTICOLO A QUESTO INDIRIZZO


UNA STORIA DI ERESIE
MEDUSA

L’edificio di Cantor ebbe fra i matematici appassionati ammiratori e tenaci detrattori: per alcuni, tra cui Hilbert era un paradiso, per altri, tra cui Kroneker e Poincarè, un palazzo di orrori, un colosso dai piedi di argilla, quasi una truffa, per altri ancora, tra cui Herman Weyl una fonte di esaltazioni e di dubbi, quasi una moderna torre di Babele.
Dopo Cantor la matematica non poté più essere la stessa. L'illimitata serie degli Aleph era stata ottenuta con un procedimento dimostrativo non costruttivo e coloro, che in essa videro un parto mostruoso e fantastico, puntarono il loro dito accusatore su quella dimostrazione. (*)
In realtà era l'essenza stessa del ragionamento matematico che vacillava. Quando si afferma che questo tipo o quel tipo di inferenza o concettualità non sono di tipo matematico, si pone la domanda su quali siano le entità accettabili in matematica e quali siano i ragionamenti corretti, quali i criteri per giudicare di questi e di quelli. Questa domanda sulle entità e sui tipi di inferenza è tanto più inquietante perchè coinvolge e nasconde l'antico e irrisolto enigma ontologico su ciò che c’è in matematica e su cosa sia la matematica. La matematica è una scienza di scoperta o d’invenzione? Se è una costruzione come dobbiamo costruirla?

Borges pone Zenone e Kafka fra i creatori di labirinti, e Cantor fra i risolutori di quegli labirinti. E’ più probabile che Cantor appartenga sia agli uni che agli altri. In lui convissero il mistico che lo attirò nei labirinti dell'infinito ed il razionale che lo spinse a ordinarli. Sia Cantor che Dedekind fecero un uso intenso degli insiemi, ma mentre il secondo lo vedeva come un sacco di oggetti, il primo lo vedeva come un abisso.
Cantor pensava di essere solo un descrittore di quel mondo che solo l'infinita grandezza di Dio aveva creato. Per se stesso aveva riservato unicamente il merito di un'attenta lettura. Altri vi videro non una lettura fedele, ma una grandiosa ed onirica costruzione che qualcuno paragonò alla creazione del Kublai Khan di Coleridge. In questi diversi atteggiamento rivivono le opposte ontologie del realismo platonico e del nominalismo aristotelico.

Si è già detto che per Kronecher, potente professore a Berlino, l’edificio di Cantor non era che un indominabile marchingegno per la creazione di mostri.
Nella sua lotta contro Cantor, Kroneker fu impietoso. La sua vittoria fu pressoché totale. Le idee di Cantor, furono bollate dal mondo accademico come eretiche e errate. La sconfitta di Cantor, fu così cocente da indurlo alla più cupa depressione e al suicidio. Il contrasto fra i due fu, oltre che personale, uno scontro tra due ideali, tra due interpretazioni del mondo e della matematica.
Borges nel suo L’usignolo di Keats, ricordando come, secondo Coleridge, gli uomini nascano aristotelici o platonici, commenta:

“ Gli ultimi sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; i primi che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo gioco di simboli; per quelli è la mappa dell’universo.
Attraverso le latitudini e le epoche, i due antagonisti immortali cambiano di lingua e di nome: uno è Parmenide, Spinoza, Kant, Bradley; l’altro, Eraclito, Aristotele, Locke, Hume, William James.”

Coleridge e Borges avrebbero interpretato il caso Cantor-Kroneker, non come uno scontro fra quei caratteri singolari che furono Cantor e Kroneker, ma piuttosto come un episodio della guerra eterna che oppone la concettualità aristotelica a quella platonica, in loro incarnate.
In effetti, i grandi oppositori di Cantor, come Poincarè, Kroneker, Weyl e Brouwer, erano gli esponenti di una maniera nominalista di far matematica che in precedenza aveva annoverato fra i suoi credenti anche il grande Gauss.
Rivive nei seguaci di Cantor e nei suoi detrattori l'antico contrasto fra realismo e nominalismo, fra aristotelici e platonici, fra una concezione costruttivista e una descrittiva della matematica, un contrasto che in qual che modo impregna di se tutta la storia del pensiero in generale e che, dopo Cantor, emerge in maniera esplicita e consapevole anche in quella matematica, che molti suoi cultori ritenevano al sicuro da ogni corruzione filosofica.

La dimostrazione che Cantor aveva posto a base dell'esistenza dell'infinita serie degli Aleph non era costruttiva. Per tutti i matematici che, in una qualche maniera credono, in un universo in cui numeri classi e relazioni esistono, l'obiezione contro l'uso delle dimostrazioni non costruttive era irrilevante. Per gli altri, che vedono i numeri e le infinite geometrie come costruzioni, i procedimenti non costruttivi erano almeno sospetti. Mentre per i primi il mondo di Cantor è quasi irrefutabile per i secondi è possibile l'alternativa dell'accettazione o del rifiuto.
Ciò che li divideva erano gli insiemi infiniti. Ha senso parlare di infinito attuale in aritmetica o l’unico infinito ammissibile è quello potenziale? Come influisce nel ragionamento matematico e nei suoi risultati la risposta a questa domanda? La questione, non era solo di principio, ma coinvolgeva piani concettuali diversi e distinti che complicavano e articolavano enormemente l’ambito di ciò che si doveva considerare matematica.
Ritorniamo ora a Kroneker citando un brano fra tanti in cui espone le sue preoccupazioni:

“ Senza le ipotesi qui discusse più da vicino cioè senza la possibilità di potere fin da principio sostituire sistemi di moduli con infiniti elementi con sistemi di moduli con un numero finito di elementi, il concetto di sistemi di moduli con infiniti elementi non è applicabile. Se tuttavia lo si vuole proprio ammettere come una costruzione concettuale puramente logica, ciò deve accadere solo con la riserva che nelle particolari applicazioni aritmetiche di questo concetto, non sufficientemente precisato aritmeticamente, si dia in ogni singolo caso la dimostrazione che quelle ipotesi sono soddisfatte.[i].”

La tesi da cui è riportato il brano citato è che si possono innalzare tutte le costruzioni che si vogliono, finite o infinite, ma che è pur sempre necessario dimostrare che in queste strutture i numeri riescono ad abitare. Il problema di Kroneker è duplice: da un lato è un problema d’esistenza: se esistano entità che soddisfino quelle strutture; dall’altro è un problema d’interpretazione: se queste entità siano effettivamente riconducibili a quei numeri naturali che Dio ha donato agli uomini. Kroneker. Questo era infatti il suo pensiero: che tutta la matematica costruzione umana eretta a partire dai numeri naturali. donati da Dio agli uomini. Un dono minimo quindi, ma completo, necessario e sufficiente per costruire tutto l’edificio matematico. 
Forse in Kroneker agiva la suggestione della finitezza dell’uomo di fronte all’infinità di Dio. L’uomo non è Dio. Il pensiero di poter dominare “sistemi di moduli infiniti” non poteva che essere una superba un’illusione destinata al fallimento. 
Le preoccupazioni espresse da Kronecher inaugurarono una linea di pensiero che successivamente si dichiarò predicativista. L’intuizionismo inaugurato da Brouwer fu la corrente di pensiero che seppe trarre tutte le dovute conseguenze del pensiero predicativista.

E’ naturale che i predicativisti accettassero solo infinità numerabili (e quindi dominabili) e che comunque ogni passaggio costitutivo di enti dovesse avvenire con definizioni non ambigue. Chiamate in causa erano soprattutto quelle espressioni ambigue per eccellenza contenenti o il quantificatore universale "Tutti i...” o il quantificatore esistenziale “Esiste almeno un...”.
I quantificatori furono introdotti in logica da Frege e la loro interpretazione divenne subito un’ossessione. Frege e Russell, in coerenza con la fede platonico-realista di entrambi, li usarono con disinvoltura, senza porsi alcun drammatico interrogativi. 
Per Frege e per Russell le espressioni con quantificatori erano "vere" proposizioni munite di senso riguardo alle quali si poteva, almeno in linea di principio, poter giudicare circa la loro "verità" o la loro "falsità". Questa convinzione era osteggiata dai predicativisti. Sia Brouwer sia Hilbert sia Weyl negavano a queste espressioni lo statuto di proposizioni.
Che senso possiamo dare, sosteneva Weyl, ad espressioni del tipo "Esiste un x tale che..." quando non disponiamo di una procedura per produrre questo esemplare di cui affermiamo l'esistenza e di cui, quindi non sappiamo come possa essere costruito o, addirittura, se sia costruibile? "Se la conoscenza è un tesoro", dice Weyl, “la proposizione esistenziale è un documento che ci attesta l'esistenza del tesoro, ma non ci dice dove trovarlo"[ii]. Il che è come dire che è insensato asserire che quel tal numero se non si sa come costruirlo.
Brouwer, assai più radicalmente, negò validità incondizionata al principio del terzo escluso. A proposito del numero  ha senso chiedersi se sia razionale o irrazionale? Brouwer lo escludeva: visto che il numero  non può essere costruito.
In definitiva, come sintetizza Casari[iii]:

Il realista secondo i suoi avversari parla di tutti i numeri reali come se parlasse di tutti i numeri naturali e parla di tutti i numeri naturali come se parlasse di tutti i suoi libri; in realtà quei tre “tutti” hanno valori assai diversi [...] mentre l’intuizionista rifiuta ogni analogia fra i tre, il predicativista accetta tutto sommato questa analogia per gli ultimi due e la rifiuta solo per quanto riguarda il primo caso.”

A questo punto è inevitabile interrogarsi sulle conseguenze. Cambia l’estensione della matematica al variare di queste concezioni? Dobbiamo forse rinunciare ai paradisi cantoriani? Prima di rispondere a queste domande è opportuno tornare indietro, addirittura a Leibniz.
Con Leibniz prende corpo l’idea di una logica come calcolo completo, universalmente applicabile e in grado di decidere al sì o al no qualsiasi problema; una volta perfezionato, dice Leibniz, “ gli uomini di buona volontà, desiderosi di appianare una controversia su qualunque questione, impugneranno la penna e diranno: Calcolumus”[iv]. 
 Se i sogni di Leibniz avessero avuto successo avremmo veramente come risultato minimale una logica e una matematica meccaniche. Per fortuna era solo un sogno.
Fu Boole ad elaborare per primo un calcolo logico interpretabile come calcolo di classi o di proposizioni e furono Dedekind, Cantor e, soprattutto, Frege a dar corpo a un programma logicista
L’Analisi aveva ottenuto un grandioso sviluppo, ma i suoi successi erano “contaminati” dall’incomprensibile e oscura irrazionalità di quegli “infinitesimi” che costituivano la sua base concettuale. La situazione era così disastrosa, che fu facile, anche per un non addetto ai lavori come il vescovo Berkeley, provocato dall’astronomo Halley “sull’inconcepibilità delle dottrine cristiane” ritorcere quelle stesse accuse contro il celebrato Calcolo, rispondere:

Chiederò per me il privilegio del Libro Pensatore e mi prenderò la libertà di ricercare sull’oggetto, sui principi, e sul metodo di dimostrazione ammessi dai matematici del tempo presente, con la stessa disinvoltura con cui voi presumete di trattare i principi e i misteri della religione.

E dopo questo esordio, passare subito al punto dolente del concetto di infinitesimo. Che senso ha affermare che 9,8 + 4,9dt è la stessa cosa che 9,8?
O 4,9dt è qualcosa o è nulla se è nulla tutto il calcolo salta se è qualcosa le due espressioni non sono uguali. Forse i matematici intendono che 4,9dt è così piccolo da essere trascurabile? Si chiede Berkeley. Ma se è questo che intendono dove va a finire quel rigore inflessibile che li inorgoglisce e che li induce a sostenere che in rebus mathematicis errores quam minimi non sunt contemnendi? Insomma conclude Berkeley nessuna dottrina teologica è così razionalmente oscura e inconsistente come queste teorie matematiche. Se la teologia richiede la fede perchè è inconcepibile, allora che dire delle teorie dei matematici?

Con Cauchy e Weierstrass l’analisi matematica, mediante il concetto di limite che permise l’eliminazione dell’oscuro concetto di infinitesimo, cominciò ad emanciparsi dalla fisica, dalla geometria e dalla meccanica, diventando calcolo a se.
La fondazione dell’analisi su concetti aritmetici portò con se la convinzione che tutta la matematica fosse un corpo unico fondato, come Kroneker riteneva, sull’aritmetica. A questa grandiosa opera di unificazione e riduzione contribuirono soprattutto Peano e Dedekind che pervennero a risultati pressoché equivalenti.
Peano ricostruì la matematica su tre idee primitive ( Zero, numero, successore) e sui seguenti cinque postulati:
1. 0 è un numero,
2. il successore di un numero è un numero,
3. Due numeri non hanno lo stesso successore,
4. 0 non è il successore di alcun numero,
5. Qualsiasi proprietà che appartenga sia a 0 che al successore di qualsiasi numero che la possiede appartiene a tutti i numeri.
L’ultimo postulato è il principio d’induzione completa. Che la matematica dovesse fondarsi sul principio d’induzione era convinzione di tutti i matematici. Esso, indicando il regolare e illimitato succedersi dei numeri, garantisce che operazioni sui numeri, come la somma, abbiano sempre successo. 
L’opera di Peano poteva essere considerata un punto di approdo almeno per l’aritmetizzazione della matematica, ma mentre Peano lavorava alla riduzione della matematica all’aritmetica, Frege stava portando avanti il ben più ambizioso progetto di fondare l’aritmetica sulla logica.
 Frege riteneva che quei numeri di cui Peano aveva assiomatizzato i comportamenti, ponendoli come concetti primitivi, fossero in realtà già costruzioni logiche. 
 In questa convinzione era confortato anche dal fatto che gli assiomi di Peano definivano sì la serie dei numeri naturali, ma anche altre serie. Non solo quegli assiomi erano insufficienti a delimitare il concetto di numero, ma come venne dimostrato, nessuna serie di assiomi è in grado di definire la serie dei numeri naturali e solo quella. In pratica si può stringere quanto si vuole, ma non si saprà mai con precisione dire di cosa si sta parlando.

Il problema di Frege era quello di dare una definizione logica dei numeri. “Cos’è un numero?” si chiede Frege. Quando si parla di quattro cavalli bianchi, il senso di “quattro” e lo stesso del senso di “bianco”? Evidentemente no, risponde Frege. Il predicato ”bianco” si riferisce ad ogni singolo cavallo, ma non il termine “quattro”. Ha senso parlare di un gruppo di “quattro” cavalli. Di ogni cavallo diciamo sensatamente che è bianco e insensatamente che è “quattro”, del gruppo diciamo che è un quartetto e di ogni cavallo che è bianco. “Quattro” si riferisce non distributivamente a oggetti di un gruppo, ma al gruppo, anzi a tutti i quartetti. E’ ciò che tutti i quartetti hanno in comune.
Di questo passo Frege perviene alla definizione di numero cardinale come “classe di classi equipotenti”[v]. Il numero cardinale 0 diviene così la classe di tutte le classi per cui vale x¹x , l’1 la classe di tutte le classi equipotenti alla classe con unico membro lo 0  e così via. Queste definizioni paiono circolari perchè per definire un numero si deve citare il numero stesso, ma non è così per quanto è già stato detto circa il concetto di corrispondenza biunivoca. 
La costruzione della matematica con concetti logici che incorpora la costruzione di Cantor, dovuta a Frege ( Russell giunse in seguito e indipendentemente alle stesse conclusioni ) fu accolta con qualche entusiasmo e molte perplessità.
L’impianto filosofico di Frege e Russell era palesemente platonico-realista. Non stupisce, quindi, che non potesse essere accettata dai costruttivisti. L’ostilità era diretta, in primo luogo contro il tipo di impianto filosofico, in secondo luogo contro l’idea di ridurre la matematica alla logica e infine contro l’idea stessa di fondare la matematica All’opposizione Realismo/ predicativismo di sovrapponevano quella tra logicismo e antilogicismo e quella fra fondazionismo e antifondazionismo. Ai logicisti si opponevano i formalisti e a entrambi tutti coloro che in una matematica formalizzata, fondata e irreggimentata vedevano una matematica morta.
Sul generarsi e sul’agguerrirsi consapevole di queste diversità Russell nel 1903 s’imbatté nell’antinomia che porta il suo nome.
Una classe è propria quando non contiene se stessa come membro, impropria nel caso contrario. La classe di tutte le classi proprie è propria o impropria? Se è propria non contiene se stessa come membro e quindi non contiene tutte le classi proprie, se è impropria allora contiene se stessa e quindi contiene una classe impropria come membro e, quindi, non è la classe di tutte le classi proprie. Questa è l’antinomia di Russell. Dopo questa ne furono scoperte o riscoperte altre sette o otto. Una di questa è quella celeberrima del bugiardo la cui prima versione risale forse a Eulibide vissuto all’inizio del V I secolo A. C. è che si può condensare nell’enunciato:
“Io sono bugiardo”
E’ vera o falsa questa proposizione? Se si suppone che sia vera si conclude che è falsa, se la si suppone falsa si conclude che è vera. La sua antinomicità sta proprio in quell’essere falsa se vera e vera se falsa. 
L’antinomia disturbò fin dall’antichità i sonni di molti pensatori.

Teofrasto scrisse tre libri sull’argomento e Crisippo molti di più; forse ventotto. Quanto grande fosse il numero di persone che presero a cuore il problema in quel periodo lo si può desumere dal fatto che un logico, Filita di Coo (285 a.C.), morì per causa sua: “Viandante io sono Filita; l’argomento chiamato il Mentitore e le profonde meditazioni notturne mi condussero alla morte”.

Quando Frege ricevette la lettera di Russell che gli comunicava la scoperta dell’antinomia, stava per pubblicare il secondo volume dei suoi Grundgesezte. In appendice riportò la comunicazione di Russell con un commento che inizia con queste riflessioni:

“ Difficilmente ad un autore d’opere scientifiche può accadere qualcosa di più ingrato che vedere scosso uno dei fondamenti del suo edificio dopo che il lavoro è finito. [.....] Il fatto che “tutti coloro che, nelle loro dimostrazioni, abbiano fatto uso d’estensioni di concetti, di classi, di insiemi, sono nella mia stessa condizione”

L’antinomia fu considerata una catastrofe, perchè da una contraddizione si può inferire qualsiasi proposizione. A suo modo un’antinomia è quindi un orrore generatore di orrori che demolisce la teoria entro la quale viene generata.
Se per i logicisti la scoperta fu una catastrofe, per molti loro avversari fu appena una prova della loro follia: Poincarè scese dall’empireo dei suoi calcoli differenziali, per sottolineare che l’antinomia era il giusto castigo per coloro che avevano creduto nell’infinito attuale: “Non esiste l’infinito attuale, sentenziò, I cantoriani l’hanno dimenticato e sono caduti nella contraddizione.”[vi] Era difficile sostenere che l’antinomia del mentitore fosse dovuta all’infinito attuale, ma in generale i critici di Cantor avevano ragione, la sua concezione degli insiemi era troppo ingenua.
Quei veri e propri buchi neri delle antinomie furono visti da alcuni (predicativisti come Poincarè, intuizionisti come Brouwer) come l’occasione per condannare agli inferi tutta la barocca e infernale costruzione cantoriana mentre da altri come ostacoli che, mettendo in pericolo l’integrità dell’analisi, dovevano a tutti i costi essere superati. Sulle cause e sui rimedi il disaccordo era, però, profondo.
 Negli anni successivi (nel 1908 o poco prima) furono presentati diversi tentativi di soluzione di Brouwer, di Zermelo e di Russell. Queste proposte erano naturalmente determinate dal tipo di “vizio” individuato. I concettualisti, in generale, individuarono il “vizio” nelle definizioni impredicative, i realisti nel principio di comprensione.




[i]Kroneker 1886 p. 155
[ii]Weill
[iii]E.Casari, Questioni di filosofia matematica, Feltrinelli, 1964 p.139
[iv]La logique de Leibniz a cura di Couturat, 1901
[v] L’espressione è dovuta a Russell.
[vi]Le paradoxes da la logique RdMedM 1906

venerdì 17 ottobre 2014

WEINBAUM - ODISSEA MARZIANA

Weinbaum di Ezio Saia

Né negli Ugo né nell’antologia di Solmi sono presenti i pochi racconti scritti da Weinbaum. Non ricordo neppure un titolo e, forse, non è mai esistito ma quel nome, Weinbaum, lo avrò pur preso da qualche parte quando, molti anni fa, ho scritto: “Il miglior racconto di fantascienza lo ha scritto Weinbaum." Ricordo un marziano simpatico, un umano simpatico, un curioso essere che respirava silicio ed emetteva mattoni di sabbia. Bello, molto poetico, candido e semplice.

Ho controllato su Wikipedia e Weinbaum è effettivamente esistito ma è morto a 32 anni. Per questo è scomparso dalla scena letteraria. Il racconto di cui ho appena parlato s’intitola Odissea marziana e non posso neppure rileggerlo. Addio giovane Weinbaum, meritavi qualcosa di più.

giovedì 16 ottobre 2014

GIANCARLO E IL TRENO PER PARIGI

Giancarlo e il treno per Parigi

Con Giancarlo, da giovane, ho passato giornate belle, interessanti e allegre, costruendo apparecchiature elettroniche per l’Olivetti. Poi ci siamo persi di vista per parecchio tempo.
Quando, anni dopo, lo incontrai, era uno psicanalista affermato che dedicava molto tempo a studiare, ad aggiornarsi, ad alimentare dibattiti nel suo Laboratorio di Psicoanalisi.   Mi disse che tutti i sabati si prendeva il treno per Parigi dove partecipava a un seminario con Lacan. 
Quello era il vero Giancarlo, quello che conoscevo io! 
Una delle poche persone che, ad esempio, quando si parlava di politica accettava di parlare, non di politica spicciola o di personaggi o di eventi, ma di teorie politiche.

In questi giorni, ho assistito a una conferenza sulla Arendt tenuta nel suo Laboratorio da lui coi suoi compagni di laboratorio e mi sono ritrovato in disaccordo totale sui loro giudizi. Forse avrei dovuto accendere una discussione ma non è nel mio carattere. Tornerò su Giancarlo. Tornerò sulla Arendt.

mercoledì 15 ottobre 2014

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE - Ezio Saia - MUSICA



 Sogno di mezza estate - MUSICA


Risentita per caso Sogno di una notte di mezza estate. Che bei suoni! In ogni caso preferisco la musica con presenza di Voci. L’ho sempre preferita e ancor più oggi con l’acufene che è più occultato dalla vocale e strumentale che dalla sola strumentale. E’ un Peccato? Qualcuno dice di sì e che probabilmente mi perdo molto. Me lo dice anche un caro amico con cui parlo di musica e di cui parlerò.
Ciononostante continuo a preferire voce e voci con i suoni. Sento anche sinfonie concerti grossi balletti ma niente a paragone della quantità di musica cantata. Mi vien voglia di fare un elenco ma, per farlo, dovrei controllare tutte le grafie di inglesi, tedeschi, e slavi  e sarebbe una bella barba. Non questa sera anche se su internet ci sono molti siti con elenchi di compositori. Ma ora non ho voglia… Non ne ho proprio voglia


martedì 14 ottobre 2014

AUTORI DIMENTICATI: TOZZI FEDERICO - Ezio Saia - Letteratura
















TOZZI IL GRANDE DIMENTICATO
Questa notte pezzi del Parsifal e vecchi libri italiani. Del Parsifal racconterò un'altra volta perchè, con questi vecchi libri davanti agli occhi, debbo parlare di scrittori dimenticati.
Se dovessi fare un elenco di ingiustamente dimenticati comincerei da Federico Tozzi e Carlo Levi.
Se dovesi fare un elenco di giustamente dimenticati comincerei da Alvaro, Piovene, Pasolini
A metà sta Pavese. Con Pavese non sono mai entrato in sintonia. Non fa per me. Una bella estate l'ho finita a stento molti anni fa ed è stata l'ultimo libro di Pavese. Forse rileggerei le poesie ma non ho mai amato nè le poesie  né i racconti perché ho bisogno di grandi giochi, di grandi respiri, di lunghi articolarsi.
Tozzi mi è invece sempre piaciuto.Studiava psicologia e psicanalisi ed ha scritto saggi su questi argomenti ma nei due romanzi che ho letto Il podere e  Con gli occhi chiusi, questa erudizione non ha lasciato traccia. Per fortuna!
Clima claustrofobico e pochi personaggi ben dominati ma il complessivo risulta poco articolato e lascia poco respiro. Con tutto ciò il dramma c'è in entrambi e nella letteratura italiana del secolo scorso sono due piccoli miracoli. Non ho mai letto Tre croci.


lunedì 13 ottobre 2014

QUINE




Circa una teoria di Quine sul sapere umano.

L’olismo di Quine rappresenta forse la più moderna riproposta di una concezione unitaria del sapere come organizzazione; una concezione che però presenta anche i sintomi della sua negazione.
Quine ci rappresenta il complesso delle teorie sul mondo con un'immagine metaforica, che è contemporaneamente una teoria globale circa il sapere e una nuova proposta circa la forma e la struttura dell'albero del sapere.
 La sua teoria è di tipo olistico e in diretta concorrenza contro le teorie verificazioniste derivanti in qualche modo dal primo neopositivismo. Quine nega che un singolo enunciato o una singola teoria possano essere verificate e con ciò sostiene l'esistenza di una totale interconnessione del sapere.
Per Quine le nostre conoscenze, connesse in un sistema di teorie, costituiscono metaforicamente un campo che solo ai suoi bordi può essere verificato. Scienze come la logica e la matematica occupano le zone più interne del campo mentre le scienze naturali occupano le zone più periferiche; proprio quelle periferie, dove in qualche modo il campo tocca il mondo e può essere collaudato su questo.
Secondo la teoria di Quine, quei confronti ai bordi del campo possono confermare o non confermare le teorie del campo e quando non le confermano provocano un mutamento del nostro sapere e, quindi, della conformazione del campo. Questi assestamenti interessano in genere le teorie più periferiche e meno sicure, ma, qualora ciò non fosse possibile, l'assestamento dovrà avvenire su teorie più interne e più sicure.
La "sicurezza" di teorie più forti come la logica e la matematica dà loro una posizione quasi intoccabile. Noi siamo sicuramente molto riluttanti ad accettare modifiche alle teorie più certe anche perché le loro leggi fungono da presupposto per tutte le altre e una modifica di questi presupposti avrebbe conseguenze e metterebbe in gioco la validità di tutte le teorie del campo. Dovendo scegliere fra il modificare una regola logica e una legge naturale, è più semplice modificare la seconda perché la modifica della prima sconvolgerebbe tutto il campo e richiederebbe non solo una sua completa revisione.
Quine ha indubbiamente ragione quando sostiene la quasi intoccabilità di teorie forti come la logica e la matematica; noi siamo, infatti, sicuramente molto riluttanti ad accettare modifiche alle teorie più certe le cui leggi fungono da presupposto per il sapere in generale. Una modifica di questi principi logici, che solo all'inizio del XX secolo parevano montagne di solidità, viene riconosciuta dagli esiti di quelle stesse filosofie nate come costruzione teoriche per trasformare quelle solidità in eternità e universalità. Le logiche paraconsistenti, quelle alternative, lo stesso principio di "tolleranza" di Carnap non sono che le varie e multiformi affermazioni di questa nuova mentalità svincolata da quelle mitiche sicurezze. Lo stesso Bohr non si fece certo condizionare da timori di lesa maestà quando costruì il suo (incoerente da questo punto di vista) modello di atomo. Il principio di indeterminazione, l’accettazione di una luce che è insieme onda e corpuscolo, gettano lunghe ombre proprio su questi principi che in precedenza avevano funzionato così bene da creare il mito della loro universale ed eterna validità.
Pur nei suoi meriti la teoria di Quine ha però una profonda debolezza. Veri punti delicati sono l’ambito troppo limitato, la gerarchia delle discipline e quella verifica ai bordi sulla quale si basa tutta la struttura del campo.
L'ambito limitato si riferisce a ciò che Quine intende per sapere e conoscenza. Un sapere che non si estende oltre quel sapere da lui considerato scientifico. A questo limite, che esclude ogni valore conoscitivo alla metafisica, alla poesia, all'arte in generale, è collegata anche la scelta della logica e della matematica come discipline più sicure e più consolidate che occuperebbero, secondo Quine, le zone più interne del campo dove le eventuali modifiche si irrigidiscono. E' chiaro che Quine, pur adottando una visione pragmatista della conoscenza, si dimentica di quei paradigmi e preteorie che sono alla base del nostro ragionare preteorico e che costituiscono quelle configurazioni da cui si possono sviluppare tutte le discipline, anche quelle certe come la matematica e la logica.
Non meno critiche appaiono le verifiche ai bordi del campo: E’ chiaro che questo confronto deve avvenire con ben definite procedure e che, in queste, verranno coinvolti principi logici e scientifici; è pure chiaro che entreranno in gioco l'induzione, le leggi fondamentali della logica, leggi scientifiche generali e una varietà di strumenti di misura, a loro volta funzionanti secondo leggi fisiche la cui esplicitazione ha luogo all’interno di teorie assestate più o meno profondamente nel campo. Insomma esiste tutta una serie di 1) teorie e 2) di strutture preteoriche che entrano in gioco affinché quel "confronto" ai bordi del campo possa avvenire; in definitiva, i controlli funzionano proprio in conformità a quei principi che dovrebbero controllare. L’albero del sapere di Quine non soffre delle difficoltà dei tradizionali alberi del sapere, ma basa la sua efficacia su un circolo vizioso. 
Ben più grave appare la sua incapacità di vedere l’esistenza di preteorie, di saperi, di comportamenti la cui origine, formazione, integrazione si perde nella storia del nostro vivere; non un albero unitario del sapere ma un coacervo di teorie-credenze che comprende certamente principi, indirizzi e teorie che "occupano" i posti più interni del campo del sapere. Sono le preteorie, le abitudini, i linguaggi che, ad esempio, presentano alle teorie nobili e istituzionalizzate un mondo già colonizzato, già assimilato, già digitalizzato dai nostri lontani progenitori in cui è addivenuta e continua ad addivenire la convergenza tra un mondo articolato in oggetti e un linguaggio articolato in nomi e proposizioni.


domenica 12 ottobre 2014

FOTO TESSERA


UNA DOMENICA AL MUSEO 


Wladimiro Gorgia - AUTORITRATTO 

museo della società civile di Torino - sala  ritirata per uomini

Wladimiro Gorgia - AUTORITRATTO foto tessera

venerdì 10 ottobre 2014

WAGNER E IL FUOCO - MUSICA - Ezio Saia

WAGNER E IL FUOCO - Musica
Stravinskij nella sua predilezione per Verdi, rifiuta Strauss e Wagner (ma sembra considerare benignamente Puccini).
Non so che pensare; ho ascoltato gli ultimi quaranta minuti del primo e del secondo atto della Valchiria, sto ascoltando ora gli ultimi trenta quaranta minuti del terzo atto e non capisco come si possa arrivare a simili giudizi. Certo Wagner è un prestigiatore e un grande ammagliatore; ma sotto c' è vita, c'è dramma. Non solo: c'è il cielo, c'è l'inferno. Senti la forza dei sentimenti ma anche il fuoco della terra. Quello che scaturisce con l'incantesimo di Wotan lo senti covare per tutto l'Anello. Ne esce appena un po' e quel poco pare dare sfogo a una forza che altrimenti farebbe esplodere il mondo. Ma, anche se non esplode, continua, comunque, covare sotto la crosta e a far sentire la sua presenza.
L'addio di Wotan alla figlia è uno dei canti più belli mai scritti; il successivo motivo di Wotan con l'espandersi dell'incantesimo musicale è un lavoro da grande mago, da grande canaglia, da grande stratega musicale ma anche da grande tragico. E' musica vera che ti tocca.
Certo Verdi non brandeggia e arriva subito a farti vibrare il cuore. Entra dentro il tuo corpo, non si perde in carezze e non puoi che sentire quello che sente lui; ma Wagner abita non solo dentro di noi e dentro l'orchestra ma anche all'interno del mondo, nella fucina di Vulcano. Il suo fuoco, anche se modellato e magico, è fuoco primordiale: non solo musica ma fuoco.

giovedì 9 ottobre 2014

Calvino e la varietà dei gusti

Italo Calvino.

Romanzi non brutti, non belli.
Non fa per me. Lo ammiro, ho letto con piacere sincero Le città invisibili ma non sento in nessuno dei suoi testi la magia della grande letteratura.
Altri la sentono e penso che sia un mio difetto, anche se chiamarlo difetto è eccessivo. La ricchezza delle nostre società non sta nell'armonia dei giudizi e nel loro armonizzarsi in un un unico gusto sotto un comune e condiviso ombrello protettivo. Non nelle crudeltà intolleranti dell'armonia che non apprezza e non vede come ricchezze le critiche, i contrasti, le guerre di idee e di gusti ma nelle fatiche della democrazia. Anche nei gusti letterari.
Parlerò ancora di Calvino. Non tanto dei romanzi perché non sono evidentemente la persona giusta per metterne in evidenza i pregi ma del bel piccolo saggio Lezioni Americane.

mercoledì 8 ottobre 2014

ETTORE GRAMAGLIA e GIANCARLO GRAMAGLIA


ETTORE GRAMAGLIA E GIANCARLO GRAMAGLIA

Le Comari, olio su tavola  (76x120)
Così il commento del figlio Giancarlo:
Denominato anche le "comari"
in allusione alla loquacità, o "costumi portoghesi in confidenza".
L'uomo è un parlessere.
Esseri parlanti:
la dignità del dire sta sullo stesso piano della confidenza ed è la condizione del rapporto.E' un omaggio a J. Lacan e al suo lavoro.



Comincerò a parlare di quell'eccezionale figura che è stata Ettore Gramaglia e invierò questo mio scritto al Comune di Ciriè chiedendo che l’uomo Ettore Gramaglia, il cittadino ETTORE GRAMAGLIA, il pittore Ettore Gramaglia, sia onorato dedicandogli una via, una piazza, una sala nella città dove ha lavorato per anni in cartiera De Medici, diventandone apprezzato direttore, dove ha gestito il cinema Richiardi disegnando fondali, dirigendo spettacoli, producendo arredi e dove ha dipinto i suoi grandi, stupendi quadri. Ho fatto la stessa cosa per l’ing. Monateri coi comuni di San Francesco e San Maurizio, per l’ing. Enzo Mattiotto col comune di Caselle e lo farò per molti altri cittadini che hanno lasciato un’impronta nei paesi, nelle cittadine nelle regioni e nelle nazioni in cui hanno vissuto.

Non posso parlare di Ettore Gramaglia Pittore e scultore come critico d'arte perché non sono un critico d’arte ma parlerò sia dell’artista che dell’uomo, sia del Pittore che del padre per quanto l’ho conosciuto e per quanto un giovane di ventitré anni (questa è l’età in cui lo conobbi) può arrivare a comprendere un artista di grandi capacità, di grandi qualità umane, di grande intelligenza che ha attraversando due guerre mondiali e tutti i disastri di quelle guerre, che  ha contribuito alla rinascita di un paese a cui ha donato tutto il suo grande talento artistico e che, passati i settant’anni, manteneva inalterata l’intelligenza e la curiosità artistica e intellettuale che aveva caratterizzato la sua vita.

Lo conobbi quando conobbi il figlio Giancarlo e cominciai a frequentarlo nella sua bella casa arredata coi suoi mobili, con i suoi quadri con le sue sculture. Quando ci entrai la prima volta, ricordo ancora l'impressione che mi fece il grande quadro accanto al divano dove lui era seduto. E' quella meraviglia meraviglia d’espressività, colori e pennellate, dal titolo Le comari, la cui immagine fotografica ho inserito sopra a cappello di questo indegno POST. Un'immagine che neppur lontanamente conserva la vivida espressività e lo splendore dell'originale. Ancor oggi, dopo aver osservato le opere riportate nel libro curato da Giancarlo lo metto al di sopra di tutti gli altri  ma forse questa preferenza è dovuta al ricordo allo stupore e all'ammirazione provati. Amo molto anche

Mi ritrovai altre volte ad ammirare quel grande quadro nel salotto di casa, mentre il padre Ettore parlava tranquillo, leggeva il giornale o seduto sul tavolo combinava una delle sue tante creazioni coi legni e legnetti raccolti nelle lunghe passeggiare che faceva lungo le riva del torrente Stura. Certe volte andava in garage o in cantina a dipingerli a limarli, a incollarli e poi rivedevi quei legnetti trasformati in giocosi fantasmi dei boschi, che nel ricordo avvicino nella fantasia alle magiche sculture letterarie del mondo di mezzo dell’incredibile romanzo IL SIGNORE DEGLI ANELLI  di TOLKIEN   




Raccontavo come lo conobbi e neppure ora  riesco a descrivere il senso di meraviglia di fronte a tutta quella meraviglia di colori quando lo stesso Ettore, in non più di dieci minuti, mi illustrò con poche e frettolose parole, quasi con pudore,  quell'incredibile quantità e varietà di oggetti, mobili, quadri e colori. Era un uomo semplice e cordiale. Un carattere meno schivo avrebbe potuto diffondersi per giorni interi.

Quella prima volta conobbi anche sua moglie, una vecchietta non meno vivace del marito. Due vecchietti ancora vigorosi , aperti, allegri, tolleranti, borbottoni che, alla fortuna e alla gioia di vivere insieme per una vita, aggiungevano la fortuna di continuare insieme in vecchiaia la loro avventura.
Molto tempo dopo incontrai la signora in banca, alla Cassa di Risparmi di Ciriè, mentre allo sportello della cassa provvedeva alla scorta mensile di denaro. Quando il cassiere ebbe contato i biglietti davanti a lei, nella precisa composizione di tagli che lei aveva ordinato,  lei si mise di fianco alla cassa e, mentre gli altri clienti in coda svolgevano le loro pratiche, ricontò due volte con pazienza, quei soldi destinati a trasformarsi in arrosti, torte, e bistecche per Giancarlo, il re della casa e per Ettore il re amorevolmente detronizzato.  
Pensai allora che uomini eccezionali come Ettore Gramaglia possono inseguire le loro fantasie e produrle in pace solo se al loro fianco hanno una compagna che conta due volte i soldi prima di firmare e dimostra una tale puntualità, attenzione, sollecitudine verso la famiglia. Una sollecitudine attenta che liberava il marito verso i suoi spazi e lo agevolava nel suo volo che abbandonava il mondo dei banali relitti dei tronchi, dei rametti, delle pietre per entrare nel fantastico mondo degli elfi e delle divinità dei Boschi delle terre di mezzo.    


Non era un pittore ripetitivo come lo sono molti. Troppi, a mio avviso. Penso a Capogrossi con le sue forchette, penso a Mondrian con i suoi lego primitivi, penso a Campigli con le sue figurine di donne, a Morandi con le sue bottiglie e, tra i più recenti, penso alle sfere parzialmente devastate di Pomodoro che svelano al di là di un esterno perfetto e simmetrico un interno tormentato, agli igloo di   Mario Mertz e non mi piace questo tipo di creatività che, trovato un soggetto in cui ben si riflette la propria ispirazione, lì si fermano ripetendo la stessa sfera, la stessa figurina lo stesso simbolo in grandezze diverse e diverse configurazioni. Mi paiono copie o variazioni di copie e mi danno l’idea di una immobilità d’ispirazione, di un volontaria chiusura, di una sicura e comoda cella in cui chiudersi. Quando, dopo la sua morte, aprirono il deposito di Picasso trovarono quasi ventimila tra quadri piatti e sculture. Picasso come Matisse era un incendiario inarrivabile ma ve lo immaginate la monotonia dei magazzini se veramente fossero esistiti?! Ventimila quadri di forchette di Capogrossi? Ventimila sfere diversamente dentate di Pomodoro?  Quasi un incubo.

E’ vero che anche i anche classici disegnavano spesso gli stessi soggetti ma possiamo con piacere guardare i loro cataloghi. Ve lo immaginate che noia un catalogo di sfere sfondate e sfregiate  ? Ve lo immaginate un catalogo delle forchette di Capogrossi. Appena sopportabili sarebbero quelli di Campigli e di Morandi e questo lo dico perché sono un loro grande ammiratore.

Ettore Gramaglia, pittore autodidatta, seppe evolvere la sua arte e i suoi soggetti. Mi piacciono le composizioni del primo periodo e gli ultimi ritratti quando riusciva con tratto deciso forte tracciare i confini di un volto, come in questo quadro olio su tela, 40x50, dal titolo significativo L'infinito ... girotondo.



Io e Giancarlo,allora soci nella ditta LARA, portavamo avanti i nostri lavori ma lui non stava certo a guardare. Quando non avevamo problemi da risolvere e da sottoporgli, lui lavorava, costruiva mobili, (costruì tre sedie e le scolpì, un grande banco da lavoro che ancora oggi fa bella mostra nel cortile del pensiero del figlio Giancarlo, il banchetto di saldatura, uno sgabello e una quantità di mini sculture). Curioso, vivo e intelligente  qual era non si accontentava di vedere noi lavorare ma voleva anche capire. A un certo punto cominciò a studiare quella strana cosa che era l’oscilloscopio e non ebbe pace finchè, procuratosi un libro che lo illustrava, non potè cominciare a manovrarlo.

Spesso al mattino andava a passeggiare nei boschi lungo Stura, non solo per passeggiare  fra gli amati alberi ma per cercare pezzi di legno, rami caduti o depositati dalla corrente della Stura, in cui già intravedeva qualche forma che attendeva solo le sue mani magiche per uscire alla luce. Vidi nascere molti di quelle piccole sculture-composizioni che tutti possono ammirare, almeno in fotografia nel complesso libro Catalogo delle opere di ETTORE GRAMAGLIA, con sottotitolo DIALOGHI FRA PADRE E FIGLIO di Giancarlo Gramaglia, che lungi dall'essere solo un catalogo che presenta le opere, assume il significato di un incontro colloquiato tra padre e figlio, che opera e interpreta con amore un avvicinamento che attraversa il tempo. Ma di questo bello e intricato libro parlerò in un altro blog ad esso interamente dedicato.      

Padre e figlio ogni tanto facevano baruffa, brontolavano e battibeccavano. Erano normali interazioni padre e figlio,  quei normali contrasti generazionali di cui tanto si parla ma che io non sapevo interpretare come tali. Mi davano fastidio e mi dava fastidio che il figlio Giancarlo entrasse tanto facilmente in contrasto, un contrasto addirittura irrispettoso che allora non capivo come non capivo in genere i contrasti padre figlio cui mi capitava di assistere. Mio padre era morto quando io avevo quattordici anni e non ero passato attraverso quel tipo di esperienza che segna i rapporti padre-figlio durante l’adolescenza e la giovinezza. Oggi posso dire che invidiavo gli amici che avevano un padre e che, non potendo sperimentare e interfacciarmi con quel tipo d’interazioni che vedevo non solo tra Giancarlo e suo padre ma anche tra il mio amico Roberto Tancini e suo padre, non li capivo, non capivo la loro funzione, tacevo ed esecravo non certo i padri ma i figli che giudicavo ingiusti e irrispettosi verso i padri. 
Certamente pativo la mancanza di mio padre e certamente ad entrambi invidiavo quella importante presenza. Capii presto che non era affatto una mancanza di rispetto e d’affetto e il libro che Giancarlo ha scritto con tanta cura, il sito web con le opere del padre da lui curato, le parole con cui ne parla, sono testimonianze del grande affetto e della grande considerazione che provava. Una affetto e una considerazione che col tempo si sono ingigantiti. Giustamente ingigantiti.