lunedì 20 ottobre 2014

MATEMATICA COME FANTASTICA STORIA DI ERESIE E DI ERETICI - SECONDA PARTE


LA PRIMA PARTE DELL'ARTICOLO A QUESTO INDIRIZZO


UNA STORIA DI ERESIE
MEDUSA

L’edificio di Cantor ebbe fra i matematici appassionati ammiratori e tenaci detrattori: per alcuni, tra cui Hilbert era un paradiso, per altri, tra cui Kroneker e Poincarè, un palazzo di orrori, un colosso dai piedi di argilla, quasi una truffa, per altri ancora, tra cui Herman Weyl una fonte di esaltazioni e di dubbi, quasi una moderna torre di Babele.
Dopo Cantor la matematica non poté più essere la stessa. L'illimitata serie degli Aleph era stata ottenuta con un procedimento dimostrativo non costruttivo e coloro, che in essa videro un parto mostruoso e fantastico, puntarono il loro dito accusatore su quella dimostrazione. (*)
In realtà era l'essenza stessa del ragionamento matematico che vacillava. Quando si afferma che questo tipo o quel tipo di inferenza o concettualità non sono di tipo matematico, si pone la domanda su quali siano le entità accettabili in matematica e quali siano i ragionamenti corretti, quali i criteri per giudicare di questi e di quelli. Questa domanda sulle entità e sui tipi di inferenza è tanto più inquietante perchè coinvolge e nasconde l'antico e irrisolto enigma ontologico su ciò che c’è in matematica e su cosa sia la matematica. La matematica è una scienza di scoperta o d’invenzione? Se è una costruzione come dobbiamo costruirla?

Borges pone Zenone e Kafka fra i creatori di labirinti, e Cantor fra i risolutori di quegli labirinti. E’ più probabile che Cantor appartenga sia agli uni che agli altri. In lui convissero il mistico che lo attirò nei labirinti dell'infinito ed il razionale che lo spinse a ordinarli. Sia Cantor che Dedekind fecero un uso intenso degli insiemi, ma mentre il secondo lo vedeva come un sacco di oggetti, il primo lo vedeva come un abisso.
Cantor pensava di essere solo un descrittore di quel mondo che solo l'infinita grandezza di Dio aveva creato. Per se stesso aveva riservato unicamente il merito di un'attenta lettura. Altri vi videro non una lettura fedele, ma una grandiosa ed onirica costruzione che qualcuno paragonò alla creazione del Kublai Khan di Coleridge. In questi diversi atteggiamento rivivono le opposte ontologie del realismo platonico e del nominalismo aristotelico.

Si è già detto che per Kronecher, potente professore a Berlino, l’edificio di Cantor non era che un indominabile marchingegno per la creazione di mostri.
Nella sua lotta contro Cantor, Kroneker fu impietoso. La sua vittoria fu pressoché totale. Le idee di Cantor, furono bollate dal mondo accademico come eretiche e errate. La sconfitta di Cantor, fu così cocente da indurlo alla più cupa depressione e al suicidio. Il contrasto fra i due fu, oltre che personale, uno scontro tra due ideali, tra due interpretazioni del mondo e della matematica.
Borges nel suo L’usignolo di Keats, ricordando come, secondo Coleridge, gli uomini nascano aristotelici o platonici, commenta:

“ Gli ultimi sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; i primi che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo gioco di simboli; per quelli è la mappa dell’universo.
Attraverso le latitudini e le epoche, i due antagonisti immortali cambiano di lingua e di nome: uno è Parmenide, Spinoza, Kant, Bradley; l’altro, Eraclito, Aristotele, Locke, Hume, William James.”

Coleridge e Borges avrebbero interpretato il caso Cantor-Kroneker, non come uno scontro fra quei caratteri singolari che furono Cantor e Kroneker, ma piuttosto come un episodio della guerra eterna che oppone la concettualità aristotelica a quella platonica, in loro incarnate.
In effetti, i grandi oppositori di Cantor, come Poincarè, Kroneker, Weyl e Brouwer, erano gli esponenti di una maniera nominalista di far matematica che in precedenza aveva annoverato fra i suoi credenti anche il grande Gauss.
Rivive nei seguaci di Cantor e nei suoi detrattori l'antico contrasto fra realismo e nominalismo, fra aristotelici e platonici, fra una concezione costruttivista e una descrittiva della matematica, un contrasto che in qual che modo impregna di se tutta la storia del pensiero in generale e che, dopo Cantor, emerge in maniera esplicita e consapevole anche in quella matematica, che molti suoi cultori ritenevano al sicuro da ogni corruzione filosofica.

La dimostrazione che Cantor aveva posto a base dell'esistenza dell'infinita serie degli Aleph non era costruttiva. Per tutti i matematici che, in una qualche maniera credono, in un universo in cui numeri classi e relazioni esistono, l'obiezione contro l'uso delle dimostrazioni non costruttive era irrilevante. Per gli altri, che vedono i numeri e le infinite geometrie come costruzioni, i procedimenti non costruttivi erano almeno sospetti. Mentre per i primi il mondo di Cantor è quasi irrefutabile per i secondi è possibile l'alternativa dell'accettazione o del rifiuto.
Ciò che li divideva erano gli insiemi infiniti. Ha senso parlare di infinito attuale in aritmetica o l’unico infinito ammissibile è quello potenziale? Come influisce nel ragionamento matematico e nei suoi risultati la risposta a questa domanda? La questione, non era solo di principio, ma coinvolgeva piani concettuali diversi e distinti che complicavano e articolavano enormemente l’ambito di ciò che si doveva considerare matematica.
Ritorniamo ora a Kroneker citando un brano fra tanti in cui espone le sue preoccupazioni:

“ Senza le ipotesi qui discusse più da vicino cioè senza la possibilità di potere fin da principio sostituire sistemi di moduli con infiniti elementi con sistemi di moduli con un numero finito di elementi, il concetto di sistemi di moduli con infiniti elementi non è applicabile. Se tuttavia lo si vuole proprio ammettere come una costruzione concettuale puramente logica, ciò deve accadere solo con la riserva che nelle particolari applicazioni aritmetiche di questo concetto, non sufficientemente precisato aritmeticamente, si dia in ogni singolo caso la dimostrazione che quelle ipotesi sono soddisfatte.[i].”

La tesi da cui è riportato il brano citato è che si possono innalzare tutte le costruzioni che si vogliono, finite o infinite, ma che è pur sempre necessario dimostrare che in queste strutture i numeri riescono ad abitare. Il problema di Kroneker è duplice: da un lato è un problema d’esistenza: se esistano entità che soddisfino quelle strutture; dall’altro è un problema d’interpretazione: se queste entità siano effettivamente riconducibili a quei numeri naturali che Dio ha donato agli uomini. Kroneker. Questo era infatti il suo pensiero: che tutta la matematica costruzione umana eretta a partire dai numeri naturali. donati da Dio agli uomini. Un dono minimo quindi, ma completo, necessario e sufficiente per costruire tutto l’edificio matematico. 
Forse in Kroneker agiva la suggestione della finitezza dell’uomo di fronte all’infinità di Dio. L’uomo non è Dio. Il pensiero di poter dominare “sistemi di moduli infiniti” non poteva che essere una superba un’illusione destinata al fallimento. 
Le preoccupazioni espresse da Kronecher inaugurarono una linea di pensiero che successivamente si dichiarò predicativista. L’intuizionismo inaugurato da Brouwer fu la corrente di pensiero che seppe trarre tutte le dovute conseguenze del pensiero predicativista.

E’ naturale che i predicativisti accettassero solo infinità numerabili (e quindi dominabili) e che comunque ogni passaggio costitutivo di enti dovesse avvenire con definizioni non ambigue. Chiamate in causa erano soprattutto quelle espressioni ambigue per eccellenza contenenti o il quantificatore universale "Tutti i...” o il quantificatore esistenziale “Esiste almeno un...”.
I quantificatori furono introdotti in logica da Frege e la loro interpretazione divenne subito un’ossessione. Frege e Russell, in coerenza con la fede platonico-realista di entrambi, li usarono con disinvoltura, senza porsi alcun drammatico interrogativi. 
Per Frege e per Russell le espressioni con quantificatori erano "vere" proposizioni munite di senso riguardo alle quali si poteva, almeno in linea di principio, poter giudicare circa la loro "verità" o la loro "falsità". Questa convinzione era osteggiata dai predicativisti. Sia Brouwer sia Hilbert sia Weyl negavano a queste espressioni lo statuto di proposizioni.
Che senso possiamo dare, sosteneva Weyl, ad espressioni del tipo "Esiste un x tale che..." quando non disponiamo di una procedura per produrre questo esemplare di cui affermiamo l'esistenza e di cui, quindi non sappiamo come possa essere costruito o, addirittura, se sia costruibile? "Se la conoscenza è un tesoro", dice Weyl, “la proposizione esistenziale è un documento che ci attesta l'esistenza del tesoro, ma non ci dice dove trovarlo"[ii]. Il che è come dire che è insensato asserire che quel tal numero se non si sa come costruirlo.
Brouwer, assai più radicalmente, negò validità incondizionata al principio del terzo escluso. A proposito del numero  ha senso chiedersi se sia razionale o irrazionale? Brouwer lo escludeva: visto che il numero  non può essere costruito.
In definitiva, come sintetizza Casari[iii]:

Il realista secondo i suoi avversari parla di tutti i numeri reali come se parlasse di tutti i numeri naturali e parla di tutti i numeri naturali come se parlasse di tutti i suoi libri; in realtà quei tre “tutti” hanno valori assai diversi [...] mentre l’intuizionista rifiuta ogni analogia fra i tre, il predicativista accetta tutto sommato questa analogia per gli ultimi due e la rifiuta solo per quanto riguarda il primo caso.”

A questo punto è inevitabile interrogarsi sulle conseguenze. Cambia l’estensione della matematica al variare di queste concezioni? Dobbiamo forse rinunciare ai paradisi cantoriani? Prima di rispondere a queste domande è opportuno tornare indietro, addirittura a Leibniz.
Con Leibniz prende corpo l’idea di una logica come calcolo completo, universalmente applicabile e in grado di decidere al sì o al no qualsiasi problema; una volta perfezionato, dice Leibniz, “ gli uomini di buona volontà, desiderosi di appianare una controversia su qualunque questione, impugneranno la penna e diranno: Calcolumus”[iv]. 
 Se i sogni di Leibniz avessero avuto successo avremmo veramente come risultato minimale una logica e una matematica meccaniche. Per fortuna era solo un sogno.
Fu Boole ad elaborare per primo un calcolo logico interpretabile come calcolo di classi o di proposizioni e furono Dedekind, Cantor e, soprattutto, Frege a dar corpo a un programma logicista
L’Analisi aveva ottenuto un grandioso sviluppo, ma i suoi successi erano “contaminati” dall’incomprensibile e oscura irrazionalità di quegli “infinitesimi” che costituivano la sua base concettuale. La situazione era così disastrosa, che fu facile, anche per un non addetto ai lavori come il vescovo Berkeley, provocato dall’astronomo Halley “sull’inconcepibilità delle dottrine cristiane” ritorcere quelle stesse accuse contro il celebrato Calcolo, rispondere:

Chiederò per me il privilegio del Libro Pensatore e mi prenderò la libertà di ricercare sull’oggetto, sui principi, e sul metodo di dimostrazione ammessi dai matematici del tempo presente, con la stessa disinvoltura con cui voi presumete di trattare i principi e i misteri della religione.

E dopo questo esordio, passare subito al punto dolente del concetto di infinitesimo. Che senso ha affermare che 9,8 + 4,9dt è la stessa cosa che 9,8?
O 4,9dt è qualcosa o è nulla se è nulla tutto il calcolo salta se è qualcosa le due espressioni non sono uguali. Forse i matematici intendono che 4,9dt è così piccolo da essere trascurabile? Si chiede Berkeley. Ma se è questo che intendono dove va a finire quel rigore inflessibile che li inorgoglisce e che li induce a sostenere che in rebus mathematicis errores quam minimi non sunt contemnendi? Insomma conclude Berkeley nessuna dottrina teologica è così razionalmente oscura e inconsistente come queste teorie matematiche. Se la teologia richiede la fede perchè è inconcepibile, allora che dire delle teorie dei matematici?

Con Cauchy e Weierstrass l’analisi matematica, mediante il concetto di limite che permise l’eliminazione dell’oscuro concetto di infinitesimo, cominciò ad emanciparsi dalla fisica, dalla geometria e dalla meccanica, diventando calcolo a se.
La fondazione dell’analisi su concetti aritmetici portò con se la convinzione che tutta la matematica fosse un corpo unico fondato, come Kroneker riteneva, sull’aritmetica. A questa grandiosa opera di unificazione e riduzione contribuirono soprattutto Peano e Dedekind che pervennero a risultati pressoché equivalenti.
Peano ricostruì la matematica su tre idee primitive ( Zero, numero, successore) e sui seguenti cinque postulati:
1. 0 è un numero,
2. il successore di un numero è un numero,
3. Due numeri non hanno lo stesso successore,
4. 0 non è il successore di alcun numero,
5. Qualsiasi proprietà che appartenga sia a 0 che al successore di qualsiasi numero che la possiede appartiene a tutti i numeri.
L’ultimo postulato è il principio d’induzione completa. Che la matematica dovesse fondarsi sul principio d’induzione era convinzione di tutti i matematici. Esso, indicando il regolare e illimitato succedersi dei numeri, garantisce che operazioni sui numeri, come la somma, abbiano sempre successo. 
L’opera di Peano poteva essere considerata un punto di approdo almeno per l’aritmetizzazione della matematica, ma mentre Peano lavorava alla riduzione della matematica all’aritmetica, Frege stava portando avanti il ben più ambizioso progetto di fondare l’aritmetica sulla logica.
 Frege riteneva che quei numeri di cui Peano aveva assiomatizzato i comportamenti, ponendoli come concetti primitivi, fossero in realtà già costruzioni logiche. 
 In questa convinzione era confortato anche dal fatto che gli assiomi di Peano definivano sì la serie dei numeri naturali, ma anche altre serie. Non solo quegli assiomi erano insufficienti a delimitare il concetto di numero, ma come venne dimostrato, nessuna serie di assiomi è in grado di definire la serie dei numeri naturali e solo quella. In pratica si può stringere quanto si vuole, ma non si saprà mai con precisione dire di cosa si sta parlando.

Il problema di Frege era quello di dare una definizione logica dei numeri. “Cos’è un numero?” si chiede Frege. Quando si parla di quattro cavalli bianchi, il senso di “quattro” e lo stesso del senso di “bianco”? Evidentemente no, risponde Frege. Il predicato ”bianco” si riferisce ad ogni singolo cavallo, ma non il termine “quattro”. Ha senso parlare di un gruppo di “quattro” cavalli. Di ogni cavallo diciamo sensatamente che è bianco e insensatamente che è “quattro”, del gruppo diciamo che è un quartetto e di ogni cavallo che è bianco. “Quattro” si riferisce non distributivamente a oggetti di un gruppo, ma al gruppo, anzi a tutti i quartetti. E’ ciò che tutti i quartetti hanno in comune.
Di questo passo Frege perviene alla definizione di numero cardinale come “classe di classi equipotenti”[v]. Il numero cardinale 0 diviene così la classe di tutte le classi per cui vale x¹x , l’1 la classe di tutte le classi equipotenti alla classe con unico membro lo 0  e così via. Queste definizioni paiono circolari perchè per definire un numero si deve citare il numero stesso, ma non è così per quanto è già stato detto circa il concetto di corrispondenza biunivoca. 
La costruzione della matematica con concetti logici che incorpora la costruzione di Cantor, dovuta a Frege ( Russell giunse in seguito e indipendentemente alle stesse conclusioni ) fu accolta con qualche entusiasmo e molte perplessità.
L’impianto filosofico di Frege e Russell era palesemente platonico-realista. Non stupisce, quindi, che non potesse essere accettata dai costruttivisti. L’ostilità era diretta, in primo luogo contro il tipo di impianto filosofico, in secondo luogo contro l’idea di ridurre la matematica alla logica e infine contro l’idea stessa di fondare la matematica All’opposizione Realismo/ predicativismo di sovrapponevano quella tra logicismo e antilogicismo e quella fra fondazionismo e antifondazionismo. Ai logicisti si opponevano i formalisti e a entrambi tutti coloro che in una matematica formalizzata, fondata e irreggimentata vedevano una matematica morta.
Sul generarsi e sul’agguerrirsi consapevole di queste diversità Russell nel 1903 s’imbatté nell’antinomia che porta il suo nome.
Una classe è propria quando non contiene se stessa come membro, impropria nel caso contrario. La classe di tutte le classi proprie è propria o impropria? Se è propria non contiene se stessa come membro e quindi non contiene tutte le classi proprie, se è impropria allora contiene se stessa e quindi contiene una classe impropria come membro e, quindi, non è la classe di tutte le classi proprie. Questa è l’antinomia di Russell. Dopo questa ne furono scoperte o riscoperte altre sette o otto. Una di questa è quella celeberrima del bugiardo la cui prima versione risale forse a Eulibide vissuto all’inizio del V I secolo A. C. è che si può condensare nell’enunciato:
“Io sono bugiardo”
E’ vera o falsa questa proposizione? Se si suppone che sia vera si conclude che è falsa, se la si suppone falsa si conclude che è vera. La sua antinomicità sta proprio in quell’essere falsa se vera e vera se falsa. 
L’antinomia disturbò fin dall’antichità i sonni di molti pensatori.

Teofrasto scrisse tre libri sull’argomento e Crisippo molti di più; forse ventotto. Quanto grande fosse il numero di persone che presero a cuore il problema in quel periodo lo si può desumere dal fatto che un logico, Filita di Coo (285 a.C.), morì per causa sua: “Viandante io sono Filita; l’argomento chiamato il Mentitore e le profonde meditazioni notturne mi condussero alla morte”.

Quando Frege ricevette la lettera di Russell che gli comunicava la scoperta dell’antinomia, stava per pubblicare il secondo volume dei suoi Grundgesezte. In appendice riportò la comunicazione di Russell con un commento che inizia con queste riflessioni:

“ Difficilmente ad un autore d’opere scientifiche può accadere qualcosa di più ingrato che vedere scosso uno dei fondamenti del suo edificio dopo che il lavoro è finito. [.....] Il fatto che “tutti coloro che, nelle loro dimostrazioni, abbiano fatto uso d’estensioni di concetti, di classi, di insiemi, sono nella mia stessa condizione”

L’antinomia fu considerata una catastrofe, perchè da una contraddizione si può inferire qualsiasi proposizione. A suo modo un’antinomia è quindi un orrore generatore di orrori che demolisce la teoria entro la quale viene generata.
Se per i logicisti la scoperta fu una catastrofe, per molti loro avversari fu appena una prova della loro follia: Poincarè scese dall’empireo dei suoi calcoli differenziali, per sottolineare che l’antinomia era il giusto castigo per coloro che avevano creduto nell’infinito attuale: “Non esiste l’infinito attuale, sentenziò, I cantoriani l’hanno dimenticato e sono caduti nella contraddizione.”[vi] Era difficile sostenere che l’antinomia del mentitore fosse dovuta all’infinito attuale, ma in generale i critici di Cantor avevano ragione, la sua concezione degli insiemi era troppo ingenua.
Quei veri e propri buchi neri delle antinomie furono visti da alcuni (predicativisti come Poincarè, intuizionisti come Brouwer) come l’occasione per condannare agli inferi tutta la barocca e infernale costruzione cantoriana mentre da altri come ostacoli che, mettendo in pericolo l’integrità dell’analisi, dovevano a tutti i costi essere superati. Sulle cause e sui rimedi il disaccordo era, però, profondo.
 Negli anni successivi (nel 1908 o poco prima) furono presentati diversi tentativi di soluzione di Brouwer, di Zermelo e di Russell. Queste proposte erano naturalmente determinate dal tipo di “vizio” individuato. I concettualisti, in generale, individuarono il “vizio” nelle definizioni impredicative, i realisti nel principio di comprensione.




[i]Kroneker 1886 p. 155
[ii]Weill
[iii]E.Casari, Questioni di filosofia matematica, Feltrinelli, 1964 p.139
[iv]La logique de Leibniz a cura di Couturat, 1901
[v] L’espressione è dovuta a Russell.
[vi]Le paradoxes da la logique RdMedM 1906

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