LA PRIMA PARTE DELL'ARTICOLO A QUESTO INDIRIZZO
UNA STORIA DI ERESIE
MEDUSA |
L’edificio di Cantor ebbe fra i matematici
appassionati ammiratori e tenaci detrattori: per alcuni, tra cui Hilbert era un
paradiso, per altri, tra cui Kroneker e Poincarè, un palazzo di orrori, un
colosso dai piedi di argilla, quasi una truffa, per altri ancora, tra cui
Herman Weyl una fonte di esaltazioni e di dubbi, quasi una moderna torre di
Babele.
Dopo Cantor la matematica non poté più essere la
stessa. L'illimitata serie degli Aleph era stata ottenuta con un procedimento
dimostrativo non costruttivo e coloro, che in essa videro un parto mostruoso e
fantastico, puntarono il loro dito accusatore su quella dimostrazione. (*)
In realtà era l'essenza stessa del ragionamento
matematico che vacillava. Quando si afferma che questo tipo o quel tipo di
inferenza o concettualità non sono di tipo matematico, si pone la domanda su
quali siano le entità accettabili in matematica e quali siano i ragionamenti
corretti, quali i criteri per giudicare di questi e di quelli. Questa domanda
sulle entità e sui tipi di inferenza è tanto più inquietante perchè coinvolge e
nasconde l'antico e irrisolto enigma ontologico su ciò che c’è in matematica e
su cosa sia la matematica. La matematica è una scienza di scoperta o
d’invenzione? Se è una costruzione come dobbiamo costruirla?
Borges pone Zenone e Kafka fra i creatori di
labirinti, e Cantor fra i risolutori di quegli labirinti. E’ più probabile che
Cantor appartenga sia agli uni che agli altri. In lui convissero il mistico che
lo attirò nei labirinti dell'infinito ed il razionale che lo spinse a
ordinarli. Sia Cantor che Dedekind fecero un uso intenso degli insiemi, ma
mentre il secondo lo vedeva come un sacco di oggetti, il primo lo vedeva come
un abisso.
Cantor pensava di essere solo un descrittore di quel
mondo che solo l'infinita grandezza di Dio aveva creato. Per se stesso aveva
riservato unicamente il merito di un'attenta lettura. Altri vi videro non una
lettura fedele, ma una grandiosa ed onirica costruzione che qualcuno paragonò
alla creazione del Kublai Khan di Coleridge. In questi diversi atteggiamento
rivivono le opposte ontologie del realismo platonico e del nominalismo
aristotelico.
Si è già detto che per Kronecher, potente professore
a Berlino, l’edificio di Cantor non era che un indominabile marchingegno per la creazione di mostri.
Nella sua lotta contro Cantor, Kroneker fu
impietoso. La sua vittoria fu pressoché totale. Le idee di Cantor, furono
bollate dal mondo accademico come eretiche e errate. La sconfitta di Cantor, fu
così cocente da indurlo alla più cupa depressione e al suicidio. Il contrasto
fra i due fu, oltre che personale, uno scontro tra due ideali, tra due
interpretazioni del mondo e della matematica.
Borges nel suo L’usignolo di Keats, ricordando come, secondo Coleridge, gli uomini nascano
aristotelici o platonici, commenta:
“ Gli ultimi sentono che le
classi, gli ordini e i generi sono realtà; i primi che sono generalizzazioni;
per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo gioco di simboli;
per quelli è la mappa dell’universo.
Attraverso le latitudini e
le epoche, i due antagonisti immortali cambiano di lingua e di nome: uno è
Parmenide, Spinoza, Kant, Bradley; l’altro, Eraclito, Aristotele, Locke, Hume,
William James.”
Coleridge e Borges avrebbero interpretato il caso
Cantor-Kroneker, non come uno scontro fra quei caratteri singolari che furono
Cantor e Kroneker, ma piuttosto come un episodio della guerra eterna che oppone
la concettualità aristotelica a quella platonica, in loro incarnate.
In effetti, i grandi oppositori di Cantor, come
Poincarè, Kroneker, Weyl e Brouwer, erano gli esponenti di una maniera nominalista di far matematica che in
precedenza aveva annoverato fra i suoi credenti anche il grande Gauss.
Rivive nei seguaci di Cantor e nei suoi detrattori
l'antico contrasto fra realismo e nominalismo, fra aristotelici e platonici,
fra una concezione costruttivista e una descrittiva della matematica, un
contrasto che in qual che modo impregna di se tutta la storia del pensiero in
generale e che, dopo Cantor, emerge in maniera esplicita e consapevole anche in
quella matematica, che molti suoi cultori ritenevano al sicuro da ogni
corruzione filosofica.
La dimostrazione che Cantor aveva posto a base
dell'esistenza dell'infinita serie degli Aleph non era costruttiva. Per tutti i
matematici che, in una qualche maniera credono, in un universo in cui
numeri classi e relazioni esistono, l'obiezione contro l'uso delle
dimostrazioni non costruttive era irrilevante. Per gli altri, che vedono i
numeri e le infinite geometrie come costruzioni, i procedimenti non costruttivi
erano almeno sospetti. Mentre per i primi il mondo di Cantor è quasi
irrefutabile per i secondi è possibile l'alternativa dell'accettazione o del
rifiuto.
Ciò che li divideva erano gli insiemi infiniti. Ha
senso parlare di infinito attuale in aritmetica o l’unico infinito ammissibile
è quello potenziale? Come influisce nel ragionamento matematico e nei suoi
risultati la risposta a questa domanda? La questione, non era solo di
principio, ma coinvolgeva piani concettuali diversi e distinti che complicavano
e articolavano enormemente l’ambito di ciò che si doveva considerare
matematica.
Ritorniamo ora a Kroneker citando un brano fra tanti
in cui espone le sue preoccupazioni:
“ Senza le ipotesi qui
discusse più da vicino cioè senza la possibilità di potere fin da principio
sostituire sistemi di moduli con infiniti
elementi con sistemi di moduli con un numero finito di elementi, il
concetto di sistemi di moduli con
infiniti elementi non è applicabile. Se tuttavia lo si vuole proprio
ammettere come una costruzione concettuale puramente logica, ciò deve accadere
solo con la riserva che nelle particolari applicazioni aritmetiche di questo
concetto, non sufficientemente precisato aritmeticamente, si dia in ogni
singolo caso la dimostrazione che quelle ipotesi sono soddisfatte.[i].”
La tesi da cui è riportato il brano citato è che si
possono innalzare tutte le costruzioni che si vogliono, finite o infinite, ma
che è pur sempre necessario dimostrare che in queste strutture i numeri
riescono ad abitare. Il problema di Kroneker è duplice: da un lato è un
problema d’esistenza: se esistano entità che soddisfino quelle strutture;
dall’altro è un problema d’interpretazione: se queste entità siano
effettivamente riconducibili a quei numeri naturali che Dio ha donato agli
uomini. Kroneker. Questo era infatti il suo pensiero: che tutta la
matematica costruzione umana eretta a partire dai numeri naturali. donati da
Dio agli uomini. Un dono minimo quindi, ma completo, necessario e
sufficiente per costruire tutto l’edificio matematico.
Forse in Kroneker agiva la suggestione della
finitezza dell’uomo di fronte all’infinità di Dio. L’uomo non è Dio. Il
pensiero di poter dominare “sistemi di moduli infiniti” non poteva che essere
una superba un’illusione destinata al fallimento.
Le preoccupazioni espresse da Kronecher inaugurarono
una linea di pensiero che successivamente si dichiarò predicativista. L’intuizionismo
inaugurato da Brouwer fu la corrente di pensiero che seppe trarre tutte le
dovute conseguenze del pensiero predicativista.
E’ naturale che i predicativisti accettassero solo
infinità numerabili (e quindi dominabili) e che comunque ogni passaggio
costitutivo di enti dovesse avvenire con definizioni non ambigue. Chiamate in
causa erano soprattutto quelle espressioni ambigue per eccellenza contenenti o
il quantificatore universale "Tutti i...” o il quantificatore esistenziale
“Esiste almeno un...”.
I quantificatori furono introdotti in logica da
Frege e la loro interpretazione divenne subito un’ossessione. Frege e Russell,
in coerenza con la fede platonico-realista di entrambi, li usarono con
disinvoltura, senza porsi alcun drammatico interrogativi.
Per Frege e per Russell le espressioni con
quantificatori erano "vere" proposizioni munite di senso riguardo
alle quali si poteva, almeno in linea di principio, poter giudicare circa la
loro "verità" o la loro "falsità". Questa convinzione era
osteggiata dai predicativisti. Sia Brouwer sia Hilbert sia Weyl negavano a
queste espressioni lo statuto di proposizioni.
Che senso possiamo dare, sosteneva Weyl, ad
espressioni del tipo "Esiste un x tale che..." quando non disponiamo
di una procedura per produrre questo esemplare di cui affermiamo l'esistenza e
di cui, quindi non sappiamo come possa essere costruito o, addirittura, se sia
costruibile? "Se la conoscenza è un
tesoro", dice Weyl, “la
proposizione esistenziale è un documento che ci attesta l'esistenza del tesoro,
ma non ci dice dove trovarlo"[ii]. Il che è
come dire che è insensato asserire che quel tal numero se non si sa come
costruirlo.
Brouwer, assai più radicalmente, negò validità
incondizionata al principio del terzo escluso. A proposito del numero ha senso chiedersi se
sia razionale o irrazionale? Brouwer lo escludeva: visto che il numero non può essere
costruito.
In definitiva, come sintetizza Casari[iii]:
Il realista secondo i suoi
avversari parla di tutti i numeri reali come se parlasse di tutti i numeri
naturali e parla di tutti i numeri naturali come se parlasse di tutti i suoi
libri; in realtà quei tre “tutti” hanno valori assai diversi [...] mentre
l’intuizionista rifiuta ogni analogia fra i tre, il predicativista accetta
tutto sommato questa analogia per gli ultimi due e la rifiuta solo per quanto
riguarda il primo caso.”
A questo punto è inevitabile interrogarsi sulle
conseguenze. Cambia l’estensione della matematica al variare di queste
concezioni? Dobbiamo forse rinunciare ai paradisi cantoriani? Prima di
rispondere a queste domande è opportuno tornare indietro, addirittura a
Leibniz.
Con Leibniz prende corpo l’idea di una logica come
calcolo completo, universalmente applicabile e in grado di decidere al sì o al
no qualsiasi problema; una volta perfezionato, dice Leibniz, “ gli uomini di buona volontà, desiderosi di
appianare una controversia su qualunque questione, impugneranno la penna e
diranno: Calcolumus”[iv].
Se i sogni di
Leibniz avessero avuto successo avremmo veramente come risultato minimale una
logica e una matematica meccaniche. Per fortuna era solo un sogno.
Fu Boole ad elaborare per primo un calcolo logico
interpretabile come calcolo di classi o di proposizioni e furono Dedekind,
Cantor e, soprattutto, Frege a dar corpo a un programma logicista.
L’Analisi aveva ottenuto un grandioso sviluppo, ma i
suoi successi erano “contaminati” dall’incomprensibile e oscura irrazionalità
di quegli “infinitesimi” che costituivano la sua base concettuale. La
situazione era così disastrosa, che fu facile, anche per un non addetto ai
lavori come il vescovo Berkeley, provocato dall’astronomo Halley
“sull’inconcepibilità delle dottrine cristiane” ritorcere quelle stesse accuse
contro il celebrato Calcolo, rispondere:
Chiederò per me il
privilegio del Libro Pensatore e mi prenderò la libertà di ricercare
sull’oggetto, sui principi, e sul metodo di dimostrazione ammessi dai
matematici del tempo presente, con la stessa disinvoltura con cui voi presumete
di trattare i principi e i misteri della religione.
E dopo questo esordio,
passare subito al punto dolente del concetto di infinitesimo. Che senso ha
affermare che 9,8 + 4,9dt è la stessa
cosa che 9,8?
O 4,9dt è
qualcosa o è nulla se è nulla tutto il calcolo salta se è qualcosa le due
espressioni non sono uguali. Forse i matematici intendono che 4,9dt è così piccolo da essere
trascurabile? Si chiede Berkeley. Ma se è questo che intendono dove va a finire
quel rigore inflessibile che li inorgoglisce e che li induce a sostenere che in rebus mathematicis errores quam minimi
non sunt contemnendi? Insomma conclude Berkeley nessuna dottrina teologica
è così razionalmente oscura e inconsistente come queste teorie matematiche. Se
la teologia richiede la fede perchè è inconcepibile, allora che dire delle
teorie dei matematici?
Con Cauchy e Weierstrass l’analisi matematica,
mediante il concetto di limite che permise l’eliminazione dell’oscuro concetto
di infinitesimo, cominciò ad emanciparsi dalla fisica, dalla geometria e dalla
meccanica, diventando calcolo a se.
La fondazione dell’analisi su concetti aritmetici
portò con se la convinzione che tutta la matematica fosse un corpo unico
fondato, come Kroneker riteneva, sull’aritmetica. A questa grandiosa opera di
unificazione e riduzione contribuirono soprattutto Peano e Dedekind che
pervennero a risultati pressoché equivalenti.
Peano ricostruì la matematica su tre idee primitive
( Zero, numero, successore) e sui seguenti cinque postulati:
1. 0 è un numero,
2. il successore di un numero è un numero,
3. Due numeri non hanno lo stesso successore,
4. 0 non è il successore di alcun numero,
5. Qualsiasi proprietà che appartenga sia a 0 che al
successore di qualsiasi numero che la possiede appartiene a tutti i numeri.
L’ultimo postulato è il principio d’induzione
completa. Che la matematica dovesse fondarsi sul principio d’induzione era
convinzione di tutti i matematici. Esso, indicando il regolare e illimitato
succedersi dei numeri, garantisce che operazioni sui numeri, come la somma,
abbiano sempre successo.
L’opera di Peano poteva essere considerata un punto
di approdo almeno per l’aritmetizzazione della matematica, ma mentre Peano
lavorava alla riduzione della matematica all’aritmetica, Frege stava portando
avanti il ben più ambizioso progetto di fondare l’aritmetica sulla logica.
Frege
riteneva che quei numeri di cui Peano aveva assiomatizzato i comportamenti,
ponendoli come concetti primitivi, fossero in realtà già costruzioni
logiche.
In questa
convinzione era confortato anche dal fatto che gli assiomi di Peano definivano
sì la serie dei numeri naturali, ma anche altre serie. Non solo quegli assiomi
erano insufficienti a delimitare il concetto di numero, ma come venne
dimostrato, nessuna serie di assiomi è in
grado di definire la serie dei numeri naturali e solo quella. In pratica si
può stringere quanto si vuole, ma non si saprà mai con precisione dire di cosa
si sta parlando.
Il problema di Frege era quello di dare una
definizione logica dei numeri. “Cos’è un numero?” si chiede Frege. Quando si
parla di quattro cavalli bianchi, il senso di “quattro” e lo stesso del senso
di “bianco”? Evidentemente no, risponde Frege. Il predicato ”bianco” si
riferisce ad ogni singolo cavallo, ma non il termine “quattro”. Ha senso
parlare di un gruppo di “quattro” cavalli. Di ogni cavallo diciamo sensatamente
che è bianco e insensatamente che è “quattro”, del gruppo diciamo che è un
quartetto e di ogni cavallo che è bianco. “Quattro” si riferisce non distributivamente
a oggetti di un gruppo, ma al gruppo, anzi a tutti i quartetti. E’ ciò che
tutti i quartetti hanno in comune.
Di questo passo Frege perviene alla definizione di
numero cardinale come “classe di classi equipotenti”[v].
Il numero cardinale 0 diviene così la classe di tutte le classi per cui vale x¹x , l’1 la classe di tutte le classi
equipotenti alla classe con unico membro lo 0
e così via. Queste definizioni paiono circolari perchè per definire un
numero si deve citare il numero stesso, ma non è così per quanto è già stato
detto circa il concetto di corrispondenza biunivoca.
La costruzione della matematica con concetti logici
che incorpora la costruzione di Cantor, dovuta a Frege ( Russell giunse in
seguito e indipendentemente alle stesse conclusioni ) fu accolta con qualche
entusiasmo e molte perplessità.
L’impianto filosofico di Frege e Russell era
palesemente platonico-realista. Non stupisce, quindi, che non potesse essere
accettata dai costruttivisti. L’ostilità era diretta, in primo luogo contro il
tipo di impianto filosofico, in secondo luogo contro l’idea di ridurre la
matematica alla logica e infine contro l’idea stessa di fondare la matematica
All’opposizione Realismo/ predicativismo di sovrapponevano quella tra logicismo
e antilogicismo e quella fra fondazionismo e antifondazionismo. Ai logicisti si
opponevano i formalisti e a entrambi tutti coloro che in una matematica
formalizzata, fondata e irreggimentata vedevano una matematica morta.
Sul generarsi e sul’agguerrirsi consapevole di
queste diversità Russell nel 1903 s’imbatté nell’antinomia che porta il suo
nome.
Una classe è propria
quando non contiene se stessa come membro, impropria
nel caso contrario. La classe di tutte
le classi proprie è propria o impropria? Se è propria non contiene se stessa
come membro e quindi non contiene tutte
le classi proprie, se è impropria allora contiene se stessa e quindi contiene
una classe impropria come membro e, quindi, non è la classe di tutte le classi
proprie. Questa è l’antinomia di Russell. Dopo questa ne furono scoperte o
riscoperte altre sette o otto. Una di questa è quella celeberrima del bugiardo
la cui prima versione risale forse a Eulibide vissuto all’inizio del V I secolo
A. C. è che si può condensare nell’enunciato:
“Io sono bugiardo”
E’ vera o falsa questa proposizione? Se si suppone
che sia vera si conclude che è falsa, se la si suppone falsa si conclude che è
vera. La sua antinomicità sta proprio in quell’essere falsa se vera e vera
se falsa.
L’antinomia disturbò fin dall’antichità i sonni di
molti pensatori.
Teofrasto scrisse tre libri sull’argomento e
Crisippo molti di più; forse ventotto. Quanto grande fosse il numero di persone
che presero a cuore il problema in quel periodo lo si può desumere dal fatto
che un logico, Filita di Coo (285
a .C.), morì per causa sua: “Viandante io sono Filita; l’argomento chiamato il Mentitore e le
profonde meditazioni notturne mi condussero alla morte”.
Quando Frege ricevette la lettera di Russell che gli
comunicava la scoperta dell’antinomia, stava per pubblicare il secondo volume
dei suoi Grundgesezte. In appendice
riportò la comunicazione di Russell con un commento che inizia con queste
riflessioni:
“ Difficilmente ad un autore
d’opere scientifiche può accadere qualcosa di più ingrato che vedere scosso uno
dei fondamenti del suo edificio dopo che il lavoro è finito. [.....] Il fatto
che “tutti coloro che, nelle loro dimostrazioni, abbiano fatto uso d’estensioni
di concetti, di classi, di insiemi, sono nella mia stessa condizione”
L’antinomia fu considerata una catastrofe, perchè da
una contraddizione si può inferire qualsiasi proposizione. A suo modo
un’antinomia è quindi un orrore generatore di orrori che demolisce la
teoria entro la quale viene generata.
Se per i logicisti la scoperta fu una catastrofe,
per molti loro avversari fu appena una prova della loro follia: Poincarè scese
dall’empireo dei suoi calcoli differenziali, per sottolineare che l’antinomia
era il giusto castigo per coloro che avevano creduto nell’infinito attuale: “Non esiste l’infinito attuale,
sentenziò, I cantoriani l’hanno
dimenticato e sono caduti nella contraddizione.”[vi]
Era difficile sostenere che l’antinomia del mentitore fosse dovuta all’infinito
attuale, ma in generale i critici di Cantor avevano ragione, la sua concezione
degli insiemi era troppo ingenua.
Quei veri e propri buchi neri delle antinomie furono
visti da alcuni (predicativisti come Poincarè, intuizionisti come Brouwer) come
l’occasione per condannare agli inferi tutta la barocca e infernale costruzione
cantoriana mentre da altri come ostacoli che, mettendo in pericolo l’integrità
dell’analisi, dovevano a tutti i costi essere superati. Sulle cause e sui
rimedi il disaccordo era, però, profondo.
Negli anni
successivi (nel 1908 o poco prima) furono presentati diversi tentativi di
soluzione di Brouwer, di Zermelo e di Russell. Queste proposte erano
naturalmente determinate dal tipo di “vizio” individuato. I concettualisti, in
generale, individuarono il “vizio” nelle definizioni impredicative, i realisti
nel principio di comprensione.
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