DIALOGHI TRA PADRE E FIGLIO
di Giancarlo Gramaglia
LA COPERTINA DEL LIBRO DIALOGHI TRA PADRE E FIGLIO |
Questa non può essere e non è
una recensione estetica degli splendidi quadri, delle sculture, dei bei
giocattoli di Ettore Gramaglia. Non lo è perché non sono un critico estetico e
le mie osservazioni sarebbero poco di più dei “MI PIACE” e “NON MI PIACE” che
compaiono su Facebook. Non lo è e deve esserlo perché il splendido libro pieno
d’amore di cui parlerò è il distillato di un dialogo durato tutta la vita di
convivenza fra padre e figlio e proseguito dopo la morte. Un dialogo fra il
padre pittore, Ettore Gramaglia e il figlio psicanalista Giancarlo Gramaglia.
Innanzitutto esprimo tutta l'ammirazione per l'enormità dell'opera. Solo un grande amore poteva spingere un figlio alla infinita battaglia di aprire scatoloni, faldoni vecchi di decenni, leggere le decine e decine di carte, datarle e interpretarle. Riconoscere o far riconoscere decine di volti e di fotografie, rintracciare le parole, le allusioni ai quadri, identificarli, rincorrere le opere regalate, fotografarle, commentarle. Un colossale Puzzle che solo in virtù di un grande amore poteva essere ricomposto.
Il loro incontro e i loro
dialoghi testimoniano il tempo della memoria, i ricordi, il tempo che fu e il
ripiegarsi del figlio alla ricerca di quel tempo da riconquistare spingendosi
oltre la memoria dei propri ricordi, oltre la memoria dei momenti passati
insieme, delle parole e dei silenzi, per appoggiarsi alle tracce e ai segni
visibili che il padre ha lasciato appesi alle pareti e al soffitto, non perché
fossero venduti e monetizzati giacchè non erano stati fatti a questo fine ma come attività di vita, come parole visive da
conservare con cura. I bei quadri, le sculture, i mobili, i giocattoli
costruiti dal padre ora sono, essi stessi, parole del dialogo che fu e che si
rinnova nel ricordo contaminato dalla commozione.
Tutto ciò traspare nel libro dove
la personalità pur forte del figlio non deve soverchiare e non soverchia affatto quella del padre, dove la dottrina
del figlio, psicanalista attivo e di successo, non deve inquinare e non inquina affatto il ricordo del padre. Parlano le fotografie dei quadri, parlano i ricordi ed è
giusto che sia così.
L’arabesco dei ricordi dilaga
come un mare quando si dispone di tracce così vaste come quegli scritti, quegli
appunti, quei quadri, quei giocattoli, quelle sculture: una miriade di tasselli
che vanno a comporre un comunque incompleto puzzle divenuto nel tempo una trama densa di sentimenti, quasi il ritrovamento di una casa di affetti, di una
casa simbolica, in cui padre e figlio vivono e convivono con i loro pensieri, con
le raccomandazioni, le parole ricordate, quelle scritte, le filastrocche, le
visite degli amici. Amici che brindano, che parlano, che guardano e commentano col
padre e col figlio non solo i quadri ma il tempo che fu. Un tempo trasformato
in permanenza, in “durata” bersgoniana, un tempo “ritrovato” come il tempo di
Proust, che in parte, solo in parte, solo in minima parte, può giungere e
fissarsi sulla pagina, perché ci sono sentimenti che possono essere nominati,
evocati ma non descritti, perché il linguaggio come ci ricorda Heidegger,
diventa “indigente” e perché, come afferma Wittgenstein, i sentimenti sono come
i gusti e nessuno è mai riuscito o riuscirà a descrivere i vari gusti dell’amaro
e del dolce.
E’ normale quindi che i ricordi presentino
piatti colmi di felicità e commozione. E’normale che ogni tassello diventi
emozione in sé stesso e nel suo trovare una sistemazione in quel puzzle che, pur sempre
incompleto, diventa richiamo e indicazione di percorrenza per sé e per gli altri. La casa simbolica è
fatta di pareti e di un tetto ed è bello rifugiarsi nella casa dove è tornata
viva la presenza di un padre ritrovato.
La filosofia del figlio compare in margine nel riconoscere
che “Oggi è un bel tempo: è un tempo ritrovato, è un beneficio riconosciuto.” (p.11) nel sorprendersi: “Credevo che il mio mestiere mi avesse portato lontano, e poi
rieccomi qui a dire ancora sulla funzione del padre, a darne testimonianza con
atto d’amore.” (p. 11) Nel riconoscere quell’amore “che mi ci è voluto tanto per
cogliere, ma da quando l’ho ritrovato non mi ha più abbandonato: è il tesoro
del soggetto.” (p.11), nel riconoscere che “la possibilità del dialogo come incontro”
è possibile” ma solo a condizione che sia “rispettata “la condizione di
leggibilità data dal riconoscimento della legge propria di ciascuno.”, dove la
condizione della leggibilità “è una sola: che nel soggetto avvenga la norma
soggettiva e cioè che il soggetto lavori per individuare la condizione affinché
le proprie regole siano riconosciute come tali in primo luogo da lui stesso.” (p.12)
Il profilo del racconto non si
risolve in una acritica esaltazione del padre e questo è davvero un pregio, né si
risolve in un eccessivo personalismo e questo è un altro pregio, né si riduce
in una più o meno arida critica alla produzione artistica del padre Ettore in
quanto artista pittore, che sarebbe non solo fuori luogo ma romperebbe la tensione
emotiva che non è mai e mai dev’essere solo tensione emotiva di tipo artistico
né solo commozione poetica indirizzata alle opere ma si risolve in un dialogo di cui tanto le opere che i ricordi, che i
documenti assumono il senso di tracce, di testimonianze, di tessere, di punti fissi, di appigli per costruire quella casa simbolica che accoglie l’incontro fra padre e
figlio.
Nessuna arida invadenza teorica, quindi, che inquinerebbe
e stonerebbe. Stonerebbe con la personalità dell’autore del libro, con la
personalità del padre Ettore, con una filosofia di vita e con atteggiamenti e
concezioni che, acriticamente romantiche, sono ancora pur così diffuse.
L’arte è vista
“come modo di vita non del genio, ma del semplice e del comune quotidiano.” (p.2) La
pittura è vista “al servizio del piacere e della soddisfazione.” E così il
dipingere, come l’operare, diviene “la modalità del suo star bene perché alimenta
il dialogo Io-Es, perché ritrova il soddisfacente equilibrio- squilibrio con la
sua storia attraverso il canale espressivo dell’arte.”
Il tema della dialettica
Io-Es pur ricorrente non è, come ho detto poco sopra, invasivo proprio per permettere un
dialogo non inquinato da alcuna teoria.
Non stupisce quindi che l’autore
Giancarlo osservi senza alcun fastidio come possibile osservazione critica l’assenza di
melanconia nella pittura del padre. Una osservazione simile, sì, che
rivelerebbe proprio quell’inquinamento teorico di cui si sta parlando, che,
dovuto a residui di concettualità
romantica rivelano solo, l’ignoranza dottrinale, i pregiudizi di una cultura
ormai stantia, un’ideologia romantica che ha fatto il suo tempo, non perché
fuori moda ma per l’esaltazione acritica e addirittura isterica che dominò una
cultura.
Giustamente il curatore Giancarlo,
uno degli attori del dialogo, puntualizza come l’operare artistico del padre lo
conduca attraverso il suo lungo operare a esaltare quella pienezza di vita che non
può essere confusa “con la banalità” né può accondiscendere al mito romantico
che identifica nel "dolore" (p.67) e nella "confittualità"(67) la condizione della produzione
di poesia."
La cercheranno invano questi
ideologi, questa sofferenza inquieta, in artisti come Piero della Francesca o
come Canova per far due grandi nomi del passato e in quel grande artista
piemontese, attivo negli stessi anni in cui Ettore Gramaglia operava, come
Felice Casorati.
Sono pienamente d’accordo con l'autore: di volta in volta il succedersi delle culture provoca una affannoso tentativo
di scrivere leggi generali sull’arte e sulla poesia derivate unicamente da un
comune sentire del periodo, cioè da una “moda”. Si giunge addirittura non solo a
legiferare circa ciò che è arte e ciò che non lo è, ma a prescrivere criteri di
giudizio che non sono altro che espressioni della cultura egemone del periodo.
L’arte non ha come fine la meraviglia come sostenevano il Marino e i marinisti
né deve dimostrare di essere un prodotto di secrezione di inquiete e contorte
sofferenze esistenziali, né deve urtare o spaesare o provocare come sostengono,
fra gli altri, Adorno e Vattimo.
Ricostruendo di volta in volta con
leggere pennellate l’ambiente culturale e di vita, il racconto del libro Dialoghi tra padre e figlio si snoda dall’apertura
pensione per cavalli del nonno di Ettore
Gramaglia, alla frequentazione della scuola di ebanisteria, alla progettazione
dei primi mobili, alla partecipazione alla prima guerra mondiale. L'autore si sofferma
per raccontare con parole e immagini la stagione di formazione umana, civile,
culturale e artistica in cui nascono e vengono coltivate le passioni per il
teatro, per il disegno, per la pittura, per la fotografia. Con attenzione e
partecipazione viene raccontata, per quanto è
possibile ricostruire dai documenti, la sua intensa attività conviviale: le
frequentazioni, le gite, i pranzi, le filastrocche, le esperienze d’interazione
con gli amici.. Sono anni d’intensa attività, di grande vitalità che sfoceranno tanto
nell’attività artistica e nei grandi quadri di quel periodo quanto nelle iniziative culturali e nell'attività
di dirigente industriale nella cartiera De Medici.
Quando Ettore Gramaglia si sposa e nasce il figlio Giancarlo, continua intensa la vita nella sua nuova vita di marito e di padre. Sono anni di intensa attività culturale e artistica e compaiono gli stupendi, scolpiti, lavorati, miniati e colorati giocattoli .
Giustamente il libro documenta questo periodo con entusiasmo e amore. E' lo stesso entusiasmo e amore che motivava il padre quando inventava e realizzava quei numerosi giocattoli. L’arte si fa vita e amore: ce lo dicono alle pagine 61, 62, 63, gli scranni, i soprammobili, gli animali in legno, pinocchio, gli sciatori. Il libro li documenta con la stessa attenzione con cui documenta e commenta i grandi quadri “Le comari” (argutamente rinominato, Parlesssere), i ritratti, i nudi femminile e La madonna di S. Girolamo di cui vengono raccontate, studiate e, nei limite del possibile, documentate la genesi, la storia e le varianti. L'autore continua a descrivere le opere non solo artisticamente con pur ispirata esposizione, ma sempre seguendo il filo arabescato dell’atmosfera, nello spirito del dialogo ininterrotto fra padre e figlio.
Si giunge così al periodo dei paesaggi, delle frazioni, degli angoli di montagna, della case in pietra e in legno, l’amato legno, dove ciò che più sembra ispirare è l’immediatezza dell’emozione, resa con pennellate ampie, intuitive e veloci.
Le figure umane
sono poche ma l’operare umano, testimoniato dalle opere dell’uomo, dalla case,
dalle chiesette, dalle decorazioni è quasi onnipresente e sfocia nel quadro a
mio avviso più bello non solo di quell'intenso periodo ma forse di tutta l’attività
pittorica quell'altare maggiore della chiesa di Antagnici parrocchia di S.
Martino che nello splendore e nell'immediatezza della rappresentazione non ha
nulla da invidiare a la Cathédrale de Rouen. le portail et la tour Saint-romain, effet du
matin di Monet.
Sono arrivato alla fine del post, che non può mai per molte ragioni (non ultima quella dello spazio concesso), andare oltre una certa lunghezza e mi rendo conto di non aver parlato delle numerose e importanti attività culturali dell'autore Giancarlo Gramaglia. Non importa, scriverò un altro Post.
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