venerdì 31 gennaio 2020

12 La società civile e la musica seconda parte capitolo 12 de il Manifesto degli incivili


Ciò detto ci porta ai costi. Il rock, i concerto rock, non ci costano nulla anzi sono redditizi per le tasse che pagano, mentre la musica “colta” e in particolare l’opera lirica, il mostruoso complesso dei teatri, è costosissimo e a pagarlo siano noi contribuenti. Chi va all’opera paga un biglietto d’ingresso di gran lunga inferiore al costo, la differenza la pagano in egual misura chi all’opera ci va e chi non ci va e non vedo perché chi non ci va, (me compreso dal giorno dell’evento Strehler),  debba pagare per chi ci va.
L’unico ragionamento a giustificazione può essere che l’Opera e l’Italia vanno a braccetto, che l’opera è un prodotto che aiuta tutta l’industria italiana, il design italiano, la moda italiana, il turismo italiano, ecc. Sono solo in parte d’accordo ma, con tutto ciò, non vedo perché questa differenza fra costo e prezzo del biglietto debba pagarla chi non ci va che non usufruisce dello spettacolo o chi ne trae vantaggio, ammesso che ne tragga, perché non vedo proprio come chi frequenta le spiagge italiane, le montagne italiane, le città d’arte, chi viene in Italia a fare i bagni, a salire sulle montagne a visitare monumenti e musei, non verrebbe in Italia se i tredici o quattordici teatri d’opera nonché i vari e numerosi festival di musica classica e lirica fossero la metà, se i loro costi non fossero stratosferici, se i carissimi Wonder Men, gli eccezionali Uomo ragno e Superman, parlo dei nostri Registar e Conductstar, non fossero strapagati e celebrati come nuovi dei, se i vari direttori, i vari consigli d’amministrazione, i vari sovrintendenti, le varie fondazioni, ciascuna col suo presidente, vicepresidente, consiglio di amministrazione, non fossero ridimensionati all'ottanta, novanta per cento o, addirittura, con una totale riorganizzazione aboliti.
L’ottocento musicale non aveva questi favolosi registar e conductstar eppure la gente andava all’opera e non vedeva certo porcherie. Gli spettatori assistevano alle opere di Rossini, Donizetti, Verdi, Boito e questi erano i nomi per cui la gente andava in delirio non certo per i direttori d’orchestra, i registi o gli scenografi. Chi non ci crede legga i diari di quell’autentico amante dell’opera che fu Stendhal, che, incaricato come diplomatico, ne parla diffusamente.
E’ rimasto, ad esempio, in Italia il nome di Mariani, sul quale certi acuti critici si buttarono per sostenere che le opere di Verdi erano somme, eccezionali, straordinarie ma solo perché le dirigeva Mariani. Ma Verdi era Verdi e quando ci fu da dirigere l’Aida, a cui molto teneva Mariani, che aveva diretto il Lohengrin a Bologna, su di lui Verdi mise il veto. L’Aida fu un trionfo e tale rimane anche senza Mariani. Perché l’opera, la melodia, il dramma erano tutti nella sua musica e nel suo senso teatrale, al massimo Mariani poteva essere un traduttore più o meno fedele. Nell'ottocento, nell'era delle grandi opere, dei grandi compositori, della grande arte non sentirono come oggi, era di poca arte, di pochi e piccoli autori, la necessità dei vari Batman-Mazinga conductstar dei vari Mandrake-Goldrache, Registar e del variopinto direttorame d’ogni genere. Allora si componeva arte e poesia, oggi si interpreta e si guadagnano iperboliche cifre interpretando, variando, massacrando come parassiti le altrui smisurate grandezze. Mediocri parassiti che non lasceranno nulla se non le loro traduzioni del genio altrui, osannati da altrettanti mediocri spettatori, critici, politici che quei loro mediocri Dei li riempiono di denaro. L’arte dà da mangiare come dice un ministro? Forse a qualche mediocrità ne da un’esagerazione, a me e ai molti altri che, come me, amano la musica, amano chi l’ha composta, il loro genio, non dà affatto da mangiare ma preleva. Mangiano i sovrintendenti, i direttori dei teatri, i conductstar, i registar, ecc. e in minor misura - molto minore - i violinisti, gli scenografi, i sarti, ecc. e i fruitori spettatori. 

O i palazzi dell’Opera si prendono cura dell’Opera e l’opera si prende cura di se stessa, o morirà, neppure di morte onorevole ma di morte meritata. O acquisterà la capacità di reggersi economicamente anche accettando compensi meno onerosi, meno sfarzo, meno organico, meno fiori, meno amenità turistiche o continuerà sulla strada del declino. 
Non propongo di abolire l'opera e di chiudere i teatri; il mio discorso è rivolto a ridurre i costi e a favorire la nascita di una cultura favorevole alla composizione artistica e non solo alla riproduzione. Il sistema di riproduzione deve reinventarsi, ma anche i trascurati compositori devono reinventare le loro modalità di comporre e aprirsi a una strumentazione più elettronica, meno numerosa, meno costosa, più potente. Entrambi devono inventare risparmi, inventare l’uso dei mezzi elettronici di produzione, di riproduzione e di amplificazione del suono. Entrambi devono almeno in parte scendere dal loro piedistallo, demitizzare i nuovi falsi Dei, directstar, conductstar e interpreti in genere, e volgere lo sguardo verso ciò che considerano basso e popolare, come, ad esempio, il mondo del rock e i suoi modi di suonare, di utilizzare la strumentazione, di far spettacolo.
Come fare una rappresentazione, come utilizzare la tecnologia, come fare tante rappresentazioni, come ridimensionare i registar e i conductstar, come costruire un terreno fecondo per la composizione? Queste sono le domande che ci si deve fare.
I registar e i loro dispendiosi fan sostengono di aver salvato l’opera, di aver abolito certe ridicole maniere dei cantanti di muoversi sulla scena, di aver attualizzato l’opera. Certamente al Metropolitan non è successo e l’opera gode di ottima salute.
Cominciamo dalla rivendicazione dell’abolizione di certe ridicole maniere di muoversi sul palco.
Da giovane vedevo i cantanti che si mettevano una mano sul cuore, che allargano le braccia, che facevano quei movimenti convenzionali che i registi vedono oggi, appunto, solo come convenzionali, come ridicoli ma le cose non stanno come le vedono loro. Tutta l'opera è una convenzione, trasformare i movimenti dei cantanti sulla scena in movimenti realistici o, peggio, falsamente simbolici non ha senso. La mano sul petto è una rappresentazione cerimoniale, simbolica, espressiva; il forzato realismo dei tribolati registi d'oggi, con i loro aggiornamenti non contestuali non lo sono. Assoldare dispendiosi registi perché insegnino ai cantanti i movimenti come se fossero attori di prosa, non ha senso. Quei movimenti del braccio sul cuore, delle braccia allargate, ecc. fanno parte della mistica dell'opera come il buio in sala chiesto da Wagner. Quelle opere sono nate con quel Dna, sono nate assecondando quei movimenti, assecondando tutti i movimenti e le posizioni mediante le quali la voce poteva dispiegarsi e quelli altamente significativi e simbolici come, appunto, la mano sul cuore. L'opera con le sue pazzie assumeva il significato di un rito. Non sostengo che il mondo dell’opera non debba subire mutazioni ma nego che la messe in scena tradizionali siano false e ridicole. Ripeto: tutta l’opera è una convenzione che giudicata con occhio realistico può apparire demenziale. Che Traviata in fin di vita senza fiato canti a piena voce è un’evidente irrealistica impossibilità non è pazzia: questa è la convenzionalità con cui l’opera si è formata e a cui ha avuto il suo straordinario successo. L'unica cosa che il regista deve fare è assecondare questo rito, celebrare questo rito e meno che mai fare assumere al cantante posizioni che danneggiano l'esplosione del canto per accontentare occhi che vogliono posizioni realistiche, nuove, provocatorie, falsamente simboliche.
Non sono migliori le regie del giorno d'oggi quando trasformano e falsano l'opera. Si comincia, addirittura a mormorare contro i cantanti troppo grassi o troppo piccoli o non belli come richiederebbero miti come quelli di Didone, di Otello, di Sigfrido? Cosa faremo? Non li manderemo in scena perché offendono la vista? Perché la parte della bella sigaraia esige una bella sigaraia? Poveri i nuovi Pavarotti! Che parte verrà riservata ai grassoni come Pavarotti? Nessuna ovviamente. Al massimo quelle tipo Falstaff. Siamo seri! Mica si può offrire alla nostra elite un Pavarotti per la parte di Guglielmo Tell, di Sigfrido o di Otello! Il palcoscenico d'opera diventerà una sfilata di modelle o modelli o resterà un palco per cantanti?
Passo al secondo argomento: che senso ha rendere l’opera contemporanea? Forse che il teatro di prosa attualizza la tragedie di Shakespeare, di Goldoni, di Plauto? Oggi no, ma se continua questo andazzo inculturale, lo farà. Forse che il regista veste Arlecchino di un competo di giacca e cravatta? Non mi dilungo perché questo è un campo minato, perché la tecnologia consente soluzioni e graficismi altamente simbolici che per molte opere possono funzionare, ma questo simbolismo reso possibile dalle nuove tecnologie grafiche che c’entra con l’attualizzazione, col rappresentare Otello da generale novecentesco? Il ridicolo sta nel fatto che con certi abiti, certe messe in scena, si canti con le parole originali mentre non si rappresentano gli eventi originali: non solo ridicolo: sono decontestualizzazioni falsificanti.  
A Torino qualche anno fa un regista arrivò a falsificare la trama delle Salome di Strauss: nel finale non viene giustiziata Salome ma la matrigna. Questa è pretenziosa falsificazione e nulla più. Criminale direi. Una falsificazione dell’opera di Oscar Wilde e di quella di Strauss.

Un manifesto per una nuova cultura musicale deve suggerire sia soluzioni per la rappresentazione del passato sia  nuove idee ai compositori. Idee che permettano loro di sconfiggere quel pigro, falso, elitario pubblico, adoratori di falsi dei, di mandarli a quel paese e di conquistare un nuovo pubblico, perché il vecchio è stupido e ingessato senza speranza nelle sue svenevoli sciccherie. A questo pubblico va detto solo "Per voi neppure più un soldo"
Soluzioni per questa incresciosa situazione sono possibili. Non si possono chiudere otto, dieci teatri, risanando coi licenziamenti, ma una soluzione si deve trovare. Possibilmente una soluzione che risolva anche l’annoso problema dell’assenza dell’insegnamento musicale nelle scuole italiane, una soluzione che vivifichi il terreno da cui possano nascere nuovi autori, una soluzione che veramente esplori i giacimenti e non si fermi alla comoda superficie dell’opera ottocentesca. E se bisogna licenziare, bisogna avere il coraggio di farlo, trovando anche nell’istruzione musicale, una parte della soluzione occupazionale. I denari non vanno sprecati ma devono essere a disposizione di chi è in grado di farli produrre e partecipare a imprese che non assorbono fondi ma pagano tasse.
La soluzione più ovvia è quella di diminuire il numero delle rappresentazioni, ma, se un teatro d’opera deve comunque pagare un’orchestra, un direttore fisso, un’impresa di sarti, scenografi, anche quando non lavorano, diminuire le rappresentazioni serve a poco. Meglio appaltare e riutilizzare e questo è possibile se si torna a un concetto del teatro in cui non esistano gli Stabili con il loro organico di stipendi fissi ma le rappresentazioni arrivino tramite una compagnia viaggiante che ha un luogo di produzione unico con organico di regista, direttore, scenografi, pittori, sartoria ecc..
Se abbiamo dieci allestimenti in dieci teatri d’opera con dieci titoli diversi, i costi di dieci complessivi dal direttore generale all’ultimo degli impiegati, passando per i musicisti, il direttore d’orchestra, la squadra addetta alla messa in scene della scenografia è enorme.
E’ altrettanto evidente che un solo complesso che porti un’unica opera in sette - otto teatri senza spendersi in sette, otto serie di prove, in sette, otto sartorie, in sette, otto scenografie, ecc. con gli stessi cantanti e la stessa orchestra costa molto meno. Da una parte una sola serie di prove orchestrali, musicali, registiche, con gli stessi costumi, dall’altra otto allestimenti, otto prove d’orchestra, otto sartorie, otto preparazione di scenografie, ecc.
Certo ci sono in più le spese di permanenza, trasloco, viaggio e a questo punto i conteggi sono aperti ma non molto: vedere se sia conveniente e quanto lo sia, non tocca a noi. Per me la chiusura e la discussione a bocce ferme è la sola possibilità.

Ogni considerazione non può che partire dal che l’opera, diffusa in ogni parte del mondo, è stata inventata in Italia e, dall’Italia, ha conquistato tutti i luoghi della civiltà occidentale, espandendosi, poi, da questa al resto del mondo. L’Italia è terra di grandi civiltà, quella etrusca, quella sicula e sicana colonizzata dalla civiltà greca e cartaginese, quella romana, quella cristiano-papale, quella rinascimentale di Venezia e Firenze. Civiltà che hanno disseminato monumenti, chiese, quadri, musiche, opere letterarie, scoperte scientifiche, teorie filosofiche e, tra queste, l’Opera in musica, che è uno dei suoi più duraturi e riconosciuti gioielli. Di questa ricchezza di civiltà il made in Italy ha potuto giovarsi in maniera permanente e se ne giova tuttora. Se ne giova l’industria della moda, che quella del cibo che quella turistica. Non si può semplicemente abolire il rinnovarsi di questa gemmatura per motivi economici, ma non si può neppure accontentare l’attuale comportamento scellerato, l’attuale esibizionismo, l’attuale alterigia, la spasmodica fame di guadagno e di mungitura dei soldi dei cittadini da parte di una classe culturale parassita in due sensi, parassita di ciò che grandi compositori fecero in passato e parassita dell’economia e del lavoro dell’attuale classe di cittadini. Gemmare significa rappresentare, far rivivere il passato, e fertilizzare il terreno per la fioritura del presente di opere grandi come quelle del passato.
Un programma culturale musicale non può che usare il martello per ricondurre a limiti patologici l’egoismo sterile e parassita e la cura della fertilità del terreno perché i semi gettati diano frutti nuovi e rigogliosi.

Quanti teatri d’opera? Quanti ne servono per conservare il prestigio dell’Italia operistica inventrice dell’opera? Che scala di importanza va attribuita ai vari centri di quella che viene chiamata produzione musicale ma che in realtà non produce nessuna nuova composizione ma solo repliche, sperpero e parassitismo? I grandi centri storici sono Venezia (dove lavorarono Monteverdi, Cavalli e Vivaldi e dove nacque l’imprenditoria teatrale), Roma (dove produssero Carissimi, Scarlatti, Rossini, dove ai primordi venne messa in scena la rappresentazione di Anima e corpo di Emilio del Cavaliere, dove lavorarono Caccini, Peri coi loro primi embrioni d’opera, Rossi Cesti, Milano ( la scala è il teatro d’eccellenza del romanticismo), Napoli (patria o patria d’elezione musicale di compositori come Paisiello, Cimarosa, Piccinni, A. Scarlatti, ecc. dove produssero anche Rossini e Donizetti) . Ma quattro sono troppi, oltre l’importanza storica bisogna attenzione al bacino di utenza. Se i bacini di utenza di Milano e Roma sono appena discreti quelli di Napoli e Venezia non lo sono. Due grandi teatri d’opera con funzioni di produzioni di alta qualità sono sufficienti, quattro sono tollerabili. Agli altri nessuna produzione autonoma, nessun dispendioso organico fisso, ma rappresentazioni la cui regia, i cui scenari i cui costumi sono realizzati da uno e più centri di produzione. Il denaro risparmiato sia destinato a creare un terreno fertile per nuovi compositori, sia per resuscitare quel tanto decantato patrimonio fossile che oggi fossile è e fossile rimane.
I templi della lirica devono perdere la puzza sotto il naso e trasformarsi così come devono trasformarsi e perdere l’aristocratica puzza sotto il naso i compositori che devono parlare agli ascoltatori, non ad una elitaria e ristretta conventicola di privilegiati. Anche il sistema dei conservatori deve riformarsi: e’ inammissibile che non si studino strumenti elettronici. Non possono vivere nel passato ormai remoto.  Teatri d’opera, conservatori, compositori che, se non sono in grado di cambiare, vanno abbandonati al loro destino. Del resto sembra proprio che non siano adatti ai grandi compositori. Verdi fu bocciato all'ammissione, Wagner era un autodidatta, Berlioz ebbe a dichiarare di essersi inventato compositore nonostante la frequenza al conservatorio. Si in venti in liceo musicale e una facoltà musicale che abbia come scopo non solo la creazione di esecutori ma che stimoli alla composizione.
In Germania e in Italia le case editrici musicali indicevano annualmente concorsi che premiavano l’opera di un giovane. Durò finche durò poi morì il che è comprensibile perché i risultati esigui non compensavano le spese elevate. Ancor oggi quei concorsi vengono visti come inutili e deludenti. Ma come si fa a conservare una simile opinione quando in Italia generarono Cavalleria Rusticana e in Germania Palestrina? E Mascagni non è solo Cavalleria e Pfitzner non è solo Palestrina. Anche se non lo dice con difficoltà crearono due scuole Dopo cavalleria venne Pagliacci, e non solo Pagliacci. Facendo il bilancio le spese per i due concorsi generarono grandi risultati.

I teatri d’opera e di prosa non possono e non devono gravare sui contribuenti. Non devono rappresentare una forma di parassitismo culturale ed è veramente ora che gli spettatori che li frequentano siano meno egoisti e a loro volta parassiti.
Oltretutto il gioco non vale la candela, Le commedie, le tragedie scritte per il teatro in televisione raccolgono un numero miserevole di spettatori. Pochi, ben pochi, pochissimi, si fermano sul canale se questo trasmette tragedie di Sofocle o commedie di Goldoni. Eppure i testi sono gli stessi, ben ripresi e con bravi attori.
Coloro che frequentano i teatri parlano di atmosfera, di incanto del rappresentazione sul vivo ma la giustificazione non regge di fronte alla spese. Anche una partita è tutt’altra cosa se vissuta allo stadio rispetto al salotto di casa, o il bar in televisione; ma mica coloro che vanno allo stadio fanno pagare il biglietto allo stato e a noi contribuenti!
Oltretutto se possiamo affermare che chi va alla partita o la guarda in televisione è sempre partecipe non altrettanto possiamo dire del teatro di prosa o del teatro musicale dove spesso prevale si va per portare come vanto l’evento o per il ridotto o per sfoggiare l’abito della festa o l’elevatezza culturale.
I giornali con i suoi adulanti giornalisti tendono a magnificare con titoli e frasi a effetto “Mostra il cuore della tragedia”, “la illumina” “nessuna sa far risuonare gli ottoni come lui” magnificando le performance perché solo performance sopra e autori e titoli sono sempre i soliti.
Se veramente gli spettacoli fossero quelle meraviglie celesti, divine magnificate negli articoli non si capisce perché gli spettatori non debbano pagare un biglietto più caro per godere di simili meraviglie. I teatri forse sono pieni per i prezzi bassi ma molti preferisco i prezzi doppi, tripli di una serata in un buon ristorante.
Una sera di Traviata non vale una cena? neppure una cena? Chiudiamo i teatri non val la pena di tenerli aperti e mantenere un tale esercito di parassiti registar, conductstar, attori saltimbanchi, sarti, impiegati, ecc.    
Se si chiudono i teatri forse scompare il teatro di prosa forse rimarrà ma solo se vivificato da nuovi autori e nuove opere. Senza di loro non siamo noi a chiudere i teatri ma i teatri a chiudere se stessi e a rassegnarsi alla loro importanza del tutto marginale nella cultura.
Ho conosciuto il teatro prima come lettura che come rappresentazione. La lettura mi esaltava. Sofocle, Molière, Strimberg mi appassionavano nella lettura come i grandi romanzi di Tolstoj, di Steinbeck, di Malraux, due anni di abbonamento alla stabile in giovane età mi hanno solo deluso.
Quasi la stessa cosa mi è accaduto con la musica. Riuscii ad andare poche volte alle prove generali al Teatro Nuovo di Torino dove assistei al Guglielmo Tell con piacere anche perché ne conoscevo numerosi pezzi dalla radio. Con questo voglio dire che per moli di noi la musica e l’opera sono stati e sono tuttora eventi auditivi. Comprava a mille lire l’uno i dischi alla Standa e pur nella ridotta scelta ci trovai le sinfonie 3, 5, 6,7 9 di Beethoven, ecc.
I ricchi snob abbonati del Regio potevano dire quel che volevano, ma io potevo alzare, abbassare il livello di suono come volevo. Iniziare da dove volevo, sospendere come volevo. La tecnologia era entrata e entra sempre di più anche nella musica ed è inutile tapparsi gli occhi.
I teatri d’opera con i loro stitici Rigoletti e Traviate impoveriscono enormemente la musica. Una musica senza passato e senza presente. Appresi da molto giovane che esisteva un passato della musica che per me era Gino Latilla et similia leggendo le dispense del Milione, forse i frequentatori e i gestori dei teatri d’opera con tutta la loro pompa non hanno mai letto qualcosa di simile alle dispense del popolare Milione.  Ironizza sui grandi capi che dirigono i teatri mettendo in dubbio che conoscano Paisiello. C’è di peggio recentemente un regista d’opera ha tranquillamente ammesso di ignorare che fosse esistito il compositore Paer (scusate se mancano i due puntini)
Per decenni quando i libri già si stampavano, molti aristocratici preferivano i carissimi scritti a mano, perché avevano un fascino totalmente assente in quelli stampati. Questi gusti radical chic non hanno certo resistito, ma oggi i libri elettronici non sfondano con l’aristocratico mondo dei lettori. Capita come per la frequentazione dei teatri: la è l’incanto magico del posto ma anche il piacere di essere visti, qui il piacere del toccare la carta ma anche l’orgoglio radical chic di mostrare la biblioteca di casa.
I compositori e l'élite musicale quella che abita ai piani alti del fasullo grattacielo della cultura musicale devono prendere atto, che la cultura popolare musicale rock-pop è fondata su strumenti elettronici capaci di grandi manipolazione tecnica e di grandi amplificazioni, quelle stessi che usano le band del rock nei loro concerti. Il compositore deve scendere dalla nuvole a terra e utilizzare le risorse disponibili. A Venezia Monteverdi, che non poté usare le grandi risorse orchestrali e gli splendori della corte di Mantova, si adeguò. Si adeguò e seppe farlo anche con quel capolavoro assoluto che è L’incoronazione di Poppea. Con questo non mi sogno neppure di screditare l’opera di avanguardismo e i loro prodotti. Le opere di Alban Berg,  Wozzeck e l’incompiuta Lulù e sono state coronate da un meritato successo, da una meritata lode e sono capolavori, appena al di sotto l’orgiastico e incompiuto Mosè ed Aronne di Arnold Schoenberg, Delle conquiste di entrambi questi autori bisogna tener conto, pur non accettando l’integralismo di Mosè e Aronne.

Poche ultime parole per irridere a certe pretese. Il teatro al cinema e in televisione non funziona. Non funziona, non ha mai funzionato non funzionerà mai. Eppure l’Edipo è lo stesso Edipo, la locandiera la stessa locandiera che danno a teatro. Cosa cambia il capolavoro non è più il capolavoro? Non lo è? Non lo è mai stato? Neppure Shakespeare funziona in televisione; gli ascolti che raccoglie sono ridicoli. La televisione, il cinema non sono degni dei testi teatrali?
Ci vuole una nuova cultura: abbiamo bisogno di una nostra casa editrice. Mobilitiamoci.


lunedì 27 gennaio 2020

CULT. CULTURA INDECENTE La cultura di sinistra Napoli, Torino, Bologna


Basta con la sudditanza culturale vero la cultura della sinistra, del PD, dei nuovi comunisti, della società civile!
Rispondiamo che loro, gli imprenditori della cultura, fanno schifo. Dovunque governano a lungo Roma, Napoli, Torino lasciano disastri. Sappiamo cosa è successo a Napoli dove la sinistra governa con la società civile e dove, in passato, a un progetto d'iniziativa industriale, dell'IRI,  nei loro ovattati salotti decise per un dispendioso nuovo Museo. La città dell scienza, che non riusciva neppure a pagare gli stipendi arretrati di 10, 12 mesi. La Città della scienza è finita in fumo. Letteralmente in fumo, completamente bruciata fino alle fondamenta, lasciando macerie e debiti. Rimborsati dall'assicurazione (Le indagini chi le ha fatte? Chi ha fatto il rogo? Loro stessi?) hanno ricostruito il nuovo dispendioso museo, pronti ad accumulare altre perdite, che pagheremo noi.
Sappiamo che Torino è stata amministrata da un partito di massa, la D.C. che, in quei faticosi anni del dopoguerra ha saputo governare una espansione demografica ed edilizia eccezionale con la popolazione passata da meno di mezzo milione a più di un milione. La mentalità degli allora amministratori non era imprenditoriale, il governo della città si limitava ad assecondare lo sviluppo ordinato della città, ad asfaltare le strade, a potare gli alberi, ecc. con i comunisti che tuonavano contro i palazzinari, le concessioni edilizie, l’inerzia culturale della città e vantavano lo sviluppo ordinato, coordinato, brillante di Bologna che non aveva certo gli enormi problemi legati alla crescita degli abitanti, alla necessità di case, alloggi, strade che aveva Torino. Eppure oggi quella Torino con i suoi nuovi quartieri, puliti e ordinati, i suoi viali alberati, le sue comunicazioni, dimostra di avere avuto uno sviluppo ordinato, verde pubblico, ampie strade, invidiale equilibrio edilizio.
Quando la bella società, quella civile, quella di sinistra s’impadronì della città entrò subito con due iniziative ideologiche, due settembri cretinetti, in linea con il loro progetto di egemonia culturale, settembre didattico per indottrinare i professori, e Settembre musicale in osservanza al dettato gramsciano di conquistare la borghesia colta. La giunta di sinistra durò poco, lo scandaloso Settembre didattico finì con essa, il dispendioso Settembre musicale continua ancor oggi per la gioia di quella poca borghesia radical chic, che si gode i concerti pagati da noi, oppure sbadiglia e presenzia. Nella sua incredibile cecità inventò pure la metropolitana leggera altro spreco, e la viabilità ciclistica i cui ruderi durano ancora. 
Le nuove giunte di sinistra si sono gettate a capocollo nella loro vecchia politica inventando lo slogan Cultura Cultura Cultura Arte Arte Arte. Un’epopea che inizia a dissipare denari pubblici con le Olimpiadi e continua con i disastrosi palazzi a cominciare dalla distruzione del Lingotto, per finire con l’interminabile ristrutturazione della cupola del Guarini, passando per l’obbrobrioso, e tuttora inutilizzato Palafuskas, ribattezzato Palaschifas, del Palazzo regionale, del Palazzo San Paolo, indecenti parallelepipedi in verticale, casermoni anonimi senza un briciolo di fantasia, che si estendono in altezza piuttosto che in lunghezza, progettati dai soliti architetti di regime. Firenze del rinascimento? Andate a vedervi i palazzi le chiese, le statue, i dipinti, quando l’arte era invenzione e genio e non fracassonata di regime, quando, sotto, dimenticata da tutti gli storici dell’arte, c’era una rivoluzione bancaria che corrisponde a quella recente del web.
Promettevano al Sestriere, una nuova Cortina ed è rimasto il Sestriere. Potevano appoggiarsi per il bob in Francia o al Trentino e invece le aquile hanno orgogliosamente detto “lo facciano noi” ed è cominciato un colossale spreco che non è ancora finito. Hanno sprecato 40 milioni con la scuola professionale per poi lasciarla fallire. Hanno per anni criticato le giunte di centrodestra e di centro sinistra per non saper utilizzare gli edifici di Italia ’61 e, dopo anni di giunte PD ed alleati radical chic, quei brutti palazzi sono ancora lì inutilizzati e in corsa verso la rovina. Ma del disastro di Torino, dei soldi succhiati a tutti i cittadini italiani, ai cittadini piemontesi tramite la regione, dei cittadini della provincia tramite la provincia, ora città metropolitana, delle fondazioni San Paolo, e CRT, soldi nostri, soldi pubblici, delle sponsorizzazioni di ditte a partecipazione pubblica, fino a un vertiginoso debito di tre miliardi, nonostante la vendita parziale di società e di palazzi pubblici di cui parleremo in seguito.
L’ignoranza dimora, con il suo luccicante albero natalizio Cultura cultura cultura arte arte arte, con le sue stelle filanti, nelle vergognose prime ai teatri, nei teatri, nei soldi deliberati a copertura dei passivi, nei contributi statali, regionali, comunali: tutti veri e propri furti ai contribuenti. E’ tutta lì la loro cultura? Nelle sfilate alle prime? Nei finanziamenti alla classica e ai teatri. Recentemente la nostra gloriosa società civile ha tentato di montare una protesta perché la cifra pagata dal complesso degli U2 per la concessione del terreno in cui si sarebbe svolto il loro concerto era troppo bassa. E quanto pagano d’affitto quei saltimbanchi che fanno teatro? O le grandi favolose orchestre dirette da quei maghi Zurlì che sono i nuovi dei directstar, o i teatri d’opera con i loro stuoli di musicanti, di Mazinga direc-star, di Goldrake regi-star, dalle loro sartorie, dai loro allestimenti? Questi non solo pagano i luoghi ma mungono a più non posso dalle mammelle di stato, dalla tasse pagate dai contribuenti.
“Ma questa è arte? “ rispondono loro “Questa è arte stupido barbaro!” Perché il concerto degli U2 non lo è? Non possono neppure negarlo perché tutta la cultura dei nostri colti notabili, professoroni, radical chic, in minima parte partecipa alla frequentazione della musica classica e operistica. Sono degli ignoranti anche giudicando dal loro punto di vista.
Sono persone colte Fassino, Dalema, Veltroni? E’ una persona colta la loro protetta Giovanna Melandri che prima hanno piazzato a far la ministra della cultura e dello sport poi le hanno dato il Maxi da comandare?
Girava la voce irridente e insistente che in vita avesse letto cinque libri e che stesse faticosamente leggendo il sesto. Pettegolezzi da web e da giornali? Forse, ma forse diffusa da chi, frequentandola, aveva avuto modo di apprezzare il suo basso livello culturale e né lei né nessuno altro si mosse per smentirla. Una smentita certo necessaria prima di nominarla ministro. Non contenti i PD forse per liberarsi di un personaggio ormai scomodo anche dopo la sua bugia sulle sue vacanze in Kenya, la nominarono, non senza forti proteste, direttrice al Maxi di Roma. Nomina che lei caldeggiò sbandierando a piene mani “Lo faccio Gratis” Anche questa si rivelò una bugia. Alla nomina, era già in stadio avanzato il cambiamento della natura del Maxi che puntualmente avvenne e l’eroica Giovanna Melandri ebbe il suo luculliano stipendio.
Abbiamo accennato ad un’altra sua bugia. Ribadiamo: una vergognosa bugia. La signora Giovanni Melandri partecipò in Kenya dove ha evidentemente un possedimento da vera proletaria PD a una festa nella villa dell’incivile, chiassoso e volgare Briatore amico di Berlusconi, fattosi da solo, (così diverso dal nobile e civile Montezemolo) e per questo odiato e detestato dalla società civile, che non poteva certo addebitargli imperizia nel suo lavoro, dato che l’incivile aveva vinto quattro campionati in formula uno con due squadre diverse: due con la Benetton due. Ma comunque sia per l’elite, per la società civile il sopraddetto era indegno, vergognosamente indegno di essere frequentato dal civilissima Giovanna Melandri, nata a New York, e la civilissima, sincerissima Giovanna Melandri negò quella sua presenza a sì volgare corte, fino a che fu inviata ai giornali una foto che la immortalava a tanto indegna festa. Una bugia vergognosa e ipocrita, per cui qualche deputato americano si sarebbe sentito in dovere di dimettersi dal parlamento, cosa che non si sognò certo di fare la bugiarda Melandri, che forse più che lucrosamente dedicarsi al Maxi, dovrebbe dedicarsi alla lettura del suo sesto libro, ammesso che sia vera la voce che continua a girare, sul web e fuori.
E’ questa la cultura di sinistra? Sono questi i campioni di cultura della sinistra? Un giorno dovranno spiegarci cos’è questa benedetta cultura così evanescente, perversa, tiranna e fracassona.


venerdì 24 gennaio 2020

FIL La ARENDT, LA METAFORA; OMERO E PITAGORA


La Arendt vede la metafora come ponte fra il mondo dei pensieri e il mondo sensibile, tra l’interno invisibile e l’esterno visibile. Con la metafora il mondo greco ha potuto esprimere l’invisibilità dei sentimenti, del pensiero, della filosofia. Così le parole ‘anima’ e ‘idea’ di Platone, nate rispettivamente dalle parole ‘psiche’ e ‘modello’ inteso come sagoma dell’artigiano, si basano sulle seguenti analogie:
1) Come il soffio vitale è in rapporto col corpo che abbandona così si reputerà che l’anima sia in rapporto col corpo vivente.
2) Come l’immagine mentale dell’artigiano dirige la sua mano nel corso della fabbricazione e costituisce la misura della riuscita o dell’insuccesso dell’oggetto, allo stesso modo tutti gli elementi dati materialmente e sensibilmente nel mondo delle apparenze si riferiscono a uno schema invisibile, situato nel cielo delle idee, e sono valutati in rapporto ad esso.
L’organo privilegiato nella civiltà greca è la vista. Da questo privilegiare nasce tutta quella concettualità che porta alla ‘luce della mente’, ‘allo sguardo della mente’, all’intuizione intellettuale in analogia alle percezione e all’intuizione sensibile. Si vedono con l’occhio della mente gli oggetti della mente così come si vedono con gli occhi sensibili gli oggetti sensibili.
La concezione della Arendt s’inserisce nella sua ampia riflessione circa la facoltà della mente, esaminate nel trattato La Vita Della Mente. L’invisibile attività del pensiero viene portata all’apparenza e resa pubblica con il linguaggio. Con questa impostazione diviene chiara l’importanza della metafora linguistica come ponte fra l’invisibilità del dentro e la visibilità del fuori. Ci sono due mondi e la metafora li unisce.
Importantissima, per la Arendt, l’opera di Omero, che, densa di metafore conoscitive, crea la base linguistica per la civiltà occidentale. Con lui si arricchiscono non solo il linguaggio poetico ma anche quello della filosofia. Senza Omero non ci sarebbe stato quello straordinario fiorire della civiltà greca. Omero, che le ha dato un linguaggio capace di parlare del mondo e dell’anima è il grande padre della civiltà greca e occidentale. La filosofia andò a scuola da Omero.
Per la Arendt le metafore non conoscitive, il cui valore è puramente letterario, sono prive d’interesse “Nel discorrere comune, afferma, è usato un gran numero di espressioni figurate che assomigliano a metafore senza esercitarne la funzione autentica.”
Questa decisa posizione che riduce a orpelli le metafore letterarie non è condivisibile. Forse la Arendt non comprese che la funzione della metafora non fu solo quella di creare, con le parole del ‘fuori’, il mondo del dentro ma anche quella di oltrepassare il mondo sensibile per esplorare gli infiniti mondi della fantasia compensativa e progettuale. Non mondi di puro divertimento ma strade per toccare la verità col linguaggio del nemico: di quell’Essere Immortale che ci vive culturalmente nel linguaggio informatico e di cui noi, singoli mortali, siamo le propaggini malate.
Ma non solo da Omero andò a scuola la civiltà occidentale. Andò a scuola anche da Pitagora, che, con la sua scuola, diede origine alla più grande costruzione intellettuale e fantastica creata dal mondo greco. Una costruzione bifronte, modello per un verso, metafora per un'altro. Da quel modello-metafora del mondo ha avuto origine quell'incredibile progressione che fa dei numeri e della loro storia di invenzioni, scoperte ed eresie uno dei romanzi più belli e affascinanti della nostra civiltà.

lunedì 20 gennaio 2020

Napolitano



Solo in Italia è potuto 

accadere 

che alla Presidenza 

della 

repubblica sia stato eletto un signore come Giorgio Napolitano. Un individuo che aveva approvato la repressione ungherese, l’edificazione del muro lungo il confine della Germania Est e le uccisioni di coloro che fuggendo dal quel paradiso sono stati ammazzati sul muro. Se non le avesse approvate avrebbe dovuto dire - Basta! Me ne vado da questo partito di assassini!
Ma non lo fece. Ci rimase fino alla fine, anche durante le successive crudeli repressioni. 
  
Eletto presidente ebbe ancora la sfrontatezza antidemocratica di eleggere come senatori a vita quattro individui che, guarda caso guardavano tutti a sinistra e votavano a sinistra, senza che nessun cittadino li avesse votati.  

FI PARADIGMI, ARCHITETTURE E LINGUAGGI NELLA RIFLESSIONE FILOSOFICA




Di EZIO SAIA
L’articolo di Sonia Caporossi La crisi del linguaggio filosofico nella seconda modernità: una riflessione dal sottosuolo mi ha spinto ad alcune riflessioni che, confermando sostanzialmente i suoi giudizi, seguono, tuttavia, un diverso percorso.
Nel 1905 B. Russell pubblicò On denoting. Il saggio trattava dell’uso del articolo determinato “il” e affrontava tre ordini di problemi: la questione ontologica di entità quali “il quadrato rotondo” a cui l’amico Meinong assegnava un’esistenza al di là dell’essere e del non essere, la distinzione di Frege fra senso significato, il senso e la verità di proposizioni quali “L’attuale re di Francia è calvo”. Trattando la questione dello statuto dell’articolo”il”, Russell intendeva occuparsi di filosofia della matematica e di tutti quei teoremi del tipo “Il massimo della funzione…”, “La derivata della funzione…” ma, indipendentemente dalle questioni poste e dalle soluzioni prospettate, concludeva rivendicando la scoperta di una struttura logica profonda spesso occultata dalla forma grammaticale spesso ingannevole, ambigua e logicamente errata.
Di fatto Russell aveva fondato con Frege, la cui posizione era stata esposta in saggi quali “Senso e significato” e “Concetto e oggetto”, la moderna filosofia del linguaggio, o meglio, quella che oggi nelle università viene chiamata “Filosofia del linguaggio”. Forse impropriamente perché in forme simili o totalmente differenti, molta filosofia del secolo scorso ha per oggetto il linguaggio....                                 Clicca per continuare a leggere         

venerdì 17 gennaio 2020

11 Concerti beat. concerti e opere chic Capitolo 11 se IL Manifesto degli incivili


Certo non può che risultare stridente il paragone fra la gioia e l’entusiasmo con cui i giovani che sentono i complessi rock che si esibiscono mostrando i loro salti, i loro canti, i loro strumenti, cantando con loro, saltando e ritmando con il battito delle mani e coi loro salti il loro entusiasmo e l’immobilità silenziosa e religiosa, mummificata, con cui gli spettatori-ascoltatori seguono le opere liriche con la l'intera orchestra nascosta in una buca.
C’è chi sbeffeggia gli ascoltatori delle opere liriche e parla di statue di gesso o di mummie ma questo comportamento da mummie ha una sua giustificazione. Quelle musiche vennero scritte per essere ascoltate in religioso silenzio. I compositori e la cultura musicale volevano questo tipo di partecipazione e questo tipo di “collaborazione”. Wagner volle l’orchestra nella fossa e il buio in sala affinché nessuno venisse distratto da ciò che appariva sul palco. Al compositore Sacchini che teorizzava una diversità di composizione fra musica per teatro, semplice, orecchiabile, popolare, senza modulazioni, Hoffmann rispose che non esiste musica popolare e musica colta; che non esiste musica per il divertimento del pubblico e musica religiosa perché ‘La’ musica, TUTTA LA MUSICA È RELIGIONE.
Il silenzio e la presenza in silenziosa partecipazione fanno parte del DNA delle opere scritte nel romanticismo. Non era sempre stato così nei precedenti secoli dell’opera trionfante ma certamente fu così nella mistica cultura musicale dell’ottocento. Totalmente diverso era stato il tipo d’ascolto nei secoli precedenti soprattutto a partire dalle opere barocche successive a quelle di Monteverdi e Cavalli, quando il discorso musicale sul palco si spezzò in arie e recitativi coi secondi abborracciati alla belle meglio perché intesi alla sola funzione di far progredire l’intreccio. E’ normale che durante quei noiosi recitativi gli spettatori facessero tutt'altro che ascoltare la musica, visto che la trama era arcinota perché si musicavano sempre gli stessi soggetti.
Non mancò comunque chi, che come Benedetto Marcello, nauseato dal clima generale dell’opera dagli spettatori, dagli artisti, dal pubblico, lì deridesse in quel tagliente trattatello che è il suo Il teatro alla moda. Oggi un altro Teatro alla moda andrebbe scritto ma con fini e argomentazione del tutto differenti.

Se le opere romantiche devono essere sentite con partecipato e silenzioso misticismo religioso, il Rock non può che essere sentito con quella partecipazione attiva a cui assistiamo. Ma con ciò non si può chiudere la questione perché c’è davvero da chiedersi se i compositori “colti” del giorno d’oggi debbano seguire canoni così ingessati o oltrepassare la barriera e chiamare il pubblico ad una partecipazione di attiva vitalità. C’è da chiedersi se debbano adottare la costosissima orchestra tradizionale e l'altrettanto costosissimo sistema dei direttori stabili, dei direttori artistici, dei direttori dei direttori e chi più ne ha più ne metta, dei costosi scenografi, capiscenografici, grafici, sarti e sartine, ossequiose maschere o ricominciare da capo e prendere alla lettera le parole di Cecilia Bartoli "Nei teatri italiani troppi privilegi: vanno licenziati tutti”. Su queste parole intese nel loro significato letterale non avrei dubbi "Cacciateli tutti via" a cominciare dai directstar e dai conductstar o, altrimenti, lasciateli al loro destino e che vivano dei proventi che sanno guadagnare. La mia antipatia per questi personaggi e per i loro costi, per la mistica adulazione di cui sono circondati è fin troppo evidente e a chi non la condivide dico "Create un nuovo ambiente culturale che ci dia i nuovi Rossini, Verdi, Wagner e tenetevi pure i vostri Abbado, Muti, Strehler, Zeffirelli e compagnia. Le bacchette magiche della musica non sono quelle agitate dai direttori maghi, dagli strapagati, osannati conductstar, ma le matite che Rossini Verdi, Wagner, Strauss, Stravinskij, Hindemith, usavano per scrivere i loro spartiti. Le bacchette magiche delle fatine, dei conductstar, dei maghi, delle streghe non scrivono, sono prive di grafite, prive d'inchiostro. Avessero i vari Toscanini, Furtwangler, Abbado, Muti lasciato quattro righe decenti capaci di esprimere le loro somme spremute di musica. No: aridi e improduttivi come i muli, o produttori di banalità come Furtwangler. 
Le questioni da affrontare per una nuova culturale sono molte ma, allo stato di degrado e di Caporetto a cui siamo giunti, non ci devono spaventare né i concetti né le parole che non possono essere diverse da quelli con cui le avanguardie affrontarono il sistema ingessato, mummificato, standardizzato dell'arte. Tutti via, si ricominci da capo.

Il protestantesimo chiamò il popolo credente ad accompagnare musicalmente le cerimonie religiose e non vedo come un analogo passo non possa essere decisamente intrapreso dalla ingessata musica colta. La partecipazione religiosa romantica non dovrebbe comunque continuata ad essere ingessatamente ridicola come è oggi. Non vedo perché gli strumentisti debbano indossare il frac, non vedo perché alle prime ci debba essere una inutile esibizione di fiori, non vedo perché puntualmente gli artisti “in“debbano essere omaggiati di mazzi di fiori. Non bastano gli emolumenti sibaritici?
Ma la situazione diviene addirittura ridicola di fronte a certe regie dei nostri famosi registar che a loro dire hanno salvato l’opera, che si vantano di attualizzare l’opera. Tutto ciò, i frac dell’orchestra, i registar, i conductstar, ossia tutto il complesso di esecutori e ascoltatori che in religioso silenzio assiste, è in stridente contrasto con gli allestimenti cervellotici e demenziali che non rispettano l’opera e, non rispettando il contesto storico, non rispettano la cultura e appaiono solo come coscienti e provocatori massacri di quella cultura romantica che li ha generati. Quella stessa cultura che chiedeva rispetto e che rispettava i contesti storici. Non parlo dei conductstar, che rispettano religiosamente lo spartito del compositore, almeno superficialmente consapevoli di essere interpreti: non essi stessi geni musicali ma attenti traduttori di chi quel genio lo possedeva, ma dei registar che massacrano la parte visiva dello spettacolo producendo, ad esempio, un Otello magari in ambiente borghese che in giacca e cravatta canti a piena voce “Esultate l’orgoglio musulmano è sepolto in mar, nostra e del cielo è gloria dopo l’armi lo vinse l’uragano.” o un Falstaff ambientato in un ricovero di poveri vecchi, o un Wagner catapultato in banali ambienti nazisti. Capita di peggio: capita anche addirittura varino la trama. Non mi dilungo. Il contrasto è stridente e offende il contesto storico, i compositori, l’opera lirica ma non, evidentemente, l’imperversante banda CULTURA–CULTURA- CULTURA, ARTE-ARTE – ARTE, che si produce in scomposti, fanatici, erotico-mistici osanna.

lunedì 13 gennaio 2020

10 L’evento Strehler e il suo significato Capitolo 10 de il Manifesto degli incivili


L’evento Strehler è significativo. Significativo per lo stato della cultura musicale occidentale e ancor più per quello della musicale italiana, per la quale, soprattutto per la forma “opera lirica”, si può parlare di una vera e propria Caporetto. Il paragone con la prima parte del novecento, con l’ottocento e con i secoli precedenti è umiliante. L’opera musicale è stata inventata in Italia e, dall’Italia si è diffusa in tutto il mondo. In quei secoli i teatri italiani rappresentavano le opere di autori italiani e stranieri. Ancora per tutto l’ottocento e il primo novecento gli Dei della musica erano i compositori, erano Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi, Wagner, Mascagni, Puccini. Non i Registar, non i Conductstar anche se molti compositori erano propensi ad appoggiarsi ai grandi cantanti fino al punto da comporre, tenendo conto delle capacità vocali degli interpreti. Ma erano loro a decidere, loro a comporre e lo facevano tenendo conto dei vincoli e dalle possibilità degli interpreti. Oggi non è più così, oggi gli autori non vengono più rappresentati e i teatri pescano sempre nel solito repertorio dell'Ottocento e del primo novecento.
Colpa loro o colpa della società cultura CULTURA-CULTURA-CULTURA - ARTE-ARTE-ARTE, che di parole e di retorica ne fa a bizzeffe ma di arte e cultura né fa ben poca? Poca e di tipo parassitario. Pesca dal passato, non produce né arte né cultura ma in compenso produce spese, emolumenti e debiti. Montagne di debiti. La cultura e l’arte danno da mangiare come dice il ministro? Forse. Forse a qualcuno; ma non certo al cittadino italiano, che quel’"non arte e non cultura" deve finanziare a non finire.
I nuovi Dei non sono i Verdi, i Bellini, i Wagner ma i registar e i conductstar: gli Abbado, i Muti, gli Strehler, gli Zeffirelli, il che è come dire, per fare un paragone letterario forse non preciso ma illuminante, che gli Dei letterari non sono Balzac, Tolstoj, Borges, Proust, Joyce, Grass ma i loro oscuri e sconosciuti traduttori.
Siamo alla frutta, siamo alla Caporetto. Una frutta e una Caporetto, in un paese che l’opera lirica l’ha inventata e prodotta per generazioni e che ora non inventa più nulla; in un paese che copre di denaro i suoi imbelli registar e i suoi imbelli direct-star, meri “traduttori” del genio altrui e che di quel genio inventivo non ne possiedono neppure un grammo.
La società CULTURA – CULTURA - CULTURA – ARTE - ARTE - ARTE ama parlare di turismo, di cultura, di brand italiano, di giacimenti culturali colossali, di riserve intonse che opportunamente sfruttate potrebbero farci vivere di turismo culturale, farci mangiare con il turismo culturale, affermazione assolutamente falsa quanto quella che si può vivere dli agricoltura e di turismo. Si guardi il veneto, forse la regione potenzialmente più forte al mondo come possibilità turistiche e agricole con i suoi vini, con la sua agricoltura, con le sue dolomiti, le sue Alpi, i suoi campi da sci, le sue spiagge, i suoi tesori culturali di Venezia, Verona, della ville venete. Ebbene con tutte queste ricchezze agricole, paesaggistiche, culturali penso che nessun veneto dotato di sale in zucca penserebbe che agricoltura e turismo sono sufficienti al suo benessere. Stesso ragionamento per Emilia Romagna e Toscana
Ma Torniamo ai nostri favolosi giacimenti culturali e agli sforzi che la Cultura fa per aprire questi colossali giacimenti, queste fantomatiche miniere, che sicuramente esistono, ma sono e rimangono chiuse. A cominciare da Palestrina, da Monteverdi, da Cavalli, per tutto il seicento, il settecento, l’ottocento il percorso è costellato di grandi opere e di grandi autori ma in quale repertorio o teatro o stagione avete mai visto capolavori assoluti come, ad esempio, il Jefte di Carissimi o il S. Giovanni Battista di Stradella che non trovano posto neppure nei cartelloni dei piccoli teatri? Loro sono e rimangono sconosciuti, mentre le fameliche coppie Conductstar e Registar imperano e continuano a poppare generosi pasti dalle ormai asfittiche mammelle di stato per produrre sempre, non nuovo “cibo culturale”, ma nuovi deficit, nuovi debiti e nuovi esibizioni di CULTURA–CULTURA-CULTURA, ARTE-ARTE-ARTE. La cultura dà da mangiare? A loro sicuramente sì, a noi no.

Decadimento artistico e culturale, mammelle di stato e autori che non vengono rappresentati. Chi non ha speranza di essere rappresentato non produce, non compone, si dedica ad altro, abbandona lo sforzo creativo e cerca vie nuove come l’insegnamento o la direzione. Comporre vuol dire spremitura dolorosa, fatica, tante fatica che può produrre solo delusioni. Colpa loro che non producono arte ed emozioni o della superficiale società CULTURA-CULTURA-CULTURA, ARTE - ARTE – ARTE, quella dei Registar, dei Conductstar, loro e le loro bacchette magiche da fatine di Pinocchio, degli infiniti festival, dei teatri stabili e instabili, delle produzioni vecchie e nuove, dei debiti vecchi e nuovi che s’accavallo ai vecchi, incapaci di creare un ambiente artistico culturale favorevole all'esplosione creativa? Certamente anche le buone radici muoiono se il terreno è inadatto e se non le si nutre.
La questione è resa ancor più complessa dall'opposizione musica colta/musica pop e dall'opposizione tradizione/innovazione. Non è un caso che la frattura si sia generata e sia diventata sempre più profonda con l’addivenire delle avanguardie all’inizio del secolo scorso. Sicuramente però la cantilena corale CULTURA-CULTURA-CULTURA, ARTE-ARTE-ARTE continua a risuonare assordante. A Torino, la nuova Taurini artistica, turistica, radical chic, perfino i muri delle case ormai ne sono ormai impregnati, insieme con la puzza dei debiti che ha generato e continua a generare.

venerdì 10 gennaio 2020

FI VIVERE ED ESSERE VISSUTI


VIVERE ED ESSERE VISSUTO 

Percorrendo una mappa di senso dei desideri Frasi come: “Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel afferma che il desiderio è la prima forma tramite cui l’autocoscienza fa la sua apparizione nel mondo.” o come: “In un linguaggio non strettamente hegeliano, si potrebbe dire che l’uomo inizia a esserci innanzitutto in quanto desiderio. È nel suo desiderare che egli fa esperienza emotiva di sé, del proprio corpo, degli altri e del mondo.” sembrano avere soprattutto il senso di fondamento sia in quanto sentimenti puri e fondanti sia in quanto rinvio a un passato in cui ogni uomo e l’uomo hanno iniziato a esserci. Concetti che ci invitano a cercare un inizio sia nel passato privato di noi singoli mortali che nel nostro passato di uomini poiché ci parlano di emozioni “pure” e primarie; quello stesso tipo di purezza incontaminata da ogni tipo di teoria con cui molti pensatori neopositivisti vollero caratterizzare le sensazioni, interpretandole come “protocolli” primari, come mattoni su cui edificare il sapere certo. Quella neopositivista fu un’illusione che si dissolse presto e altrettanto illusoria potrebbe essere la ‘purezza’ relativa a desideri e dolori. Eppure quando desideriamo, quando proviamo dolore o piacere, sentiamo così intense in noi quelle affezioni dell’anima da non poterle che considerare pure. Sembrano tali perché, se ci interroghiamo, ad esempio, sul senso del desiderio, non possiamo che riferirlo al circuito “Desiderio => soddisfazione del desiderio => estinzione del desiderio”. Un’intensità e una purezza che paiono spingere verso il passato allo scopo di riunificare queste sensazioni di “purezza” con quelle di fondamento e di cominciamento. Un passato dove poter rispondere a domande di senso del tipo: “Perché abbiamo bisogno di desiderare?”, “Perché non possiamo vivere senza?” 

2. Verso un fondamento 
Il nostro viaggio si rivela, però, presto una delusione che tutta la nostra storia e tutto il nostro teorizzare hanno già prefigurato. La multiformità delle idee sulla realtà indica stratificazioni culturali o teoriche cui neppure la coercitività delle sensazioni sfugge. Tutto assume il senso di segnale, d’informazione e d’anticipazione. Anche quelle sensazioni fisiche di dolore, che parevano all'esperienza ingenua, dolori e basta, ora assumono l'abito di segnali e informazioni di manutenzione. L’uomo che non sente il dolore non sopravvive e l’uomo che non sentì il dolore non sopravvisse. Senza un sistema organizzato di segnalazione di guasti non si eseguono manutenzioni e senza manutenzioni si muore. Il dolore ci giunge con connessioni di pericolo, di paura, di richiesta di manutenzione più o meno urgente in un coacervo di connessioni e anticipazioni teoriche che s’intrecciano a formare quello che pareva un puro dato.  Clicca per continuare a leggere

lunedì 6 gennaio 2020

FI Teorie e raffigurazione

Wittgenstein detestava la prolificazione verticale del teorizzare. Aveva imparato a detestarla valutando quella che lui chiama la “bestiale" teoria dei tipi elaborata da Russell e da lui considerata un'inutile produzione di "chiacchiera" insensata proprio a causa della sua illimitata proliferazione di tipi, di ordini, di numeri e entità. La sua teoria raffigurativa del linguaggio, esposta nel Tractatus, si proponeva proprio di evitare esiti di questo tipo.

Il mondo del Tractatus è un mondo minimo in cui non esiste la generalità illimitata. Le sue tesi sono note: "Il mondo è la totalità dei fatti non delle cose" e "il fatto è un nesso di oggetti". Queste affermazioni ci dicono già molto: ci dicono che esiste un mondo, e che questo mondo è composto di “fatti”: fatti reali, esistenti e oggettivi indipendentemente dal nostro agire nel mondo, dal nostro osservarlo, dal nostro parlarne. Di questi fatti, secondo il Tractatus, noi ci facciamo immagini e queste immagini sono fatti che raffigurano fatti.
L'immagine logica dei fatti è il pensiero che si esteriorizza in proposizioni. Le proposizioni sono esse stesse fatti che, articolandosi come i fatti rappresentati, li raffigurano. Un fatto raffigura un altro fatto quando i due fatti condividono la stessa forma logica; questa condivisione è la condizione affinché l'uno possa essere utilizzato come simbolo dell'altro.
La forma logica è l'organizzazione, la connessione degli oggetti nel fatto; per condividere la forma logica di un fatto, un fatto-proposizione deve avere tanti nomi quanti sono gli oggetti del fatto, riferirsi a essi e presentarli fra loro interconnessi come lo stato di cose in cui intervengono.
Se si esamina il cosiddetto Secondo Wittgenstein si vede che i problemi sono ancora quelli del Tractatus e la contraddizione dire mostrare è ancora viva e quindi viva l'opposizione a qualsiasi distinzione sintassi semantica, a qualsiasi metateoria. Lo si capisce bene quando parla del teorema di di Goedel.



venerdì 3 gennaio 2020

9 Ma perché questo sfacelo? Polifonia monodia, Trovadori, Trovieri, Monteverdi capitolo 9 de Il Manifesto degli incivili


Ricordate i complessi, ricordate i Beatles, quella banda di “sporchi” e cappelloni?
Da giovane vedevo a Sanremo i cantanti sorretti da una orchestra costosissima, quasi come un’orchestra classica. Poi arrivarono i giovani beat (incivilmente sporchi e cappelloni) che s’inventarono i complessi. Quattro, cinque artisti che suonavano strumenti elettronici, che provavano nelle loro cantine, e che, grazie all'amplificazione elettronica, potevano farsi udire da un mare di persone.
Fu una grande innovazione perché riuscirono, senza costi stratosferici, a esprimere la loro musica.
Oggi quei complessi pionieristici sono in grado di fare ascoltare la loro musica da migliaia di persone senza gli enormi costi, i costi stellari, dei sistemi tradizionali. Non solo non chiedono soldi alle mammelle di stato ma ne danno e hanno contribuito enormemente al progresso tecnologico della strumentazione musicale elettronica e della diffusione di piccoli e grandi volumi.
La musica istituzionalizzata, la cosiddetta classica, la finanziatissima musica classica e operistica, non ha imparato questa lezione e ha, invece imboccato un linguaggio difficile, elitario, compreso solo da cerchie ristrette. Un linguaggio sempre più privato che si avvia al mutismo? Wittgenstein ci racconta che se parli un linguaggio privato, nessuno ti capisce. Le prime avanguardie non producevano solo nuovi stili, nuovi linguaggi, nuove immagini ma si affannavano. con articoli, polemiche, manifesti, a illustrare questi loro nuovi linguaggi proprio per farsi capire, per trasformare il loro nuovo linguaggio da linguaggio privato compreso dai soli adepti in un linguaggio pubblico comprensibile ai più.
Qualcosa di simile era già successo nel passaggio dall’alto medioevo al rinascimento e una lezione ci può venire da quegli eventi di transizione. La polifonia era diventata ormai così incredibilmente complessa e sofisticata da richiedere non solo molta dottrina ma un’intensa consuetudine d’ascolto per poter cogliere le singole melodie, il loro intrecciarsi , il loro scontrarsi. Tanto complessa da essere diventata incomprensibile alla pressoché totalità dei fedeli.
Quella era la musica cantata e ascoltata nelle chiese più “in”, ma non certo quella del popolo. Trovadori e trovieri corrispondenti agli odierni cantautori componevano e cantavano non polifonie in latino ma monodie nella lingua compresa dal popolo. Il protestantesimo comprese quella lezione e non solo quella. La vecchia polifonia si estinse e la musica popolare generò quella grande stagione di musica che comprende Mozart, Wagner, Verdi.
Dopo circa altri quattro secoli, le avanguardie hanno sconvolto il nuovo ordine tonale. L’atonalità, la dodecafonia e ancora e ancora. Oggi è difficile negare che, come accadde allora, la musica “seria” sia musica per iniziati. Morte dell’arte? Neanche per sogno! I nuovi Mozart forse non nasceranno dalla musica colta, ormai muta, ma dalla musica popolare, dal Jazz, dal Gospel, dal Rock o da contaminazioni fra la musica popolare e la musica atonale e dodecafonica. Sì, anche la dodecafonica: possiamo dire ciò che vogliamo ma è difficile dire che il Wotzeck di Alban Berg e Mosè e Aronne di Schoenberg non siano grandi capolavori.
La sensibilità popolare rinnoverà non solo la musica ma tutta l’arte dal disastro a cui la stanno portando le élite. Elite che da una parte finanziano (coi nostri soldi) in tutti i modi i teatri d’opera coi loro registar, i loro directstar, che conducono e “regiano” opere di cartellone secondo una contabilità che dovrebbe almeno far sorgere la domanda “Ma perché quell’enorme numero di cittadini che non assiste a nessuna opera lirica, che non frequenta teatri, dovrebbe pagare per l'élite che le frequenta?”
Altre considerazioni possono aiutarci a rispondere a queste domande.