sabato 28 marzo 2020

Premio Nobel ad Hanche. Riotta una caduta d’umanità e di logica



Il nobel allo scrittore che negò i crimini di Milosevich
Spiace e spiace molto criticare l’articolo di Riotta su La Stampa sul Nobel assegnato a Peter Handke. Spiace perché Riotta è fra i pochi giornalisti che leggono con continuità opere letterarie contemporanee, spiace perché ha dimostrato di conoscere la teoria grammaticale di Chomsky. Per la maggior parte dei suoi colleghi giornalisti e opinionisti, Chomsky è solo l’autore di trattati animati da infuocato antimperialismo e anticapitalismo. Saranno pure importanti anche questi, ma, dozzinali, come sono, non sarebbero neppure stati pubblicati, se Chomsky non fosse stato l’inventore della grammatica generativa.
Ciò detto si deve prendere nota che anche Riotta appartiene, è in armi contro gli odiati populismi.
Su La Stampa del 1/11/16  scrive “La classe globale invisa a May, le Pen, Trump, Sanders e Corbyn e ai nostri populismi domestici ha perduto la battaglia del consenso per snobismo, avidità, mancanza di fiducia nei nostri valori. 
Se non vogliamo che, come sempre avviene nella Storia, il nazionalismo liberi i suoi figli rabbiosi, razzismo, antisemitismo, totalitarismo, dobbiamo ripartire da pochi semplici ideali e riforme: lavoro, sviluppo, ricerca, apertura alle altre culture ma con fierezza e difesa.” 
Tutto bene ma perché la parola populismo? Che significa populismo? Delle due frasi citate pare quasi che il populismo sia il nazionalismo che libera i suoi figli rabbiosi, razzismo, antisemitismo, totalitarismo. I nostri figli rabbiosi liberano l'inimicizia contro l'elite e i loro servi, contro i nuovi aristocratici, il nuovo impero. Non l'avete ancora capito oltre che ignoranti avete anche teste ottuse e dure.
A questo punto anche la sua prima frase assume un significato banale. E’ sicuro Riotta che sia democratica una costituzione dove, ad esempio,  i parlamentari hanno il diritto di decidere sul loro numero, sui loro benefit, sulle loro pensioni? O non è che un emblema di una costituzione in cui regna sovrano il conflitto di interessi? 
Naturalmente tutto ciò che altrove è brutto, in Italia è pessimo e lo abbiamo sperimentato con le reazioni alla nascita della Lega, alla discesa in campo di Berlusconi, al tipo di opposizione del tutto antidemocratica contro il berlusconismo.
Prima degli attuali odiati populisti, il populista era Berlusconi col suo partito, coi suoi elettori. Ora non lo è più?  Ma che significa populismo in Italia? Chi si oppone alla democrazia delle elite? Chi vede in questa una variante della vecchia aristocrazia? Chi si oppone all’ingresso dei cittadini di altri stati? Chi vuole la sharia fuori dai propri confini? Chi si oppone alle elite dei giornalisti, delle università, delle menti colte dei professoroni? 

Detto ciò, mi piace poco la dura condanna di Handke è l’altrettanto dura condanna della commissione del Nobel per averglielo assegnato. Per Riotta la giuria ha commesso un errore storico nel trascurare i propositi del fondatore che subordinava il premio alle motivazioni ideali. Ma per favore non inchiniamoci a celebrare il mistico matrimonio fra etica e arte che portò ad assegnare il primo a Giosuè in epoca di egemone culturale mangiapreti, ad Hansum in epoca di egemone vitalismo a Kipling in tempi in cui, dalla Società Civile, l’imperialismo era considerata alta missione religiosa, civile e morale e deprechiamo che quello stesso mistico premio sia stato negato a quei porcelloni di Moravia e di Joyce, a quel fascista di Borges, a quell’altro fascista di Celine, mettendo in forte dubbio che quei supremi accademici abbiano confuso l’idealità con la morale alla moda. Così è stato per Carducci, per Hansum, per Kipling, per Moravia, per Joyce, per Borges, per Celine.
Il Nobel ha sempre saputo rinnovare le sue idealità, e cambiare. Se Riotta e, come penso, molti editorialisti, l’intera Società Civile compresa, condannano, senza se e senza ma, la generazione di Milosevich, viene il sospetto che, al contrario, i professoroni del Nobel abbiano iniziato una revisione dei giudizi sui pensieri e sulla azione di quegli eventi sanguinosi.
La condanna conformista in blocco di quegli attori che riassumono i sentimenti di molti Serbi, riaffiorati dalla notte dei tempi, e la loro condanna “Senza Se e senza Ma” mi pare ottusa: proprio nella forma dei vari “Sì… MA…” , “No… Ma…”, così comuni nel nostro ragionare, si nasconde la realtà.    
L’uso di sintagmi del tipo “No, non condanno ma ”, “Si, assolvo ma…”, è salvifico.
Con il si dà un giudizio, con il ma si espone una giustificazione o un’attenuante. La forma proposizionale del si ma gestisce non solo una logica giudiziaria ma anche una logica politica.
Forme come “Il tale è colpevole ma era stato provocato da…..“E’ vero ma…” sono paradigmatiche e invano si tenterebbe di analizzare quel “Ma” come una particella logica vero funzionale. La forma quando viene usata nel discorso politico, pare composta da un giudizio di assoluzione o di condanna relativo a un certo evento e da un racconto che tende a modificare il verdetto del giudizio. Il racconto di cui si parla è in genere un racconto storico e segue quindi la logica del racconto storico; ma qual è la logica del racconto storico?
Quando ci dedichiamo alla storia, cerchiamo di capire la concatenazione fra gli eventi. Capire vuol dire connettere in qualche modo (catene di coordinazione, subordinazione, connessioni causali, finalistiche o probabilistiche) affinché si possa concludere “Questo è accaduto perché in precedenza è accaduto quest’altro”, “Agì in questo modo per queste ragioni”, “Agì perché motivato da …”.
L'allievo che ascolta una spiegazione di storia in questo non è diverso dal professore che la illustra: per l’uno e per l’altro l’obiettivo è la comprensibilità, il professore cerca di trasmetterla e l’allievo di comprenderla. 
Ma che significa "comprensibilità"?  
Il “Comprendere” assume significazione nel connettere fra loro gli eventi. Non sarebbe comprensibile che una palla calciata a Roma arrivi fino a Milano perché il lancio di una palla, il suo volo e il suo approdo sono connessi da leggi fisiche incompatibili con un simile evento. Anche nella storia, raccontando gli eventi, cerchiamo di connettere le azioni, gli attori, gli esiti, in base cercando le cause, le motivazioni, i caratteri, le situazioni, i fini e così via. Proposizioni quali: “Il tale Presidente fece questo perché doveva reagire”, “Il tal generale si mosse nel tal modo perché voleva raggiungere quel tal obiettivo”, ci dicono come si debba ricorrere a tutti i tipi di connessioni-motivazioni di tipo politico, comportamentale, statistico, sociologico, psicologico, fisico, ecc. per riuscire a connettere gli eventi in una catena o in una ramificazione di catene. 
Anche se molti filosofi della storia storcerebbero il naso, l’ideale della comprensibilità è la “necessità”. Anche se lo si ammette con difficoltà, una serie di eventi è tanto più compresa quanto più la catena che li connette è necessaria, ossia quanto più crea tra gli eventi dei vincoli che escludono tutti i possibili gradi di libertà: la storia è tanto più ’comprensibile’ quanto più le connessioni sono necessarie, quanto più il percorso è irrigidito in una serie di ragioni e cause che non lasciano spazio ad altre possibilità. Lo sforzo di comprensibilità assume così le forme di una razionalizzazione secondo forme. Col nascere della riflessione sulla storia e sulle narrazioni della storia, nasce anche la tensione verso la razionalizzazione in forme di necessità. Se Erodoto racconta la storia come una successione di contingenze, Tucidide racconta l’addivenire della guerra tra Sparta e Atene come un evento ineluttabile e un destino già depositato nella filigrana degli eventi che la precedettero. Tucidide raccontava ma non teorizzava. La razionalizzazione della storia come teoria avvenne molto più tardi e per analizzarla e trarne conseguenze dobbiamo ritornare al razionalismo illuminista Il mito della ragione illuminista permeò una cultura ma questa cultura continuò. Il romanticismo fu una reazione alla ragione astratta dell’illuminismo ma a questa ragione astratta i romantici opposero le ragioni della storia, delle tradizioni, dei miti, dei costumi, dei sentimenti ma in parte la incorporarono nei loro sistemi d’interpretazione della storia. Con Hegel la ragione diveniva la logica del comprendere e contemporaneamente la logica dell’essere e del divenire. Per lui “Ciò che razionale è reale e ciò che è reale è razionale”. Comunque la si voglia interpretare, questa formula più volte richiamata da Hegel, ci invita a considerare razionale e necessario lo svolgersi degli eventi storici. Hegel originò un movimento e creò un paradigma. Anche Marx si sentirà in dovere di completare il suo materialismo storico con un materialismo dialettico che rendeva congeneri i mondi della storia e della natura.
La forma “Si… Ma…” è composta da un giudizio di valore e una storia. E’ la necessità di capire il perché degli eventi a indurci a inserire la storia in una catena di necessità. E’ quasi una necessità ‘vitale’ e salvifica. Così noi parliamo di storia come maestra di vita, così noi ‘giustifichiamo’ gli eventi. li ‘giustifichiamo’ e, sull’ambiguità paradigmatica di quel ‘giustificare’, li connettiamo comunque con inesorabilità. Se è la necessità a muovere, è la stessa necessità a giustificare: quasi come se chi è obbligato a compiere un’azione, non ne avesse responsabilità. colpa o merito, chiudendo al giudizio morale: ciò che è avvenuto è tale perché giustificato e/o imposto dagli eventi, anche se la narrazione storica non riesce, certo, a essere esposta come se ogni evento fosse un teorema. Ma accanto a questa constatazione è altrettanto indubbia la tensione verso la massima ‘comprensibilità’ intesa come necessità.
Se, invece, entriamo in una logica di contemporaneità la guida è la logica giudiziaria. 
Nella logica del processo giudiziario la catena degli eventi e delle loro connessioni viene spezzata, perché oggetto di giudizio sono le singole azioni, che, disarticolate dalla catena di connessioni, perdono il loro carattere di necessità. Un’azione delittuosa viene giudicata in quanto tale al sì o al no mentre le possibili connessioni causali, giustificatorie, ambientali, assumono uno statuto logico di provocazione, reazione, influenza, ecc. con precisi sensi giuridici che le porta a intervenire nel calcolo del giudizio finale, come attenuanti o aggravanti, ciascuna giuridicamente prevista e definita in gradazione e peso, affinché possa entrare nel calcolo della quantità di pena attribuita per il delitto, considerato come fatto a sé. 
Naturalmente non tutte le attenuanti sono del tipo ambientale, storico e causale. La mancanza di precedenti non ha in genere nessun nesso causale con l’evento delittuoso oggetto del giudizio ma è in genere “attenuante” così come l’essere commesso in associazione con altri soggetti è in genere un ‘aggravante’ ma tutto ciò non fa che confermare la differenza delle due logiche, anche se questo non vuol dire che nel processo non si cerchi quello stesso tipo di comprensibilità, perchè l’insieme degli eventi, e la loro connessione, deve essere in ogni caso capita, deve essere comprensibile e avere un senso; questo è possibile solo inserendo il fatto specifico in una serie di connessioni che attribuiscono senso. 
Ciò che cambia profondamente è però la logica. In quella processuale il presupposto è l’esistenza della ‘libertà’ delle azioni e la 'responsabilità’ che le accompagna. La logica processuale è il regno della libertà e della responsabilità, se non lo fosse non potrebbe essere emesso alcun giudizio di condanna o di assoluzione. 
Se la razionalità storica tende a instaurare il regno della necessità la razionalità del processo giuridico è il regno della libertà. Il passaggio dal “sì” al “ma”, segna il passaggio dalla logica della libertà a quella necessità. 
Se trasportiamo la prima concettualità nel mondo giudiziario, avremo come conseguenza che nessun delitto può essere sanzionato, perché l’autore del delitto risulterà sempre non libero nella sua scelta ma costretto dagli eventi. Il mondo giudiziario non sparirebbe ma sarebbe circoscritto al compito di accertare il delitto, di accertare l’autore (non ‘responsabile’ ma ‘autore’). Al contrario se riconosciamo una libertà illimitata dovrebbero sparire nella valutazione del ogni tipo di attenuante. In ogni caso assume un significato discriminatorio l’opposizione determinismo/libertà. 
Senza spingersi oltre si può concludere che un giudizio “Si …Ma” è l’espressione di un giudizio eminentemente politico, che deve essere compreso nella sua origine, nella sua possibilità e nel suo senso tenendo in debito conto cosa comporti il cambio di paradigma o la confusione dei paradigmi adottati. E’ compito del pensiero politico, svolgere quell’opera di chiarimento e distinzione senza i quali ogni giudizio politico diventa, a sua volta, paradigma d’incomprensione e di sistematica ambiguità.
La formula del “Si ma o no ma”. che domina i nostri ragionamenti, i nostri giudizi, i nostri discorsi ci dimostra che ci appoggiamo ben saldi su una confusa, indecidibile ambiguità. Noi, come Riotta, noi, come coloro che hanno assegnato il Nobel. Non pensiamo che Handke approvi il massacro di Srebrenica ma che abbia sempre pensato e sostenuto le sue convinzioni secondo l’ambiguità del si ma e del no ma. Di fronte al palestinese che si fa esplodere su un tram israeliano, all’abbattimento delle torri gemelle, al massacro di Srebrenica, al bombardamento di Clinton e della Nato delle città serbe, dei ponti serbi, dei treni serbi, sappiamo che vengono emessi tanti verdetti di Sì senza Ma, di No, senza Ma e di altrettanti Si Ma e No ma, come quello di Handke. 
Se Riotta avesse parlato con qualche serbo, anche giovane, saprebbe che per troppe generazioni di fronte alla repressione, al sangue slavo versato dagli ottomani, durissimi nel reprimere i “partigiani”, se avesse meditato dell’enorme valore mitico di sacrificio ed eroismo di cui si sono caricate le battaglie perse dai serbi contro gli ottomani in Kosovo, che proprio in virtù di questa comprensione mitica (vedi Cassirer) considerano il Kosovo, con le sue chiese erette in memoria, territorio serbo e cristiano, se avesse valutato quanto dentro la memoria collettiva serba era vivo. Vivo quanto l’ordine morale che sanciva “Ora non possiamo cacciarli, ora non possiamo ribellarci ma la nostra memoria rimane nella nostra anima di Serbi” e invitava i padri serbi a non dimenticare e a trasmettere questa promessa a figli e nipoti, e figli e nipoti per secoli “Non dovete dimenticare, dovere mantenere viva la fiamma, verrà il giorno sacro della giustizia”, capirebbe quanto valore ha avuto a Srebrenica, prima e dopo Srebrenica il “MA” serbo. Del Resto Riotta, giornalista colto e non ignorante come tanti suoi colleghi, ha senz’altro letto “Il ponte sulla Drina” a cui il nuovo Nobel rinvia e l’agghiacciante, lunga, calma, descrizione dell’impalazione ottomana.
Stiamo correndo in tutto il mondo in una successione di vendette senza fine e non è certo ciò che noi “incivili” vogliamo. Ma c’è un’alternativa? Fascista di qui, fascista di là, barbaro, incivile, sovranista, costruttore di muri. E ancora e ancora: un’infaticabile corsa all’insulto ingigantitasi con la discesa in campo di Berlusconi. Avete perfino bruciato in strada il suo ritratto. Mai un segno di ravvedimento: i nostri scritti, i nostri saggi, i nostri romanzi che parlano di Foibe, di repubbliche di Platone, puntualmente respinti, giacciono nei cassetti. Neppure più li scriviamo: non servirebbe a nulla. Volete imporci una memoria comune che poi non è altro che la Vostra falsa memoria. Noi abbiamo la nostra e non vogliamo nessuna memoria comune. Almeno quella. Tenete almeno a bada i vostri cani che vorrebbero imporre la vostra a suon di censure.

Nel suo BUONGIORNO dal titolo L’intransigenza del bene, Mattia Feltri ricorda come in una lezione agli studenti dell’università del Michigan nel 1987 Brodskij (un’altro Nobel) che il male è umano, ammorbidendo l’affermazione con l’invito di non fare mai le vittime, e di controllare il proprio dito indice assetato di biasimo. “Nel momento in cui si localizza la colpa, si mina la determinazione a cambiare qualcosa” Il giudice, e specialmente se volontario e collettivo: quello gli faceva paura.
Quando Brodskij nella sua conferenza realisticamente, prima di ammorbidirla, afferma che il male è umano, non fa altro che aprire gli occhi anche all’interno di quella che si vorrebbe far passare per la civilissima Europa, la civilissima Nato, il civilissimo Onu.
Vengono prodotti film, telefilm in cui la vendetta, la rivalsa, (additate come giustizia) assumono la personalità di individui offesi, a cui lo stato, la comunità, la forza della civiltà non presta attenzione o da risposte del tutto insufficienti a placare quello che per la società civile è barbarie e per loro giustizia. Questi commissari, questi amici, questi parenti  vendicatori anche nelle brevi frasi di presentazione vengono presentati come giustizieri che agiscono con “Metodi anche non convenzionali” per perseguire la giustizia. Gli spettatori escono dal film, dal tele film con un animo placato come avessero assistito a vicende che sul difficile crinale del male e del bene dell’ingiustizia che attende giustizia, avessero infine assistito a un “lieto fine”, alla fine di una tensione vissuta  e placata finalmente dall’esecuzione della vendetta. In contrapposizione le tivù di stato mettono in scena film e telefilm dove, al contrario, avviene il lieto fine, senza il ricorso a metodi non convenzionali e seguendo i dettami della civiltà, quella che caratterizza la civilissima Europa, l’ONU, ecc. Anche in questi spettacoli la giustizia di stato arriva sempre, il lieto fine, sempre. Il colpevole viene sempre trovato, o la sua anima, soccorsa dalle provvidenziali parole, del don Matteo di turno, si pente e confessa, accettando la giusta pena, di cui non si parla mai. Se non esiste un don Matteo che passa il suo tempo nella caserma dei carabinieri, esiste tutta una pletora di marescialli, di indagatori, di indagatrici, di commissari che vivono tutti in paesotti, in contee, in cittadine con un numero di abitanti variabile da qualche migliaio a poche decine di migliaia ma letteralmente infestati dai delitti, uno due alla settimana o al mese, tutti brillantemente risolti, tutti ricondotti a buon fine ad edificazione delle vecchia e della nuove generazioni, affinché tutte le anime buone capiscano e si convincano che il paese dei balocchi non esiste solo nel libro di Pinocchio ma è saldante insediato nella nostra civilissima civiltà, purché questi zucconi e barbari qualunquisti della barbarie si convertano finalmente, come il Manzoniano Innominato non a Dio ma alla luce della società civile. 

E ora guardiamo il famigerato massacro di Srebrenica, la mattanza di Srebrenica. Una mattanza senza pietà che non è avvenuta da un minuto all’altro ma la cui generazione si è evoluta con lentezza davanti agli occhi volutamente distratti della civilissima Europa, rigenerata da un passato imperialista, e anche del civilissimo, dal civilissimo Onu che aveva addirittura le sue truppe, ben armate a poca distanza, quasi a tiro di fucile, dalla Srebrenica maomettana, assediata dai serbi cristiani animati da secoli di desideri di rivalsa e vendetta, in attesa del giorno in cui il sole sarebbe sorto il sole nero. 
L’ONU, la Nato, l’UE, vedevano che l’assedio stava concludendosi, che la città sarebbe caduta e sarebbe arrivata la strage della vendetta, ma a quelle truppe Onu non arrivò affatto l’ordine di interposizione, di salvaguardia. Perfettamente a conoscenza di ciò che sarebbe accaduto ipocritamente guardavano da un’altra parte e il comandante, privo di comandi fu lasciato solo a decidere in una situazione che sotto traccia lasciava intendere: lasciamo che, finalmente, vendetta tanto attesa avvenga. Così probabilmente il comandante interpretò quell’incomprensibile distratta afasia, quell’attendista disinteresse, come un ordine sottinteso che veniva dall’alto, e non si mosse. Lui fu poi processato, ma dovevano essere processati tutti quelli che in quella lunga attesa si voltarono dall’altra parte e attesero. 
Del resto gli ipocriti avevano dalla loro parte uno sterminato numero di comportamenti addirittura più pesanti, anche questi concessi come vendette. Le stragi dei soldati russi, il via libera alle vendette dei partigiani, italiani e francesi per qualche giorno. Ma oltre al via libera ai soldati russi e ai partigiani di ogni paese, c’erano stati altri orrori impuniti, del tutto impuniti a cominciare dal bombardamento indiscriminato delle città tedesche e italiane, un vero e proprio massacro non di stabilimenti e obiettivi bellici, ma di abitati civili, di secoli di civiltà, di monumenti, di chiese, di civili, attuato in piena consapevolezza e portato avanti con lucida criminalità col solo obiettivo di fiaccare gli animi dei civili e di provocare una loro insurrezione che non aveva la minima possibilità di avvenire. Così fu bombardata Dresda, la Firenze del nord, con l’intento della distruzione totale. Un bombardamento proseguito per giorni e giorni su ogni suo angolo, con l’intento dichiarato di farne un mucchio di macerie, di incendiare e polverizzare ogni cosa, rendendola irrespirabile e mortale l’aria per la cenere, i veleni, il fuoco l’atmosfera rovente, coi muri, le pietre, le strade che prendevano fuoco. Un bombardamento che ebbe un testimone americano d’eccezione, che lo raccontò in un suo romanzo testimonianza.    
Leggano il romanzo-memoria di Kurt Vonnegut, grande, umanissimo scrittore americano prigioniero in una cella a Dresda, quel Mattatoio n 5 altrettanto efficace della Guernica di Picasso, che ben cosciente di non poter rendere sulla tela l’orrore di quelle bombe e degli abitanti, con un quadro realistico o cubista, ricorse alle invenzioni del fumetto americano con un capolavoro capace di raccontare e trasfigurare. Non ci fu un’ altra Guernica per Dresda ma il libro di Kurt Vonnegut relegato dalla società civile degli intellettuali, quasi a bizzarro romanzo di fantascienza. 
Dopo ai serbi toccarono altre morti, altre distruzioni quando i capi del mondo civile, Non l’Onu che non diede il permesso e al quale neppure fu chiesto, ma la Nato scatenò le forze aeree, le bombe dall’alto sulle truppe serbe, sui civili serbi, sulla Serbia, perfino sulla capitale serba e sui treni serbi, per favorire l’indipendenza del Kosovo, di quella terra sacra per i serbi per cui i loro progenitori si erano sacrificati per fermare le orde massacratrici turche.   
E i serbi hanno dovuto assistere all’elevazione del Kosovo, del loro Kosovo coi loro santuari,  a stato indipendente sotto la protezione dell’UE che li finanziava e che di fatto li manteneva. Strana concezione della civiltà del diritto di autodeterminazione, neppure considerato, in Crimea, in catalogna, in Corsica, sulle montagne spagnole abitate dai baschi, popolo culturalmente indipendente da sempre addirittura con una antichissima lingua propria. 

Di fronte alle difficoltà di un si ma che non poteva essere ridotto a un sì senza ma, la società civile sta insistendo da anni sulla creazione di una memoria comune pacificatrice, di una memoria condivisa ma in modo così goffo e partigiano da renderla impossibile. Basti pensare alle Foibe, ancor oggi dopo settantacinque anni, forse settantasette. 
Scrive Pier luigi Battista il 17-2 sul corriere nella sua scheda Particelle elementari:
Davvero non si capisce, a 75 anni di stanza, un’eternità, questo ottuso residuo negazionista di una parte della cultura di sinistra sulle Foibe. Questa incredibile e testarda mitizzazione sulle migliaia e migliaia di italiani infoibati, sull’orrore delle famiglie sterminate,, sul fil di ferro che legava i polsi delle vittime sulla sommità di quelle voragini per risparmiare sui proiettili si sparava a uno e se ne ammazzavano dieci. Questa spessa coltre di imbarazzo che ancor oggi, ma perché?Impedisce di vedere la verità storica, non sa comprendere il senso del linciaggio e dell’isolamento con cui quasi trecentomila istriani e dalmati – poche cose raccolte nella fuga, il terrore stampati sugli occhi dei bambini, nessuna notizia sui parenti spariti nelle foibe - vennero oltraggiati dall’Italia, messi al bando, accolti dall’ostilità alla stazione di Bologna, perché non avevano voluto trasformarsi in sudditi del comunismo di Tito, il capo dei massacratori…
Non sto a riportare tutto l’articolo, visibile sul Corriere  

Di fronte a parole come queste che si può dire? Di fronte alla prole di Brodskij che si può dire. Memoria condivisa? Che vuol dire? Che non si ha diritto alla giustizia? No, risponderebbe la società buonista e civile, ben sapendo che, però, che gli ottomani nei Balcani ci sono e non possono essere cacciati. 
Rinuncia all’inimicizia, al biasimo in nome di cosa? Ancora le vittime invitate a non fare neppure le vittime a non protestare, a dimenticare? Ad aderire in pace a una memoria comune? La società dei colpevoli e dei loro eredi non deve fare nulla? Molti di noi si stanno ribellando a una democrazia trasformata in un’elitaria repubblica di Platone e non c’è nessuna marcia indietro. Nessun dovere per chi ci chiama ignoranti e barbari? Neppure il tentativo di capire le nostre argomentazioni? No, censura, censura, censura. I nostri scritti, che siano saggi o romanzi non arrivano mai in libreria. 
La condanna dei serbi e di Milosevic nell’Europa della civiltà, Nell’impero del “Bene” è unanime ed è arrivata fino al tribunale internazionale. Chi come Handke li difendeva opponendo alla logica del sì senza se e senza ma opponeva la logica del Si ma veniva ostracizzato, additato al pubblico sdegno, bollato come criminale


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