Il nobel allo scrittore che negò i crimini di Milosevich
Spiace e spiace molto criticare l’articolo di
Riotta su La Stampa sul Nobel assegnato a Peter Handke. Spiace perché Riotta è
fra i pochi giornalisti che leggono con continuità opere letterarie
contemporanee, spiace perché ha dimostrato di conoscere la teoria grammaticale
di Chomsky. Per la maggior parte dei suoi colleghi giornalisti e opinionisti,
Chomsky è solo l’autore di trattati animati da infuocato antimperialismo e
anticapitalismo. Saranno pure importanti anche questi, ma, dozzinali, come
sono, non sarebbero neppure stati pubblicati, se Chomsky non fosse stato
l’inventore della grammatica generativa.
Ciò detto si deve prendere nota che anche Riotta
appartiene, è in armi contro gli odiati populismi.
Su La Stampa del 1/11/16 scrive “La
classe globale invisa a May, le Pen, Trump, Sanders e Corbyn e ai nostri populismi
domestici ha perduto la battaglia del consenso per snobismo, avidità,
mancanza di fiducia nei nostri valori.
Se non vogliamo che, come sempre avviene nella Storia,
il nazionalismo liberi i suoi figli rabbiosi, razzismo, antisemitismo,
totalitarismo, dobbiamo ripartire da pochi semplici ideali e riforme: lavoro,
sviluppo, ricerca, apertura alle altre culture ma con fierezza e difesa.”
Tutto bene ma perché la parola populismo? Che
significa populismo? Delle due frasi citate pare quasi che il populismo sia il
nazionalismo che libera i suoi figli rabbiosi, razzismo, antisemitismo,
totalitarismo. I nostri figli rabbiosi liberano l'inimicizia contro l'elite e i loro servi, contro i nuovi aristocratici, il nuovo impero. Non l'avete ancora capito oltre che ignoranti avete anche teste ottuse e dure.
A questo punto anche la sua prima frase assume un significato
banale. E’ sicuro Riotta che sia democratica una costituzione dove, ad esempio, i
parlamentari hanno il diritto di decidere sul loro numero, sui loro benefit,
sulle loro pensioni? O non è che un emblema di una costituzione in cui regna
sovrano il conflitto di interessi?
Naturalmente tutto ciò che altrove è brutto, in
Italia è pessimo e lo abbiamo sperimentato con le reazioni alla nascita della
Lega, alla discesa in campo di Berlusconi, al tipo di opposizione del tutto
antidemocratica contro il berlusconismo.
Prima degli attuali odiati populisti, il
populista era Berlusconi col suo partito, coi suoi elettori. Ora non lo è
più? Ma che significa populismo in Italia? Chi si oppone alla democrazia
delle elite? Chi vede in questa una variante della vecchia aristocrazia? Chi si
oppone all’ingresso dei cittadini di altri stati? Chi vuole la sharia fuori dai
propri confini? Chi si oppone alle elite dei giornalisti, delle università,
delle menti colte dei professoroni?
Detto ciò, mi piace poco
la dura condanna di Handke è l’altrettanto dura condanna della commissione del
Nobel per averglielo assegnato. Per Riotta la giuria ha commesso un errore
storico nel trascurare i propositi del fondatore che subordinava il premio alle
motivazioni ideali. Ma per favore non inchiniamoci a celebrare il
mistico matrimonio fra etica e arte che portò ad assegnare il primo a Giosuè in
epoca di egemone culturale mangiapreti, ad Hansum in epoca di egemone vitalismo
a Kipling in tempi in cui, dalla Società Civile, l’imperialismo era considerata
alta missione religiosa, civile e morale e deprechiamo che quello stesso
mistico premio sia stato negato a quei porcelloni di Moravia e di Joyce, a quel
fascista di Borges, a quell’altro fascista di Celine, mettendo in forte dubbio
che quei supremi accademici abbiano confuso l’idealità con la morale alla moda.
Così è stato per Carducci, per Hansum, per Kipling, per Moravia, per Joyce, per
Borges, per Celine.
Il Nobel ha sempre saputo rinnovare le sue
idealità, e cambiare. Se Riotta e, come penso, molti editorialisti, l’intera
Società Civile compresa, condannano, senza se e senza ma, la generazione di
Milosevich, viene il sospetto che, al contrario, i professoroni del Nobel
abbiano iniziato una revisione dei giudizi sui pensieri e sulla azione di
quegli eventi sanguinosi.
La condanna conformista in blocco di quegli
attori che riassumono i sentimenti di molti Serbi, riaffiorati dalla notte dei
tempi, e la loro condanna “Senza Se e senza Ma” mi pare ottusa: proprio nella
forma dei vari “Sì… MA…” , “No… Ma…”, così comuni nel nostro ragionare, si
nasconde la realtà.
L’uso di sintagmi del tipo “No, non condanno ma
”, “Si, assolvo ma…”, è salvifico.
Con il sì si dà un giudizio, con il ma
si espone una giustificazione o un’attenuante. La forma proposizionale del si
ma gestisce non solo una logica giudiziaria ma anche una logica politica.
Forme come “Il tale è colpevole ma era stato
provocato da…..“E’ vero ma…” sono paradigmatiche e invano si tenterebbe di
analizzare quel “Ma” come una particella logica vero funzionale. La forma
quando viene usata nel discorso politico, pare composta da un giudizio di
assoluzione o di condanna relativo a un certo evento e da un racconto che tende
a modificare il verdetto del giudizio. Il racconto di cui si parla è in genere
un racconto storico e segue quindi la logica del racconto storico; ma qual è la
logica del racconto storico?
Quando ci dedichiamo alla storia, cerchiamo di
capire la concatenazione fra gli eventi. Capire vuol dire connettere in qualche
modo (catene di coordinazione, subordinazione, connessioni causali,
finalistiche o probabilistiche) affinché si possa concludere “Questo è accaduto
perché in precedenza è accaduto quest’altro”, “Agì in questo modo per queste
ragioni”, “Agì perché motivato da …”.
L'allievo che ascolta una spiegazione di storia
in questo non è diverso dal professore che la illustra: per l’uno e per l’altro
l’obiettivo è la comprensibilità, il professore cerca di trasmetterla e
l’allievo di comprenderla.
Ma che significa
"comprensibilità"?
Il “Comprendere” assume significazione nel
connettere fra loro gli eventi. Non sarebbe comprensibile che una palla
calciata a Roma arrivi fino a Milano perché il lancio di una palla, il suo volo
e il suo approdo sono connessi da leggi fisiche incompatibili con un simile
evento. Anche nella storia, raccontando gli eventi, cerchiamo di connettere le
azioni, gli attori, gli esiti, in base cercando le cause, le motivazioni, i
caratteri, le situazioni, i fini e così via. Proposizioni quali: “Il tale
Presidente fece questo perché doveva reagire”, “Il tal generale si mosse nel
tal modo perché voleva raggiungere quel tal obiettivo”, ci dicono come si debba
ricorrere a tutti i tipi di connessioni-motivazioni di tipo politico,
comportamentale, statistico, sociologico, psicologico, fisico, ecc. per
riuscire a connettere gli eventi in una catena o in una ramificazione di
catene.
Anche se molti filosofi della storia storcerebbero il naso,
l’ideale della comprensibilità è la “necessità”. Anche se lo si ammette con
difficoltà, una serie di eventi è tanto più compresa quanto più la catena che
li connette è necessaria, ossia quanto più crea tra gli eventi dei vincoli che
escludono tutti i possibili gradi di libertà: la storia è tanto più
’comprensibile’ quanto più le connessioni sono necessarie, quanto più il
percorso è irrigidito in una serie di ragioni e cause che non lasciano spazio
ad altre possibilità. Lo sforzo di comprensibilità assume così le forme di una
razionalizzazione secondo forme. Col nascere della riflessione sulla storia e
sulle narrazioni della storia, nasce anche la tensione verso la
razionalizzazione in forme di necessità. Se Erodoto racconta la storia come una
successione di contingenze, Tucidide racconta l’addivenire della guerra tra
Sparta e Atene come un evento ineluttabile e un destino già depositato nella
filigrana degli eventi che la precedettero. Tucidide raccontava ma non
teorizzava. La razionalizzazione della storia come teoria avvenne molto più
tardi e per analizzarla e trarne conseguenze dobbiamo ritornare al razionalismo
illuminista Il mito della ragione illuminista permeò una cultura ma questa
cultura continuò. Il romanticismo fu una reazione alla ragione astratta
dell’illuminismo ma a questa ragione astratta i romantici opposero le ragioni
della storia, delle tradizioni, dei miti, dei costumi, dei sentimenti ma in
parte la incorporarono nei loro sistemi d’interpretazione della storia. Con
Hegel la ragione diveniva la logica del comprendere e contemporaneamente la
logica dell’essere e del divenire. Per lui “Ciò che razionale è reale e ciò che
è reale è razionale”. Comunque la si voglia interpretare, questa formula più
volte richiamata da Hegel, ci invita a considerare razionale e necessario lo
svolgersi degli eventi storici. Hegel originò un movimento e creò un paradigma.
Anche Marx si sentirà in dovere di completare il suo materialismo storico con
un materialismo dialettico che rendeva congeneri i mondi della storia e della
natura.
La forma “Si… Ma…” è composta da un giudizio di
valore e una storia. E’ la necessità di capire il perché degli eventi a indurci
a inserire la storia in una catena di necessità. E’ quasi una necessità
‘vitale’ e salvifica. Così noi parliamo di storia come maestra di vita, così
noi ‘giustifichiamo’ gli eventi. li ‘giustifichiamo’ e, sull’ambiguità
paradigmatica di quel ‘giustificare’, li connettiamo comunque con
inesorabilità. Se è la necessità a muovere, è la stessa necessità a
giustificare: quasi come se chi è obbligato a compiere un’azione, non ne avesse
responsabilità. colpa o merito, chiudendo al giudizio morale: ciò che è
avvenuto è tale perché giustificato e/o imposto dagli eventi, anche se la
narrazione storica non riesce, certo, a essere esposta come se ogni evento
fosse un teorema. Ma accanto a questa constatazione è altrettanto indubbia la
tensione verso la massima ‘comprensibilità’ intesa come necessità.
Se, invece, entriamo in una logica di
contemporaneità la guida è la logica giudiziaria.
Nella logica del processo giudiziario la catena
degli eventi e delle loro connessioni viene spezzata, perché oggetto di
giudizio sono le singole azioni, che, disarticolate dalla catena di
connessioni, perdono il loro carattere di necessità. Un’azione delittuosa viene
giudicata in quanto tale al sì o al no mentre le possibili connessioni causali,
giustificatorie, ambientali, assumono uno statuto logico di provocazione,
reazione, influenza, ecc. con precisi sensi giuridici che le porta a
intervenire nel calcolo del giudizio finale, come attenuanti o aggravanti,
ciascuna giuridicamente prevista e definita in gradazione e peso, affinché
possa entrare nel calcolo della quantità di pena attribuita per il delitto,
considerato come fatto a sé.
Naturalmente non tutte le attenuanti sono del
tipo ambientale, storico e causale. La mancanza di precedenti non ha in genere
nessun nesso causale con l’evento delittuoso oggetto del giudizio ma è in
genere “attenuante” così come l’essere commesso in associazione con altri
soggetti è in genere un ‘aggravante’ ma tutto ciò non fa che confermare la
differenza delle due logiche, anche se questo non vuol dire che nel processo
non si cerchi quello stesso tipo di comprensibilità, perchè l’insieme degli
eventi, e la loro connessione, deve essere in ogni caso capita, deve essere
comprensibile e avere un senso; questo è possibile solo inserendo il fatto
specifico in una serie di connessioni che attribuiscono senso.
Ciò che cambia profondamente è però la logica.
In quella processuale il presupposto è l’esistenza della ‘libertà’ delle azioni
e la 'responsabilità’ che le accompagna. La logica processuale è il regno
della libertà e della responsabilità, se non lo fosse non potrebbe essere
emesso alcun giudizio di condanna o di assoluzione.
Se la razionalità storica tende a instaurare il
regno della necessità la razionalità del processo giuridico è il regno
della libertà. Il passaggio dal “sì” al “ma”, segna il passaggio dalla
logica della libertà a quella necessità.
Se trasportiamo la prima concettualità nel mondo
giudiziario, avremo come conseguenza che nessun delitto può essere sanzionato,
perché l’autore del delitto risulterà sempre non libero nella sua scelta ma
costretto dagli eventi. Il mondo giudiziario non sparirebbe ma sarebbe
circoscritto al compito di accertare il delitto, di accertare l’autore (non
‘responsabile’ ma ‘autore’). Al contrario se riconosciamo una libertà
illimitata dovrebbero sparire nella valutazione del ogni tipo di attenuante. In
ogni caso assume un significato discriminatorio l’opposizione
determinismo/libertà.
Senza spingersi oltre si può concludere che un
giudizio “Si …Ma” è l’espressione di un giudizio eminentemente politico, che
deve essere compreso nella sua origine, nella sua possibilità e nel suo senso
tenendo in debito conto cosa comporti il cambio di paradigma o la confusione
dei paradigmi adottati. E’ compito del pensiero politico, svolgere quell’opera
di chiarimento e distinzione senza i quali ogni giudizio politico diventa, a
sua volta, paradigma d’incomprensione e di sistematica ambiguità.
La formula del “Si ma o no ma”. che domina i
nostri ragionamenti, i nostri giudizi, i nostri discorsi ci dimostra che ci
appoggiamo ben saldi su una confusa, indecidibile ambiguità. Noi, come Riotta,
noi, come coloro che hanno assegnato il Nobel. Non pensiamo che Handke approvi
il massacro di Srebrenica ma che abbia sempre pensato e sostenuto le sue
convinzioni secondo l’ambiguità del si ma e del no ma. Di fronte al palestinese
che si fa esplodere su un tram israeliano, all’abbattimento delle torri
gemelle, al massacro di Srebrenica, al bombardamento di Clinton e della Nato
delle città serbe, dei ponti serbi, dei treni serbi, sappiamo che
vengono emessi tanti verdetti di Sì senza Ma, di No, senza Ma e di altrettanti
Si Ma e No ma, come quello di Handke.
Se Riotta avesse parlato con qualche serbo,
anche giovane, saprebbe che per troppe generazioni di fronte alla repressione,
al sangue slavo versato dagli ottomani, durissimi nel reprimere i “partigiani”,
se avesse meditato dell’enorme valore mitico di sacrificio ed eroismo di cui si
sono caricate le battaglie perse dai serbi contro gli ottomani in Kosovo, che
proprio in virtù di questa comprensione mitica (vedi Cassirer) considerano il
Kosovo, con le sue chiese erette in memoria, territorio serbo e cristiano, se
avesse valutato quanto dentro la memoria collettiva serba era vivo. Vivo quanto
l’ordine morale che sanciva “Ora non possiamo cacciarli, ora non possiamo
ribellarci ma la nostra memoria rimane nella nostra anima di Serbi” e
invitava i padri serbi a non dimenticare e a trasmettere questa promessa a
figli e nipoti, e figli e nipoti per secoli “Non dovete dimenticare, dovere
mantenere viva la fiamma, verrà il giorno sacro della giustizia”, capirebbe
quanto valore ha avuto a Srebrenica, prima e dopo Srebrenica il “MA” serbo. Del
Resto Riotta, giornalista colto e non ignorante come tanti suoi colleghi, ha
senz’altro letto “Il ponte sulla Drina” a cui il nuovo Nobel rinvia e
l’agghiacciante, lunga, calma, descrizione dell’impalazione ottomana.
Stiamo correndo in tutto il mondo in una
successione di vendette senza fine e non è certo ciò che noi “incivili”
vogliamo. Ma c’è un’alternativa? Fascista di qui, fascista di là,
barbaro, incivile, sovranista, costruttore di muri. E ancora e ancora:
un’infaticabile corsa all’insulto ingigantitasi con la discesa in campo di
Berlusconi. Avete perfino bruciato in strada il suo ritratto. Mai un segno di
ravvedimento: i nostri scritti, i nostri saggi, i nostri romanzi che parlano di
Foibe, di repubbliche di Platone, puntualmente respinti, giacciono nei
cassetti. Neppure più li scriviamo: non servirebbe a nulla. Volete imporci una
memoria comune che poi non è altro che la Vostra falsa memoria. Noi abbiamo la
nostra e non vogliamo nessuna memoria comune. Almeno quella. Tenete almeno a
bada i vostri cani che vorrebbero imporre la vostra a suon di censure.
Nel suo BUONGIORNO dal titolo L’intransigenza
del bene, Mattia Feltri ricorda come in una lezione agli studenti
dell’università del Michigan nel 1987 Brodskij (un’altro Nobel) che il male
è umano, ammorbidendo l’affermazione con l’invito di non fare mai le
vittime, e di controllare il proprio dito indice assetato di biasimo. “Nel
momento in cui si localizza la colpa, si mina la determinazione a cambiare
qualcosa” Il giudice, e specialmente se volontario e collettivo: quello gli
faceva paura.
Quando Brodskij nella sua conferenza
realisticamente, prima di ammorbidirla, afferma che il male è umano, non fa
altro che aprire gli occhi anche all’interno di quella che si vorrebbe far
passare per la civilissima Europa, la civilissima Nato, il civilissimo Onu.
Vengono prodotti film, telefilm in cui la
vendetta, la rivalsa, (additate come giustizia) assumono la personalità di
individui offesi, a cui lo stato, la comunità, la forza della civiltà non
presta attenzione o da risposte del tutto insufficienti a placare quello che
per la società civile è barbarie e per loro giustizia. Questi commissari,
questi amici, questi parenti vendicatori anche nelle brevi frasi di presentazione
vengono presentati come giustizieri che agiscono con “Metodi anche non
convenzionali” per perseguire la giustizia. Gli spettatori escono dal film, dal
tele film con un animo placato come avessero assistito a vicende che sul
difficile crinale del male e del bene dell’ingiustizia che attende giustizia,
avessero infine assistito a un “lieto fine”, alla fine di una tensione
vissuta e placata finalmente dall’esecuzione della vendetta. In
contrapposizione le tivù di stato mettono in scena film e telefilm dove, al
contrario, avviene il lieto fine, senza il ricorso a metodi non convenzionali e
seguendo i dettami della civiltà, quella che caratterizza la civilissima
Europa, l’ONU, ecc. Anche in questi spettacoli la giustizia di stato arriva
sempre, il lieto fine, sempre. Il colpevole viene sempre trovato, o la sua
anima, soccorsa dalle provvidenziali parole, del don Matteo di turno, si pente
e confessa, accettando la giusta pena, di cui non si parla mai. Se non esiste
un don Matteo che passa il suo tempo nella caserma dei carabinieri, esiste
tutta una pletora di marescialli, di indagatori, di indagatrici, di commissari
che vivono tutti in paesotti, in contee, in cittadine con un numero di abitanti
variabile da qualche migliaio a poche decine di migliaia ma letteralmente
infestati dai delitti, uno due alla settimana o al mese, tutti brillantemente
risolti, tutti ricondotti a buon fine ad edificazione delle vecchia e della
nuove generazioni, affinché tutte le anime buone capiscano e si convincano che
il paese dei balocchi non esiste solo nel libro di Pinocchio ma è saldante
insediato nella nostra civilissima civiltà, purché questi zucconi e barbari
qualunquisti della barbarie si convertano finalmente, come il Manzoniano
Innominato non a Dio ma alla luce della società civile.
E ora guardiamo il famigerato massacro di
Srebrenica, la mattanza di Srebrenica. Una mattanza senza pietà che non è
avvenuta da un minuto all’altro ma la cui generazione si è evoluta con lentezza
davanti agli occhi volutamente distratti della civilissima Europa, rigenerata
da un passato imperialista, e anche del civilissimo, dal civilissimo Onu che
aveva addirittura le sue truppe, ben armate a poca distanza, quasi a tiro di
fucile, dalla Srebrenica maomettana, assediata dai serbi cristiani animati da
secoli di desideri di rivalsa e vendetta, in attesa del giorno in cui il sole
sarebbe sorto il sole nero.
L’ONU, la Nato, l’UE, vedevano che l’assedio
stava concludendosi, che la città sarebbe caduta e sarebbe arrivata la strage
della vendetta, ma a quelle truppe Onu non arrivò affatto l’ordine di
interposizione, di salvaguardia. Perfettamente a conoscenza di ciò che sarebbe
accaduto ipocritamente guardavano da un’altra parte e il comandante, privo di
comandi fu lasciato solo a decidere in una situazione che sotto traccia
lasciava intendere: lasciamo che, finalmente, vendetta tanto attesa avvenga.
Così probabilmente il comandante interpretò quell’incomprensibile distratta
afasia, quell’attendista disinteresse, come un ordine sottinteso che veniva
dall’alto, e non si mosse. Lui fu poi processato, ma dovevano essere processati
tutti quelli che in quella lunga attesa si voltarono dall’altra parte e
attesero.
Del resto gli ipocriti avevano dalla loro parte
uno sterminato numero di comportamenti addirittura più pesanti, anche questi
concessi come vendette. Le stragi dei soldati russi, il via libera alle
vendette dei partigiani, italiani e francesi per qualche giorno. Ma oltre al
via libera ai soldati russi e ai partigiani di ogni paese, c’erano stati altri
orrori impuniti, del tutto impuniti a cominciare dal bombardamento
indiscriminato delle città tedesche e italiane, un vero e proprio massacro non
di stabilimenti e obiettivi bellici, ma di abitati civili, di secoli di
civiltà, di monumenti, di chiese, di civili, attuato in piena consapevolezza e
portato avanti con lucida criminalità col solo obiettivo di fiaccare gli animi
dei civili e di provocare una loro insurrezione che non aveva la minima
possibilità di avvenire. Così fu bombardata Dresda, la Firenze del nord, con
l’intento della distruzione totale. Un bombardamento proseguito per giorni e
giorni su ogni suo angolo, con l’intento dichiarato di farne un mucchio di
macerie, di incendiare e polverizzare ogni cosa, rendendola irrespirabile e
mortale l’aria per la cenere, i veleni, il fuoco l’atmosfera rovente, coi muri,
le pietre, le strade che prendevano fuoco. Un bombardamento che ebbe un
testimone americano d’eccezione, che lo raccontò in un suo romanzo
testimonianza.
Leggano il romanzo-memoria di Kurt Vonnegut,
grande, umanissimo scrittore americano prigioniero in una cella a Dresda, quel Mattatoio
n 5 altrettanto efficace della Guernica di Picasso, che ben
cosciente di non poter rendere sulla tela l’orrore di quelle bombe e degli
abitanti, con un quadro realistico o cubista, ricorse alle invenzioni del
fumetto americano con un capolavoro capace di raccontare e trasfigurare. Non ci
fu un’ altra Guernica per Dresda ma il libro di Kurt Vonnegut relegato
dalla società civile degli intellettuali, quasi a bizzarro romanzo di
fantascienza.
Dopo ai serbi toccarono altre morti, altre
distruzioni quando i capi del mondo civile, Non l’Onu che non diede il permesso
e al quale neppure fu chiesto, ma la Nato scatenò le forze aeree, le bombe
dall’alto sulle truppe serbe, sui civili serbi, sulla Serbia, perfino sulla
capitale serba e sui treni serbi, per favorire l’indipendenza del Kosovo, di
quella terra sacra per i serbi per cui i loro progenitori si erano sacrificati
per fermare le orde massacratrici turche.
E i serbi hanno dovuto assistere all’elevazione
del Kosovo, del loro Kosovo coi loro santuari, a stato indipendente sotto
la protezione dell’UE che li finanziava e che di fatto li manteneva. Strana
concezione della civiltà del diritto di autodeterminazione, neppure
considerato, in Crimea, in catalogna, in Corsica, sulle montagne spagnole
abitate dai baschi, popolo culturalmente indipendente da sempre addirittura con
una antichissima lingua propria.
Di fronte alle difficoltà di un si ma che non
poteva essere ridotto a un sì senza ma, la società civile sta insistendo da
anni sulla creazione di una memoria comune pacificatrice, di una memoria
condivisa ma in modo così goffo e partigiano da renderla impossibile. Basti
pensare alle Foibe, ancor oggi dopo settantacinque anni, forse
settantasette.
Scrive Pier luigi Battista il 17-2 sul corriere
nella sua scheda Particelle elementari:
Davvero non si capisce, a 75 anni di stanza,
un’eternità, questo ottuso residuo negazionista di una parte della cultura di
sinistra sulle Foibe. Questa incredibile e testarda mitizzazione sulle migliaia
e migliaia di italiani infoibati, sull’orrore delle famiglie sterminate,, sul
fil di ferro che legava i polsi delle vittime sulla sommità di quelle voragini
per risparmiare sui proiettili si sparava a uno e se ne ammazzavano dieci.
Questa spessa coltre di imbarazzo che ancor oggi, ma perché?Impedisce di vedere
la verità storica, non sa comprendere il senso del linciaggio e dell’isolamento
con cui quasi trecentomila istriani e dalmati – poche cose raccolte nella fuga,
il terrore stampati sugli occhi dei bambini, nessuna notizia sui parenti
spariti nelle foibe - vennero oltraggiati dall’Italia, messi al bando, accolti
dall’ostilità alla stazione di Bologna, perché non avevano voluto trasformarsi
in sudditi del comunismo di Tito, il capo dei massacratori…
Non sto a riportare tutto l’articolo, visibile
sul Corriere
Di fronte a parole come queste che si può dire?
Di fronte alla prole di Brodskij che si può dire. Memoria condivisa? Che vuol
dire? Che non si ha diritto alla giustizia? No, risponderebbe la società
buonista e civile, ben sapendo che, però, che gli ottomani nei Balcani ci sono
e non possono essere cacciati.
Rinuncia all’inimicizia, al biasimo in nome di
cosa? Ancora le vittime invitate a non fare neppure le vittime a non
protestare, a dimenticare? Ad aderire in pace a una memoria comune? La società
dei colpevoli e dei loro eredi non deve fare nulla? Molti di noi si stanno ribellando
a una democrazia trasformata in un’elitaria repubblica di Platone e non c’è
nessuna marcia indietro. Nessun dovere per chi ci chiama ignoranti e barbari?
Neppure il tentativo di capire le nostre argomentazioni? No, censura, censura,
censura. I nostri scritti, che siano saggi o romanzi non arrivano mai in
libreria.
La condanna dei serbi e di Milosevic nell’Europa
della civiltà, Nell’impero del “Bene” è unanime ed è arrivata fino al tribunale
internazionale. Chi come Handke li difendeva opponendo alla logica del sì senza
se e senza ma opponeva la logica del Si ma veniva ostracizzato, additato al
pubblico sdegno, bollato come criminale.
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