giovedì 26 giugno 2014
mercoledì 25 giugno 2014
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e leggi della furiosa battaglia a Torino fra il
DEMONIO
e la
SIGNORA DELLE OLIMPIADI
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LA PARTITA A POKER FRA IL DOPPIO DEMONIO E LA SIGNORA DELLE OLIMPIADI |
Vai a La città e il demonio e leggi dei travolgenti, appassionati, vertiginosi amori tra
Giosuè e L’Alsazia,
tra la sovrintendente ai beni culturali del Piemonte e il critico Gauss
tra il teologo nero Geronimo e la cantante Annuska
tra la LA SIGNORA DELLE OLIMPIADI e il presidente di Mezza banca
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LA CITTA' E IL DEMONIO
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LA CITTA' E IL DEMONIO
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venerdì 20 giugno 2014
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WAGNER e le Valkirie di Ezio Saia
Wagner e le Valkirie di Ezio Saia
La Valkiria è devastante. I giganti e gli dei scuotono
la terra, la percuotono, volano, minacciano, si esaltano, soffrono, e con loro
ribollono i boschi, i prati, i palazzi. E’ musica degli dei. Non tutta però. Da
secoli sento solo gli ultimi 30/40 minuti del primo atto, gli ultimi quaranta
del secondo e più o meno gli ultimi quaranta del terzo. L’estrazione della
spada, l’amore, la rivelazione della dea nel bosco, la morte del guerriero e,
alla fine, l’addio del dio padre alla figlia, seguito dall’incantesimo del
fuoco.
E’ il miglior Wagner? Non lo so, ma mi scuote sempre.
Musica degli dei? Musica umana? Musica del ferro e del fuoco? musica di cuori forgiati nel ferro e nel fuoco? Nel fuoco dell’incantesimo finale?
Musica degli dei? Musica umana? Musica del ferro e del fuoco? musica di cuori forgiati nel ferro e nel fuoco? Nel fuoco dell’incantesimo finale?
Questa è musica colossale; fa pensare ai vulcani, alla
potenza della natura quando si scatena, alla potenza dei sentimenti. Wagner
arriva con un carro di fuoco, ti carica di forza e ti trasporta dal cielo alla
terra, dalla terra al cielo.
Verdi canta, piange, entra con la sua mano dentro al tuo
corpo e va a cercarti il cuore, Wagner
non deve neppure penetrarti per toccarti l’anima. La sua anima è materiale e il
suo canto solenne. Verdi canta, Wagner declama solennemente come solo gli
dei-umani e gli umani-dei possono fare.
giovedì 19 giugno 2014
Riporto un articolo di Lorenzo Leone su Foucault
Riporto un articolo di Lorenzo Leone
Michel Foucault come io l’immagino
In occasione del trentesimo anniversario della scomparsa di Michel Foucault il prossimo 25 di giugno, ripropongo qui la mia vecchia recensione all’opuscolo che Maurice Blanchot dedicò al filosofo francese. (Il riferimento è a M. Blanchot, Michel Foucault come io l’immagino, tr. it. Viana Conti, Costa & Nolan, 1997, p. 57, ed. or. Michel Foucault tel que je l’immagine, Fata Morgana, 1986. La mia recensione è uscita in ‘Magazzino di filosofia’, n. 9, anno III, 2002/C3, pp. 30-40).
In questo piccolo libro – il piccolo libro di un grande maestro – si parla di Michel Foucault – quasi l’ultimo dei maître à penser, quasi l’ultimo intellettuale da esportazione che la cultura francese abbia prodotto, l’oggetto di una messe di studi critici.
Quanta letteratura si è fatta pro e contro Foucault! Eppure pochi libri hanno la freschezza e l’intelligenza di questo libricino in cui Blanchot ripercorre per sommi capi le tappe della ricerca di Foucault a partire dal debutto, da quella Storia della Follia che all’epoca – vent’anni prima – aveva suscitato il suo plauso.
Libro con una sua qualità letteraria (che non poteva non attirare l’attenzione di un maestro della critica), Storia della follia, rileva subito Blanchot, privilegia sì una certa discontinuità nella storia (ad un certo punto un decreto impone l’internamento dei folli, dei poveri, dei debosciati), ma si tratta di una discontinuità senza rottura (prima dei folli c’erano i lebbrosi), sgonfiando così l’equivoco di una concezione ‘fratturistica’ della storia – di una storia di fratture, di ‘coupures’ alla Bachelard.
Un secondo equivoco, ma già ampiamente dissipato, concerne invece il presunto ‘strutturalismo’ del filosofo francese. L’archeologia del sapere e L’ordine del discorso, con il loro interesse per il linguaggio, per il discorso, per l’enunciato, sembrano inseguire lo strutturalismo sul suo stesso terreno. Ma, ricorda Blanchot, Foucault appare preoccupato di distinguere un a priori storico da un a priori formale. Lo strutturalismo che nega la storia (mentre Foucault non la nega), pretendendo di astrarre le leggi formali (astoriche) del linguaggio (del discorso) è ancora vittima di un ‘trascendentalismo vizioso’. Niente di tutto questo in Foucault, che della storia lascia in sospeso solo «la categoria generale e vuota del cambiamento – come afferma lo stesso Foucault – per lasciar apparire trasformazioni di livelli differenti». E allora Foucault rifiuta soltanto l’idea del grande récit, ovvero «di un grande inconscio collettivo, fondamento di qualunque discorso e di qualunque storia»; rifiuta l’idea di un senso globale e nascosto; rifiuta, mentre si dichiara archeologo del sapere, il logos dell’arché, la parola dell’origine.
Si dice anche – la questione non è slegata dalla precedente – che Foucault rifiuti il soggetto, il cogito (la nozione ‘conservatrice’ di autore). Anche su questo punto Blanchot vede più in là: non è che la sua unità «troppo determinata» a diventare discutibile «poiché ciò che suscita interesse e ricerca è in realtà la sua [...] dispersione che, ben lungi dall’annientarlo, non fa che offrirci una sua pluralità di posizioni e una discontinuità di funzioni [...]».
E così Blanchot, passando a Sorvegliare e punire – il libro con cui Foucault abbandona l’idea di un’autonomia del discorso per analizzare le pratiche ‘sociali’ che vi stanno dietro – non manca di richiamare la genealogia di questo soggetto, ricordando – con Foucault – come esso emerga dal dispositivo disciplinare: è l’attenuarsi della rozza violenza fisica, via via sostituita dalla ‘delicatezza’ della sorveglianza (nelle carceri, nelle scuole, sul lavoro), sorveglianza che invece agisce sullo ‘spirito’ o sull’‘anima’, a determinare la convinzione «di essere dei soggetti e dei soggetti liberi».
Un altro punto su cui Blanchot ha qualcosa da dire riguarda la nozione di potere: nozione difficile, perché Foucault non ha in mente il potere in generale, ma le relazioni, i rapporti di forza, il potere diffuso, parcellare. Disdegnando l’idea di un potere ‘centrale’ e ‘fondamentale’, Foucault fa saltare il binomio repressione-ideologia (o potere-sapere) nella sua apparente ovvietà. Da qui «si fa derivare ciò che viene chiamata la sua ‘apoliticità’ [...] la sua mancanza di un qualsiasi progetto di riforma universale». E tuttavia, commenta Blanchot, si dimentica come questi «grandi disegni» siano soprattutto «alibi vantaggiosi della schiavitù quotidiana».
Un punto invece su cui Foucault e Blanchot si allontanano considerevolmente interessa la figura di Sade in La volontà di sapere. In questo testo Foucault tratteggia il passaggio da una «società di sangue», in cui il potere si esercita e si trasmette appunto attraverso i legami di sangue – donde il valore del lignaggio, l’interdizione dell’incesto, la glorificazione della guerra ecc. –, ad una società «di sapere, norma e disciplina», in cui invece il potere si esercita attraverso il controllo sul sesso – donde i programmi dell’eugenismo, il problema della salute pubblica, il controllo demografico ecc. E di questo passaggio dalla legge del sangue alla legge del sesso Sade sarebbe «il testimone ambiguo e il favoloso propagandista».
Qui però Blanchot ritiene che vi sia una inconseguenza. Per Foucault, infatti, con l’esaltazione sadiana della morte propria o altrui in nome del sesso senza regole, «il sangue finisce per riassorbire il sesso». Per Blanchot è tutto il contrario: nessuna preoccupazione di preservare la purezza del sangue in Sade, ma il tentativo di «affrancarsi dalle leggi ufficiali» e unirsi tramite «regole segrete»; con Sade, «il sesso prende il potere».
Non si tratta di una questione oziosa. Con la lettura di Blanchot, Sade assume, coerentemente con gli argomenti sostenuti da Foucault, un ruolo paradigmatico: dire che il sesso prende il potere con Sade «significa [dire] altresì che oramai il potere diffuso e il potere politico sono sul punto di esercitarsi insidiosamente strumentalizzando i dispositivi della sessualità». Strumentalizzazione terribile, perché sta alla base di tutti i moderni razzismi di Stato.
L’ultimo punto di un certo rilievo concerne la psicanalisi freudiana. Si conosce la profonda antipatia di Foucault per la psicologia dell’inconscio, ma nella Volontà di sapere, nota Blanchot, essa non assume un ruolo completamente negativo. Da un lato, Foucault non vi scorge che il portato di una lunga tradizione, la tradizione cristiana, che traspone il sesso in discorso obbligando il fedele alla confessione; una tradizione che via via si laicizza e si medicalizza – «dal confessionale al divano c’è un cammino di secoli», chiosa Blanchot, ma «dal mormorio segreto, al chiacchiericcio infinito si ritrova lo stesso accanimento a parlare di sesso per liberarsene e perpetuarlo ad un tempo». Freud in questo non fa proprio nulla di nuovo. Ma Freud fu d’altra parte «l’avversario privilegiato del fascismo» perché ruppe decisamente con le preoccupazioni eugenetiche delle vecchie psichiatrie; il suo «sicuro istinto» lo portò a restaurare il dispositivo di alleanza, la legge del sangue e della consanguineità proibita a fianco della legge del sesso (nella psicanalisi l’antica legge dell’alleanza serve soltanto a fornire un fondamento al sesso). Egli, però, non tornò a «consacrare l’interdetto di cui gli importava smontare soltanto il meccanismo o mostrare l’origine (censura, rimozione, superio ecc.)».
Libro intelligente, abbiamo detto, questo di Blanchot; non un saggio critico, almeno non esattamente, benché di spunti critici ne contenga a iosa, non un’introduzione didattica, non un portrait commemorativo. Come valutare questo piccolo testo di Blanchot? Diciamo, anzitutto, che si tratta di un tributo d’amicizia: è sotto il segno di un’amicizia tutta intellettuale – i due probabilmente non si conobbero mai personalmente – che Blanchot immagina il suo Foucault. In seconda istanza si tratta di un libro di Maurice Blanchot, vale a dire di un maestro riconosciuto della critica letteraria: è eloquente che egli si sia occupato qui del più giovane Michel Foucault per riconoscergli, infine, una grandezza di pensiero. Insomma per queste e altre ragioni il libro di Blanchot sfugge a tutti gli schemi.
(Lorenzo Leone)
www.appiasnero.it
Quanta letteratura si è fatta pro e contro Foucault! Eppure pochi libri hanno la freschezza e l’intelligenza di questo libricino in cui Blanchot ripercorre per sommi capi le tappe della ricerca di Foucault a partire dal debutto, da quella Storia della Follia che all’epoca – vent’anni prima – aveva suscitato il suo plauso.
Libro con una sua qualità letteraria (che non poteva non attirare l’attenzione di un maestro della critica), Storia della follia, rileva subito Blanchot, privilegia sì una certa discontinuità nella storia (ad un certo punto un decreto impone l’internamento dei folli, dei poveri, dei debosciati), ma si tratta di una discontinuità senza rottura (prima dei folli c’erano i lebbrosi), sgonfiando così l’equivoco di una concezione ‘fratturistica’ della storia – di una storia di fratture, di ‘coupures’ alla Bachelard.
Un secondo equivoco, ma già ampiamente dissipato, concerne invece il presunto ‘strutturalismo’ del filosofo francese. L’archeologia del sapere e L’ordine del discorso, con il loro interesse per il linguaggio, per il discorso, per l’enunciato, sembrano inseguire lo strutturalismo sul suo stesso terreno. Ma, ricorda Blanchot, Foucault appare preoccupato di distinguere un a priori storico da un a priori formale. Lo strutturalismo che nega la storia (mentre Foucault non la nega), pretendendo di astrarre le leggi formali (astoriche) del linguaggio (del discorso) è ancora vittima di un ‘trascendentalismo vizioso’. Niente di tutto questo in Foucault, che della storia lascia in sospeso solo «la categoria generale e vuota del cambiamento – come afferma lo stesso Foucault – per lasciar apparire trasformazioni di livelli differenti». E allora Foucault rifiuta soltanto l’idea del grande récit, ovvero «di un grande inconscio collettivo, fondamento di qualunque discorso e di qualunque storia»; rifiuta l’idea di un senso globale e nascosto; rifiuta, mentre si dichiara archeologo del sapere, il logos dell’arché, la parola dell’origine.
Si dice anche – la questione non è slegata dalla precedente – che Foucault rifiuti il soggetto, il cogito (la nozione ‘conservatrice’ di autore). Anche su questo punto Blanchot vede più in là: non è che la sua unità «troppo determinata» a diventare discutibile «poiché ciò che suscita interesse e ricerca è in realtà la sua [...] dispersione che, ben lungi dall’annientarlo, non fa che offrirci una sua pluralità di posizioni e una discontinuità di funzioni [...]».
E così Blanchot, passando a Sorvegliare e punire – il libro con cui Foucault abbandona l’idea di un’autonomia del discorso per analizzare le pratiche ‘sociali’ che vi stanno dietro – non manca di richiamare la genealogia di questo soggetto, ricordando – con Foucault – come esso emerga dal dispositivo disciplinare: è l’attenuarsi della rozza violenza fisica, via via sostituita dalla ‘delicatezza’ della sorveglianza (nelle carceri, nelle scuole, sul lavoro), sorveglianza che invece agisce sullo ‘spirito’ o sull’‘anima’, a determinare la convinzione «di essere dei soggetti e dei soggetti liberi».
Un altro punto su cui Blanchot ha qualcosa da dire riguarda la nozione di potere: nozione difficile, perché Foucault non ha in mente il potere in generale, ma le relazioni, i rapporti di forza, il potere diffuso, parcellare. Disdegnando l’idea di un potere ‘centrale’ e ‘fondamentale’, Foucault fa saltare il binomio repressione-ideologia (o potere-sapere) nella sua apparente ovvietà. Da qui «si fa derivare ciò che viene chiamata la sua ‘apoliticità’ [...] la sua mancanza di un qualsiasi progetto di riforma universale». E tuttavia, commenta Blanchot, si dimentica come questi «grandi disegni» siano soprattutto «alibi vantaggiosi della schiavitù quotidiana».
Un punto invece su cui Foucault e Blanchot si allontanano considerevolmente interessa la figura di Sade in La volontà di sapere. In questo testo Foucault tratteggia il passaggio da una «società di sangue», in cui il potere si esercita e si trasmette appunto attraverso i legami di sangue – donde il valore del lignaggio, l’interdizione dell’incesto, la glorificazione della guerra ecc. –, ad una società «di sapere, norma e disciplina», in cui invece il potere si esercita attraverso il controllo sul sesso – donde i programmi dell’eugenismo, il problema della salute pubblica, il controllo demografico ecc. E di questo passaggio dalla legge del sangue alla legge del sesso Sade sarebbe «il testimone ambiguo e il favoloso propagandista».
Qui però Blanchot ritiene che vi sia una inconseguenza. Per Foucault, infatti, con l’esaltazione sadiana della morte propria o altrui in nome del sesso senza regole, «il sangue finisce per riassorbire il sesso». Per Blanchot è tutto il contrario: nessuna preoccupazione di preservare la purezza del sangue in Sade, ma il tentativo di «affrancarsi dalle leggi ufficiali» e unirsi tramite «regole segrete»; con Sade, «il sesso prende il potere».
Non si tratta di una questione oziosa. Con la lettura di Blanchot, Sade assume, coerentemente con gli argomenti sostenuti da Foucault, un ruolo paradigmatico: dire che il sesso prende il potere con Sade «significa [dire] altresì che oramai il potere diffuso e il potere politico sono sul punto di esercitarsi insidiosamente strumentalizzando i dispositivi della sessualità». Strumentalizzazione terribile, perché sta alla base di tutti i moderni razzismi di Stato.
L’ultimo punto di un certo rilievo concerne la psicanalisi freudiana. Si conosce la profonda antipatia di Foucault per la psicologia dell’inconscio, ma nella Volontà di sapere, nota Blanchot, essa non assume un ruolo completamente negativo. Da un lato, Foucault non vi scorge che il portato di una lunga tradizione, la tradizione cristiana, che traspone il sesso in discorso obbligando il fedele alla confessione; una tradizione che via via si laicizza e si medicalizza – «dal confessionale al divano c’è un cammino di secoli», chiosa Blanchot, ma «dal mormorio segreto, al chiacchiericcio infinito si ritrova lo stesso accanimento a parlare di sesso per liberarsene e perpetuarlo ad un tempo». Freud in questo non fa proprio nulla di nuovo. Ma Freud fu d’altra parte «l’avversario privilegiato del fascismo» perché ruppe decisamente con le preoccupazioni eugenetiche delle vecchie psichiatrie; il suo «sicuro istinto» lo portò a restaurare il dispositivo di alleanza, la legge del sangue e della consanguineità proibita a fianco della legge del sesso (nella psicanalisi l’antica legge dell’alleanza serve soltanto a fornire un fondamento al sesso). Egli, però, non tornò a «consacrare l’interdetto di cui gli importava smontare soltanto il meccanismo o mostrare l’origine (censura, rimozione, superio ecc.)».
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(Lorenzo Leone)
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L'analogia delle MUSICA di Lorenzo Leone
Dalla quarta di copertina:
L’Essai sur l’origine des langues, il breve testo intitolato L’Origine de la mélodie e le voci del Dictionnaire de musiquerappresentano la punta più avanzata della riflessione roussoiana sulla musica e sui rapporti tra musica e linguaggio. Secondo Rousseau, musica e parola assieme (in una parola il canto) sono la lingua dell’origine. Sennonché, conformemente a uno schema ricorrente in Rousseau, l’origine è anche il limite oltre il quale comincia la decadenza, la degenerazione, e musica e parola separate si trovano private del loro potere d’incanto, dei loro «effetti morali». Nessuna constatazione della malattia occidentale etnocentrica può impedire però a Rousseau di individuare le virtualità permanenti e suscettibili di riemergere del sistema linguaggio-musica.
mercoledì 18 giugno 2014
VERDI FRACASSONE
Verdi fracassone di Ezio Saia
Questa notte ancora Verdi: il primo Verdi. Non è neppure un
buon antidoto all’acufene. Senti pezzi dei Masnadieri o di Attila o di Azira e
possono pure piacerti perché sembra di riconoscere il suo piglio. Non solo! Ci sono
anticipazioni, gruppi di note e ritmi dei capolavori posteriori.
Ma sopportare un’ora o due di quelle fracassate è un’altra
cosa.
Non le reggo! Non reggo quel Verdi. E’ un’immane fracassone. Bum Bum Bam Barabam Bum e via con grancassa e tamburi e piatti e unisoni. C’è tanta buona musica senza dover ricorrere a quel Verdi. Se penso a quel Verdi non sopporto neppure i cori del Nabucco o dei Lombardi.
Non le reggo! Non reggo quel Verdi. E’ un’immane fracassone. Bum Bum Bam Barabam Bum e via con grancassa e tamburi e piatti e unisoni. C’è tanta buona musica senza dover ricorrere a quel Verdi. Se penso a quel Verdi non sopporto neppure i cori del Nabucco o dei Lombardi.
Passo al mio mp3 perché l'Ipad non piglia e quindi niente You
tube. E’ un peccato ma, comunque, approdo al Boris
disseminato qua e là in tutti gli mp3. Ora c’è Il lungo, interminabile,
tremendo, straziante soliloquio di Boris morente. Prima il soliloquio, poi la morte. Che
sofferenza immane! E che solitudine! Il tiranno muore ossessionato dal coro dei
fedeli. Ma c’è anche il commovente amore per il figlio. Il soliloquio più
straziante e forte di tutta la storia della musica.
Quello del Don Carlos Ella giammai m’amò è altrettanto forte e bello, ma è un’altra cosa.
Bello e, forse, musicalmente, addirittura più bello! Ma un’altra cosa. Sarà
per questo che preferisco quello del Boris e continuo col Boris, col canto nella
foresta, con i boiari, ecc. Un’insalata musicale; poi il ritorno a letto perché l’acufene è
cessato.
Melato e i basilischi
Ancora la Wertmuller e ancora la Melato.
Rivisto I basilischi con un orecchio impegnato da un Concerto in fa. La Wertmuller è davvero una grande regista e I basilischi è un grande film. Capacità di raccontare una storia e una cultura con accenti, profondità e giusta partecipazione. Dove è finita questa capacità?
Forse il successo avuto nei film successivi, tutti film, mi pare, con la GUITTA MELATO come protagonista, non hanno fatto bene alla regista che si è adagiata su quei successi di pubblico dimenticando la grande regista che era stata ne I Basilischi
Insomma il connubio Wertmuller-Melato è stato disastroso per la cultura e la creatività italiana e una grande regista si è persa. Purtroppo la Melato esisteva. Peccato che l’abbia scelta e che quelle pellicole abbiano avuto successo! Perché dannarsi tanto quando comunque la guitta porta al successo una commedia? Perché non adagiarsi? Ma l’attrice Melato, la testa Melato, l’artista Melato non capiva che stava accadendo?
FALSTAFF
Falstaff di Ezio Saia
Me lo sono chiesto più volte. Da dove salta fuori FALSTAFF? E’ lo
stesso Verdi che ha scritto quelle grandi tragedie? Falstaff è un miracolo!
E’ perfetto! Vivacità e invenzione senza fine. Nessuna oasi,
nessun respiro: bellezza allo stato puro! Nei ritmi, nella melodia nella
vivacità dell’orchestra, nel dosaggio dei singoli colori degli strumenti. Nulla
di tutto questo s’era mai visto in Verdi. Falstaff è quanto di meglio l’opera
possa offrirci. Wagner? Non ha un’opera così bella! Verdi? Neppure! Neppure
l’Otello, che pure è perfetto.
Continuiamo con questo Verdi. E’ di gran lunga il migliore.
Atto 1 quartetto
Borges
I racconti di Borges! Li sto rileggendo e voglio fare qualche considerazione.
Cominciamo dalla raccolta EL ALEPH. Se dovessi fare una graduatoria sceglierei:
la casa di Asterione
La scrittura del dio
Requiem tedesco
Emma Zunz
Gli altri, mi paiono più modesti, compreso il più famoso, quell’Aleph che dà il nome alla raccolta. L'ho riletto ieri notte e mi è parso noioso. Ogni racconto di Borges crea un universo e quello
creato da Al Aleph mi pare un universo banale. Non ci sono affatto quelle complesse stratificazioni magiche e geometriche, quei circoli miracolosi fra realtà
e finzione, tra vita e libri che si trovano nei suoi racconti migliori.
Della prima raccolta, FINZIONI, da cui prende nome il volume mi sembrano ottimi:
Tlon, Uqbar, Orbis
terzius
La biblioteca di
Babilonia
e quasi alla stessa altezza:
La lotteria di
Babilonia.
Pierre Menard
Le rovine circolari
De I GIARDINI DEI SENTIERI CHE SI BIFORCANO preferisco:
Funes el memorioso
La morte e la bussola
Il miracolo segreto
Opere filosofiche di Ezio SAIA- pensieri sull'arte
Compagni di Classe alla elementari
Alle elementari i primi della classe erano Domenico, un
ragazzo intelligente e generoso e Giovanni. Di Giovanni non ricordo il cognome.
Forse non lo ricordo perché Giovanni non abitava in paese e quindi ci si vedeva
solo a scuola e qualche quarto d’ora prima e dopo la
scuola. Giovanni abitava nella Frazione di Collesecchie, vicino al torrente
Fandalia, sotto l’Amiantifera. A
Collesecchie abitava anche Tancredi, cugino di Giovanni, un discolo
vivacissimo, magro e fortissimo nella lotta. Era il più forte della classe
assieme a Domenico figlio del gestore del Cinema di Corio. Tutte le volte che
mi azzuffai con Tancredi le presi senza pietà anche se lui, generosamente, non
ne approfittava.
Tutte i voti che prendeva Giovanni in Aritmetica, in Dettato, in Tema era migliori dei miei. Al massimo eravamo pari. Questa coincidenza, che
in quella piccola frazione di Collesecchie si concentrasse la Forza di Tancredi e il Sapere di Giovanni aveva per me qualcosa di eccezionale e di
magico. Vedevo Collesecchie quasi come un luogo fatato dove venivano generate La Sapienza e La Forza, Carnera e Marconi, i Tancredi e i Giovanni.
Non mi capitò più un altro amico di nome Tancredi; e quando a
scuola leggevo del Tancredi della Gerusalemme
Liberata o del dramma di Monteverdi, quel “TANCREDI” vibrante me lo rappresentavo
con il volto del Tancredi di frazione Collesecchie che, per me, ancor oggi rimane un luogo magico.
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