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Riotta - Il
nobel allo scrittore che negò i crimini di Milosevich - Il paradigma del SI... MA...
Spiace e spiace molto
criticare l’articolo di Riotta (La Stampa) sul Nobel assegnato a Peter Handke.
Spiace perché Riotta è fra i pochi giornalisti che leggono con continuità opere
letterarie contemporanee, spiace perché ha dimostrato di conoscere la teoria
grammaticale di Chomsky. Per la maggior parte dei suoi colleghi, giornalisti e
opinionisti, Chomsky è solo l’autore di trattati animati da infuocato antimperialismo
e anticapitalismo. Saranno pure importanti anche questi, ma, dozzinali, come
sono, non sarebbero neppure stati pubblicati, se Chomsky non fosse stato
l’inventore della Grammatica Generativa.
Detto ciò, mi piace poco la dura condanna di Handke e
l’altrettanto dura condanna della commissione del Nobel per averglielo
assegnato. Per Riotta la giuria ha commesso un errore storico nel trascurare i
propositi del fondatore che subordinava il premio alle motivazioni ideali. Ma
per favore non inchiniamoci a celebrare il mistico matrimonio fra etica e arte che portò
ad assegnare il premio a Giosuè Carducci in epoca di egemone culturale mangiapreti, ad
Hansum in epoca di egemone vitalismo, a Kipling in tempi in cui, dalla Società Civile,
l’imperialismo era considerata alta missione religiosa, civile e morale. Deprechiamo, invece, che quello stesso mistico premio sia stato negato a quei porcelloni
di Moravia e di Joyce, a quel fascista di Borges, a quell’altro fascista di
Celine, mettendo in forte dubbio che quei supremi accademici abbiano confuso
l’idealità con la morale alla moda. Così è stato per Carducci, per Hansum, per
Kipling, per Moravia, per Joyce, per Borges, per Celine.
Il Nobel ha sempre saputo
rinnovare le sue idealità, e cambiare. Se Riotta e, come penso, molti
editorialisti, intera Società Civile compresa, condannano, senza se e senza ma, la
generazione di Milosevich, viene il sospetto che, al contrario, i professoroni
del Nobel abbiano iniziato una revisione dei giudizi sui pensieri e sulla
azione di quegli eventi sanguinosi.
La condanna conformista in
blocco di quegli attori che riassumono i sentimenti di molti Serbi, riaffiorati
dalla notte dei tempi, e la loro condanna “Senza Se e senza Ma” mi pare ottusa:
proprio nella forma dei vari “Sì… MA…” , “No… Ma…”, così comuni nel nostro
ragionare si nasconde la realtà.
L’uso di sintagmi del tipo “No, non condanno ma ” “Si, assolvo ma…”, è
salvifico.
Con il sì si dà un
giudizio, con il ma si espone una
giustificazione o un’attenuante. La forma proposizionale del si ma gestisce non solo una logica
giudiziaria ma anche una logica politica.
Forme come “Il tale è colpevole ma era stato provocato da…..“E’
vero ma…” sono paradigmatiche e invano si tenterebbe di analizzare quel “Ma” come
una particella logica vero funzionale. La forma quando viene usata nel discorso
politico, pare composta da un giudizio di assoluzione o di condanna relativo a
un certo evento e da un racconto che tende a modificare il verdetto del
giudizio. Il racconto di cui si parla è in genere un racconto storico e segue
quindi la logica del racconto storico; ma qual è la logica del racconto
storico?
Quando ci dedichiamo alla storia, cerchiamo di capire la
concatenazione fra gli eventi. Capire vuol dire connettere in qualche modo
(catene di coordinazione, subordinazione, connessioni causali, finalistiche o
probabilistiche) affinché si possa concludere “Questo è accaduto perché in
precedenza è accaduto quest’altro”, “Agì in questo modo per queste ragioni”,
“Agì perché motivato da …”.
L'allievo che ascolta una spiegazione di storia in questo non è
diverso dal professore che la illustra: per l’uno e per l’altro l’obiettivo è
la comprensibilità, il professore
cerca di trasmetterla e l’allievo di comprenderla.
Ma che significa "comprensibilità"?
Il “Comprendere” assume significazione nel connettere fra loro gli
eventi. Non sarebbe comprensibile che una palla calciata a Roma arrivi fino a
Milano perché il lancio di una palla, il suo volo e il suo approdo sono
connessi da leggi fisiche incompatibili con un simile evento. Anche nella
storia, raccontando gli eventi, cerchiamo di connettere le azioni, gli attori,
gli esiti, in base cercando le cause, le motivazioni, i caratteri, le
situazioni, i fini e così via. Proposizioni quali: “Il tale Presidente fece
questo perché doveva reagire”, “Il tal generale si mosse nel tal modo perché
voleva raggiungere quel tal obiettivo”, ci dicono come si debba ricorrere a
tutti i tipi connessioni-motivazioni di tipo politico, comportamentale,
statistico, sociologico, psicologico, fisico, ecc. per riuscire a connettere
gli eventi in una catena o in una ramificazione di catene.
Anche se molti filosofi della
storia storcerebbero il naso, l’ideale della comprensibilità è la “necessità”.
Anche se lo si ammette con difficoltà, una serie di eventi è tanto più compresa
quanto più la catena che li connette è necessaria, ossia quanto più crea tra
gli eventi dei vincoli che escludono tutti i possibili gradi di libertà: la
storia è tanto più ’comprensibile’ quanto più le connessioni sono necessarie,
quanto più il percorso è irrigidito in una serie di ragioni e cause che non
lasciano spazio ad altre possibilità. Lo sforzo di comprensibilità assume così
le forme di una razionalizzazione secondo forme. Col nascere della riflessione
sulla storia e sulle narrazioni della storia, nasce anche la tensione verso la
razionalizzazione in forme di necessità. Se Erodoto racconta la storia come una
successione di contingenze, Tucidide racconta l’addivenire della guerra tra
Sparta e Atene come un evento ineluttabile e un destino già depositato nella
filigrana degli eventi che la precedettero. Tucidide raccontava ma non
teorizzava. La razionalizzazione della storia come teoria avvenne molto più
tardi e per analizzarla e trarne conseguenze dobbiamo ritornare al razionalismo
illuminista. Il mito della ragione illuminista permeò una cultura e questa
cultura continuò. Il romanticismo fu una reazione alla ragione astratta
dell’illuminismo ma a questa ragione astratta i romantici opposero le ragioni
della storia, delle tradizioni, dei miti, dei costumi, dei sentimenti ma in
parte la incorporarono nei loro sistemi d’interpretazione. Con
Hegel la ragione divenne la logica del comprendere e contemporaneamente la
logica dell’essere e del divenire. Per lui “Ciò che razionale è reale e ciò che
è reale è razionale”. Comunque la si voglia interpretare, questa formula più
volte richiamata da Hegel, ci invita a considerare razionale e necessario lo
svolgersi degli eventi storici. Hegel originò un movimento e creò un paradigma.
Anche Marx si sentirà in dovere di completare il suo materialismo storico con
un materialismo dialettico che rendeva congeneri i mondi della storia e della
natura.
La forma “Si… Ma…” è composta da un giudizio di valore e una storia. E’ la necessità di capire il perché degli eventi a indurci a inserire la storia in una catena di necessità. E’ quasi una necessità ‘vitale’ e salvifica. Così noi parliamo di storia come maestra di vita, così noi ‘giustifichiamo’ gli eventi. Li ‘giustifichiamo’ e, sull’ambiguità paradigmatica di quel ‘giustificare’, li connettiamo comunque con inesorabilità. Se è la necessità a muovere, è la stessa necessità a giustificare: quasi come se chi è obbligato a compiere un’azione, non ne avesse responsabilità, colpa o merito, chiudendo al giudizio morale: ciò che è avvenuto è tale perché giustificato e/o imposto dagli eventi, anche se è la narrazione storica non riesce, certo, a essere esposta come se ogni evento fosse un teorema. Ma accanto a questa constatazione è altrettanto indubbia la tensione verso la massima ‘comprensibilità’ intesa come necessità.
Se, invece, entriamo in una logica di contemporaneità la guida è
la logica giudiziaria.
Nella logica del processo giudiziario la catena degli eventi e
delle loro connessioni viene spezzata, perché oggetto di giudizio sono le
singole azioni, che, disarticolate dalla catena di connessioni, perdono il loro
carattere di necessità. Un’azione delittuosa viene giudicata in quanto tale al
sì o al no, mentre le possibili connessioni causali, giustificatorie,
ambientali, assumono uno statuto logico di provocazione, reazione, influenza,
ecc. con precisi sensi giuridici che le porta a intervenire nel calcolo del
giudizio finale come attenuanti, o aggravanti, ciascuna giuridicamente prevista
e definita in gradazione e peso, affinché possa entrare nel calcolo della
quantità di pena attribuita per il delitto, considerato come fatto a sé stante.
Naturalmente non tutte le attenuanti sono del tipo ambientale,
storico e causale. La mancanza di precedenti non ha in genere nessun nesso causale
con l’evento delittuoso oggetto del giudizio ma è in genere “attenuante” così
come l’essere commesso in associazione con altri soggetti è in genere un
‘aggravante’, ma tutto ciò non fa che confermare la differenza delle due
logiche, anche se questo non vuol dire che nel processo non si cerchi quello
stesso tipo di comprensibilità, perché l’insieme degli eventi, e la loro
connessione, deve essere in ogni caso capita, deve essere comprensibile e avere
un senso; questo è possibile solo inserendo il fatto specifico in una serie di
connessioni che attribuiscono senso.
Ciò che cambia profondamente è però la logica. In quella
processuale il presupposto è l’esistenza della ‘libertà’ delle azioni e la
'responsabilità’ che le accompagna. La logica processuale è il regno della
libertà e della responsabilità, se non lo fosse non potrebbe essere emesso
alcun giudizio di condanna o di assoluzione.
Se la razionalità storica tende a instaurare il regno della
necessità la razionalità del processo giuridico tende a instaurare il regno della libertà.
Il passaggio dal “sì” al “ma”, segna il passaggio dalla logica della libertà a
quella necessità.
Se trasportiamo la prima concettualità nel mondo giudiziario,
avremo come conseguenza che nessun delitto può essere sanzionato, perché
l’autore del delitto risulterà sempre non libero nella sua scelta ma costretto
dagli eventi. Il mondo giudiziario non sparirebbe ma sarebbe circoscritto al
compito di accertare il delitto, di accertare l’autore (non ‘responsabile’ ma
‘autore’). Al contrario se riconosciamo una libertà illimitata dovrebbero
sparire nella valutazione del ogni tipo di attenuante. In ogni caso assume un
significato discriminatorio l’opposizione determinismo/libertà.
Senza spingersi oltre si può concludere che un giudizio “Si …Ma” è
l’espressione di un giudizio eminentemente politico, che deve essere compreso
nella sua origine, nella sua possibilità e nel suo senso tenendo in debito
conto cosa comporti il cambio di paradigma o la confusione dei paradigmi
adottati. E’ compito del pensiero politico, svolgere quell’opera di chiarimento
e distinzione senza i quali ogni giudizio politico diventa, a sua volta,
paradigma d’incomprensione e di sistematica ambiguità.
La formula del “Si ma o no ma”. che domina i nostri ragionamenti,
i nostri giudizi, i nostri discorsi ci dimostra che ci appoggiamo ben saldi su
una confusa, indecidibile ambiguità: noi, come Riotta, noi, come coloro che hanno
assegnato il Nobel. Non pensiamo che Handke approvi il massacro di Srebrenica ma che
abbia sempre pensato e sostenuto le sue convinzioni secondo l’ambiguità del si
ma e del no ma. Di fronte al palestinese che si fa esplodere su un tram
israeliano, all’abbattimento delle torri gemelle, al massacro di Srebrenica, al
bombardamento di Clinton e della Nato delle città serbe, dei ponti serbi, dei
treni serbi, sappiamo che vengono emessi tanti verdetti di Sì senza senza ma,
di No, senza ma e di altrettanti Si ma e No ma come quello di Handke.
Se Riotta avesse parlato con qualche serbo, anche giovane,
saprebbe che per troppe generazioni di fronte alla repressione, al sangue slavo
versato dagli ottomani, durissimi nel reprimere i “partigiani”, se avesse
meditato dell’enorme valore mitico di sacrificio ed eroismo di cui si sono
caricate le battaglie perse dai serbi contro gli ottomani in Kosovo che proprio
in virtù di questa comprensione mitica (vedi Cassirer) considerano il Kosovo,
con le sue chiese erette in memoria, territorio serbo e cristiano, se avesse
valutato quanto dentro la memoria collettiva serba era vivo quanto l’ordine
morale che sanciva “Ora non possiamo
cacciarli, ora non possiamo ribellarci ma la nostra memoria rimane nella nostra
anima di Serbi” e invitava i padri serbi a non dimenticare e a trasmettere
questa promessa a figli e nipoti, e figli e nipoti per secoli “Non dovete
dimenticare, dovere mantenere viva la fiamma, verrà il giorno sacro della
giustizia”, capirebbe quanto valore ha avuto a Srebrenica, prima e
dopo Srebrenica il “MA” serbo. Del Resto Riotta, giornalista colto e non
ignorante come tanti suoi colleghi, ha senz’altro letto “Il ponte sulla Drina”
a cui il nuovo Nobel rinvia e l’agghiacciante, lunga, calma descrizione
dell’impalazione ottomana.
Stiamo correndo in tutto il mondo
in una successione di vendette senza fine e non è certo ciò che noi “incivili”
voliamo. Ma c’è un’alternativa?
Fascista di qui, fascista di là, barbaro, incivile, sovranista, costruttore di
muri, e ancora e ancora: un’infaticabile corsa all’insulto ingigantitasi con la
discesa in campo di Berlusconi. Avete perfino bruciato in strada il suo
ritratto. Mai un segno di ravvedimento: i nostri scritti, i nostri saggi, i
nostri romanzi che parlano di Foibe, di repubbliche di Platone, puntualmente
respinti, giacciono nei cassetti. Neppure più li scriviamo: non servirebbe a
nulla. Volete imporci una memoria comune che poi non è altro che la Vostra
falsa memoria. Noi abbiamo la nostra e non voliamo nessuna memoria comune.
Almeno quella. Tenete almeno a bada i vostri cani che vorrebbero imporre la
vostra a suon di censure.
Nel suo BUONGIORNO dal titolo L’intransigenza del bene, Mattia Feltri
ricorda come in una lezione agli studenti dell’università del Michigan nel 1987
Brodskij (un’altro Nobel) che il male è
umano, ammorbidendo l’affermazione con l’invito di non fare mai le vittime,
e di controllate il proprio dito indice assetato di biasimo. “Nel momento in
cui si localizza colpa, si mina la determinazione a cambiare qualcosa” Il
giudice, e specialmente se volontario e collettivo: quello gli faceva paura.
Di fronte a parole come queste che si
può dire? Che non si ha diritto alla giustizia? No, risponderebbe la società
buonista e civile, ben sapendo che però che gli ottomani in Croazia ci sono e
non possono essere cacciati.
Rinuncia all’inimicizia, al biasimo in nome di
cosa? Ancora le vittime invitate a non fare neppure le vittime a non
protestare, a dimenticare? Ad aderire in pace a una memoria comune? La società
dei colpevoli e dei loro eredi non deve fare nulla? Molti di noi si stanno
ribellando a una democrazia trasformata in un’elitaria repubblica di Platone e
non c’è nessuna marcia indietro. Nessun dovere per chi ci chiama ignoranti e
barbari? Neppure il tentativo di capire le nostre argomentazioni? No, censura,
censura, censura. I nostri scritti, che siano saggi o romanzi non arrivano mai
in libreria.
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