LA TEORIA RAFFIGURATIVA DI WITTGENSTEIN NEL TRACTATUS - ANALOGICO E DIGITALE
Il
punto focale della teoria raffigurativa del Tractatus
sta proprio in quest'analisi delle proposizioni dove al termine del processo il
linguaggio tocca il mondo. Ma come lo tocca? Non ci possono che essere due
possibilità: 1) l'analisi ad un certo punto si ferma perché si trova impigliata
nei limiti del linguaggio, 2) questi limiti non ci sono; l'articolazione del
pensiero rispecchia l'articolazione dell'essere.
Il
Tractatus ritiene che la seconda via
sia l’unica possibile per far sì che le proposizioni abbiano un senso e che con
il linguaggio ci si possa intendere.
Dunque linguaggio da una parte e mondo
dall'altra; il primo raffigurazione del secondo, una raffigurazione in cui la
struttura "si mostra" e non può essere descritta.
Questa
distinzione fra “dire” e “mostrare” è centrale nel Tractatus: una proposizione mostra, ma non dice la sua forma
logica. Ora è ovvio che la proposizione “Paolo ama Maria” non dica nulla
della sua grammatica perché dice che Paolo ama Maria e null’altro, ma ciò che intende
Wittgenstein non è solo che una proposizione non può dire nulla sulla sua forma
logica, ma che nessuna proposizione può dire qualcosa sulla forma logica
di una qualsiasi proposizione. Nulla di sensato può essere detto circa la forma
logica: è la proposizione a mostrare la sua
forma logica.
Per
approfondire l’opposizione dire/mostrare è opportuno analizzare sia 1) l’opposizione
fra il rappresentare analogico e il rappresentare digitale che 2) le proposizioni
predicative.
ANALOGICO E DIGITALE
Le fotografie, i solchi dei dischi musicali,
gli strumenti a indice, le trascrizioni proporzionali sono rappresentazioni
analogiche delle porzioni di mondo che rappresentano. Un pennino scrivente che
segua l’andamento di un qualsiasi fenomeno fisico (Livello di un liquido,
velocità di un’automobile ecc.) e lo riporti su un diagramma cartesiano è un
esempio di cosa sia una rappresentazione analogica (Di essa non fanno parte
naturalmente né gli assi cartesiani né le eventuali tacche sul quadrante).
Intuitivamente si può dire che le rappresentazioni analogiche seguono con
continuità e proporzionalità le porzioni di mondo che rappresentano.
Per sua natura una rappresentazione analogica non ha
zeri, non ha sistemi di riferimento, non ha numeri né rappresenta mancanze,
negazioni o oggetti. Sentiamo suonare un disco e all’improvviso la musica
cessa. Vien naturale pensare che questa mancanza di suono sia uno zero e che i
solchi non incisi rappresentino analogicamente questo zero. In realtà, questa è
effettivamente una mancanza di suono, ma non uno zero: il solco del disco
segue il suono anche nell’interruzione del suono, ossia nel silenzio; qui il
silenzio non è uno zero della musica, ma è parte integrante di quel brano
musicale che prevede proprio il silenzio come evento musicale.
Nella riproduzione sonora sono suoi “zeri” i solchi
non incisi (e quindi silenziosi) all’inizio e alla fine del brano e lo sono
proprio in virtù della funzione che svolgono. Non rappresentano nulla; non
fanno parte della rappresentazione, ma la circondano, la delimitano e ci dicono
qualcosa della rappresentazione che isolano (ad esempio, ci dicono che la
sinfonia è finita) proprio perché non ne fanno parte. Nulla che appartenga a
una rappresentazione analogica può dare informazioni su se stessa o sul
rapporto che intrattiene sul rappresentato. Nessuna porzione di fotografia o di
dipinto potrà mai informarci, non solo sulla propria o altrui natura di
fotografia o dipinto, ma anche sul proprio essere fotografia o dipinto. Al
contrario sono le cornici, i silenzi, i contorni delle rappresentazioni quegli
zeri che danno compiutezza, definizione e, quindi, possibilità di denominazione
alle rappresentazioni, consentendoci di considerarle unità di significato.
Queste unità di significato sono “oggetti”
che possono essere contrassegnati linguisticamente con “nomi”.
Quando si parla di una fotografia o di un dipinto,
si parla di “oggetti” che hanno una delimitazione (in questo caso spaziale).
Questo “essere oggetto” è già al di fuori di quel rappresentare fotografico,
pittorico o sonoro che è, di per sé, un rappresentare illimitato. E’ il
contorno, o il confine o la cornice di un quadro a definire come "oggetto" il
quadro, mentre nulla all’interno di esso potrebbe dircelo. Le rappresentazioni
analogiche diventano oggetti al di fuori del loro essere analogiche e
ovviamente non contengono oggetti. Non vi può essere in alcun quadro uno zero
se non nella cornice, né vi può essere rappresentato alcun oggetto positivo o
negativo; quindi non una “casa”, né, tantomeno, una “non casa”; non uno stato
di cose e non un “non stato di cose”. Siamo noi a oggettivare quell’insieme di
colori, segmentando e ponendo confini che permettono così di leggere le case e
le non-case. Questi oggetti non nascono senza gli zeri (nel senso sopra
indicato) così come Democrito non avrebbe potuto parlare dei suoi atomi senza
un “nulla” che li circondasse e li isolasse nello spazio.
Di fatto i passaggi
dall’analogico al digitale, ossia le trasformazioni A=>D (da analogico a
digitale), sono normali operazioni nel mondo della tecnica.
Consideriamo una
rappresentazione analogica (l’andamento nel tempo del livello di un bacino)
come quella di Fig. A1.
Immaginiamo una situazione
reale in cui si debba segnalare un livello di 3mt come livello di pericolo. Un
semplice dispositivo a galleggiante tarato sui 3 mt. trasmetterà l’informazione
accendendo, ad esempio, una lampada di segnalazione. Matematicamente ciò
equivale ad applicare alla curva del livello, rappresentata in A1, una funzione
F1 che assuma:
1) il valore 0 al disotto
del livello dei tre metri (situazione di non pericolo);
2) il valore 1 al di sopra
del livello dei tre metri (situazione di pericolo.)
La funzione F1 avrà quindi
l’andamento di fig. A2 dove compaiono la funzione F e la retta di pericolo (3
Mt.).
La funzione F1 avrà quindi
l’andamento di fig. A3, ottenuta per conversione A=>D, dove compaiono
livelli fra loro disgiunti che, proprio in virtù di queste proprietà, possono
essere accoppiati biunivocamente con segni differenziati. Si sono ottenuti
degli “oggetti” a cui possiamo assegnare “nomi". Questo è il salto,
l’operazione che, permettendo di codificare, consente di passare da una rappresentazione
a un linguaggio.
Volendo introdurre una sorta
di analogia fra il linguaggio e il processo di digitalizzazione, si può
verificare che la rappresentazione in fig. A3 rappresenta una segmentazione di
quella in A1, mentre con la rappresentazione in figura A4 realizza
l’assegnazione di un nome agli “oggetti” di fig. A3 mediante codici diversi per
oggetti diversi. L’assegnazione dei singoli codici compatibilmente con la
grammatica del codice è assolutamente arbitraria. La successione delle
operazioni raffigurate nella serie da A1 ad A4 realizza con operazioni
successive ciò che, in riferimento al linguaggio, viene indicato come segmentazione
dei significati e l’arbitrarietà dei segni.
Le rappresentazioni A1, A2,
A3, A4 rappresentano la realtà? Si può sensatamente parlare di “verità” a
proposito delle due serie di proposizioni?:
1) il livello è inferiore a
3 Mt.
2) il livello è superiore a
3 Mt
Queste proposizioni
trasmettono informazioni che potrebbero essere date altrimenti; ad esempio
mediante l’accensione di una lampada. In questo caso ad 1) e 2) corrispondono
rispettivamente le situazioni:
a) La lampada è spenta
b) La lampada è accesa
che ci danno le stesse
informazioni delle proposizioni sopra indicate come 1) e 2).
Tutti quelli elencati (le
due serie 1, 2, 3- a, b, c, ) rappresentano, secondo il Tractatus, “stati di cose” che, condividendo la forma logica, sono
in grado di essere usati per significarsi gli uni con gli altri. Non stupisce
quindi che Wittgenstein vedesse in questa “condivisione di forma logica” la
ragione per cui si possono trasmettere informazioni utilizzando quei “fatti”
particolari che sono le proposizioni.
Ovviamente la “porzione di
realtà” rappresentata, quella del bacino, è tutt’altra cosa da una lampada che
si accende e si spegne. Abbiamo costruito di quella realtà un modello finalizzato a evidenziare le situazioni di
pericolo e non pericolo.
L’operazione di
conversione è funzionale all’informazione richiesta. Il fine proposto
(l’identificazione del momento “pericolo”) è stato effettivamente raggiunto. Si
è passati da una raffigurazione a una serie di informazioni. Ma
cosa si è effettivamente ottenuto? Non avevamo già queste informazioni nella
curva A1? Non solo le avevamo ma, passando da A1 ad A4 si sono perse tutte le
informazioni ad eccezione di quelle per cui l’operazione è stata condotta. Ma tutto ciò cosa vuol dire?
Il punto focale
sta proprio nel concetto di fine collegato a quello di informazione. C’è
informazione solo quando ci sono differenze discrete. Queste vengono prodotte per realizzare un fine
informativo e generano oggetti. Nel senso di questi oggetti entrano la
storia della loro generazione, il fine e il loro utilizzo.
Come si è visto
per il Tractatus le proposizioni non
condizionano il mondo e il mondo rappresentato dalle proposizioni non contiene
residui linguistici. Dunque proposizioni da una parte e mondo dall’altra.
Comunque la si teorizzi, una concezione raffigurativa deve funzionare come uno
specchio, deformante quanto si vuole, della realtà. La raffigurazione di
Wittgenstein nel suo mostrare, nel suo essere disinteressata e contemplativa,
nella sua impossibilità di dire è straordinariamente simile alla
rappresentazione analogica, mentre non si parla di quel rappresentare digitale
che sicuramente è in grado di “dire”. Una funzione, quella del “dire” che non
può essere ottenuta se non avendo con il mondo un rapporto di manipolazione
violenta.
Siamo quindi di
fronte a due metodi di rappresentare quello analogico-raffigurativo e quello
digitale-informativo che sono in grado di illustrare il senso di
quell’opposizione DIRE/MOSTRARE che Wittgenstein introduce nel Tractatus .
Tutte le
rappresentazioni analogiche, raffigurando, MOSTRANO e non sono in grado di
DIRE: nessuna rappresentazione analogica può dire nulla non solo circa la
propria struttura, ma neppure circa quella di una qualsiasi altra
rappresentazione analogica o digitale. Le rappresentazioni digitali,
informando, possono, al contrario, solo DIRE. E’ bensì vero che qualsiasi
rappresentazione digitale o analogica può essere non solo letta, ma anche
riprodotta come rappresentazione analogica di se stessa ma ciò non cambia nulla; dipende, infatti, da come la si
guarda, poiché nell’attimo stesso in cui la consideriamo come analogica,
l’informazione scompare e la notazione perde il suo valore di segno e di
simbolo.
Raffiguratività delle
proposizioni.
Wittgenstein non fornisce,
nel Tractatus una definizione del
termine “proposizione” ma le “cose” che considera proposizioni e a cui,
conseguentemente, applica la sua analisi sono troppe, troppo diverse e
troppo disomogenee fra loro: per il Tractatus
sono proposizioni, non solo quelle linguistiche, ma anche gli spartiti, i
solchi dei dischi, le fotografie, i quadri e le disposizioni spaziali di tavoli
e sedie. Questa disomogeneità è la possibile fonte di fraintendimento fra le
proprietà del “dire” e del “mostrare”.
La notazione di uno spartito di un brano musicale avviene con simboli
discreti, mentre i solchi di un disco di vecchio tipo che di quel brano rappresentano la
registrazione di una sua esecuzione, costituiscono una rappresentazione
analogica; i solchi seguono con continuità, e quindi analogicamente,
l’esecuzione che hanno memorizzato, non così le pagine dello spartito. Questa
diversità, che non viene registrata nel Tractatus,
è chiaramente da addebitarsi a una non riconosciuta distinzione tra il
rappresentare ANALOGICO e il rappresentare DIGITALE. Mancando questo
riconoscimento Wittgenstein viene indotto a compiere quel madornale errore che
consiste nel trasferire al secondo le proprietà del primo.
Le motivazioni che spinsero
Wittgenstein verso il modello raffigurativo sono complesse. Wittgenstein
detestava non solo la teoria dei tipi, ma in generale tutta la filosofia
espressa dai Principia, sovraccarichi
di teoria e, nonostante tutta la loro teoria, incapaci di evitare il ricorso al
linguaggio comune per puntualizzare, definire e spiegare quella stessa teoria.
Lo scopo del Tractatus si definisce
anche e soprattutto in funzione di una revisione della Logica che non abbia
bisogno di un’altra teoria che la spieghi e di ulteriori teorie che
giustifichino quella teoria. Per ottenere questo risultato è necessario che la
logica “mostri se stessa” Quando Wittgenstein scoprì le proprietà analogiche
della raffigurazione, ossia la sua capacità di “mostrare” e quella di non poter “dire”, dovette
pensare di aver scovato il suo uovo di Colombo, perfettamente funzionale ai
suoi scopi; non solo, come per incanto, spariva la necessità di ogni teoria di
ordini e di tipi, ma anche tutto quell’assurdo proliferare, in
verticale, di teorie, di teorie sulle teorie ecc. Disgraziatamente questa
proprietà di poter “mostrare “ e di non poter “dire” può essere sensatamente
affermata solo in riferimento alle rappresentazioni analogiche o a quanto di
analogico vi sia in quelle ibride, ma non in riferimento ad altri tipi di
rappresentazioni.
Ignorando l’opposizione analogico/digitale, Wittgenstein viene erroneamente indotto a trasferire al digitale (capace di “dire”) le proprietà dell’analogico (che può solo “mostrare”) e di concludere quindi che non solo una proposizione non può dire nulla sulle propria forma logica ma nessuna proposizione può dire qualcosa sulla forma logica di una qualsiasi proposizione. Sfugge a Wittgenstein la differenza tra linguaggio e
rappresentazione e, in particolare, sfugge quel concetto di differenza
informativa discriminante tra una rappresentazione analogica e un sistema
informativo.
Il Tractatus non fa altro che adeguarsi a una sopravvenienza
preteorica, in virtù della quale nel lungo cammino dell’uomo sociale le
articolazioni del mondo in oggetti e fatti (Mondo- linguaggio) sono andate convergendo con le
articolazioni del linguaggio in nomi e proposizioni (Linguaggio-Mondo), in un percorso di
reciproca assimilazione fra mondo-linguaggio e linguaggio-mondo. Un’articolazione non troppo
diversa da quella messa in atto dal giardiniere che trasforma il bosco e i rovi
in articolato ordine di aiuole e sentieri.