Giovani camaleonti 68
ELITE AL LAVORO |
Nel ’68 non partecipai alla prima occupazione del rettorato
all'università, ma all'occupazione dell’aula di fisica del giorno successivo. Non conoscevo nessuno e non feci amicizie ma scambiai qualche parola con
cinque o sei persone e capii che erano studenti di legge o di lettere come del
resto si capiva dai loro discorsi.
Erano di famiglia bene come si vedeva dai
loro vestiti. Erano in buona parte figliolanza
di quell'élite borghese di avvocati, medici, cattedratici che dominava Torino.
Quella notte vennero gli agenti chiamati dal rettore per
sgombrare l’aula e, vista la nostra resistenza passiva, ci portarono fuori di
peso, registrarono i nostri dati dai documenti d’identità e tutto finì li.
Sere dopo, in seguito a una convocazione, ritrovai gli stessi
volti. Non ricordo qual’era la motivazione della “chiamata alle armi” ma, a
sera inoltrata, andato a monte il programma, il gruppo, già piccolo, si sciolse e ci ritrovammo, io coi cinque o sei rimasti, a casa di uno di loro a far programmi e parlare. Parlavano loro, che si conoscevano e si chiamavano per
nome, e io mi limitai ad ascoltare, intimorito da loro e dal lusso della casa.
Parlavano a ruota
libera, in un vernacolo tutto loro infarcito di termini in greco e
latino; un vernacolo che testimoniava che si conoscevano bene, che venivano
tutti dal liceo classico e che avevano studiato il greco.
Mi fece grande impressione il lusso antiquario della casa,
ma al di là dello stupore iniziale, della grande collezione di dischi, del bel pianoforte, della libreria
in legno istoriato, dei vetri in cristallo inciso, dei pavimenti in legno, furono
gli strani discorsi rivoluzionari a suscitare perplessità.
Ho già detto del vernacolo e dei termini greci ma era tutto
il complesso di cose, di discorsi, di battute a rivelare la loro natura
aristocratica di gente che era stata allevata per emergere come élite, per dominare, per occupare cattedre universitarie, primariati, ecc., secondo una sorta di diritto ereditario.
Ebbene quei figli di élite, quegli aristocratici polli di
famiglia, avevano paura. Paura di chi? Paura di noi. Facevano la rivoluzione ma
solo per una sorta di reazione, per non perdere il loro posto al sole, per
essere sempre all'avanguardia, per porsi a capo di ogni movimento, per
proteggere le LORO plance di comando e, se necessario, per occupare le nuove
plance.
Erano discorsi da principi ereditari, da aristocrazia dei
privilegi, da gente che si era sempre trasmesso di padre in figlio posti di
comando come giudici, come inquisitori, come prestigiosi e cari avvocati
difensori, come professori universitari, ecc.; gente che aveva assistito in
quegli ultimi anni all'emergere minaccioso di leggi che minavano le
fondamenta della loro eredità e che intravedevano l'arrivo dei nuovi barbari.
Del resto ciò che vedevano doveva essere, dal loro punto di
vista, orrore puro: una vera calata di
barbari che in pochi anni avrebbero invaso le ricche praterie di cui loro, con le
loro famiglie, erano, quasi per diritto ereditario, padroni e amministratori.
Non solo cinque anni prima era stato deliberato il libero accesso a tutte le facoltà
universitarie (alle LORO facoltà universitarie) a geometri, ragionieri e periti industriali ma una minaccia ancora maggiore, veniva dai
loro cugini poveri e meno nobili che frequentavano i licei scientifici. Quei licei scientifici che erano ormai una
marea travolgente.
Mentre i classici erano stazionari, né poteva essere
diversamente, perché erano i LORO LICEI, gli scientifici stavano esplodendo. Praticamente
ogni anno si apriva un nuovo liceo scientifico secondo una progressione inarrestabile.
Una marea che avrebbe esondato, una valanga pronta a uscire
dalle aule universitarie con le loro lauree di ingegneria, medicina, legge, economia commercio. Gente ambiziosa e volitiva, pronta a
contendere con loro nei concorsi, nei colloqui, nelle professioni, nello stato,
nelle banche. Una marea che faceva paura. Non potevano
certo contendere i posti “loro” da generazioni per dritto dinastico, non
potevano entrare nei loro “studi dentistici”, nei “loro studi
legali”, nei loro studi commerciali, fiscalisti, finanziari, ma potevano aprire
altri studi e contendere i “LORO” clienti.
Ciò che per me era processo di democratizzazione, per loro era una sirena di allarme che suonava e alla quale stavano reagendo.
Avevano paura e la paura si percepiva. Tutti erano pronti a reagire, a cambiare strategie, a porsi a capo dei nuovi barbari, a salire tanto sulle LORO vecchie plance di comando che sulle
nuove. Tutti pronti a fare LORO quella rivoluzione e a trasformarla nella LORO rivoluzione, da quei veri camaleonti che erano, da quei veri gattopardi che erano. Camaleonti e gattopardi, sì, ma di gran razza e frutto di una “provvidenziale” educazione al potere e alla lettura delle vie del potere.
I veri cambiamenti rivoluzionari c’erano stati ed erano quei
provvedimenti legislativi, ma non ci fu quella sera nelle loro parole alcun
accenno, alcun riconoscimento alla democraticità anti-élite di quelle leggi. Ci fu solo qualche battuta maligna verso i nuovi avvocati, i nuovi ingegneri, i nuovi barbari
senza greco, senza latino, senza struttura culturale.
Penso che il loro successo ci sia stato ma solo parziale. Se
non altro si è ampliata, diffusa e differenziata la cabina di comando. Penso
ugualmente che le élite siano un cancro ineliminabile e che oggi più che mai la
democrazia vada praticata anche da chi non ci crede. La lotta contro le élite deve essere costante e feroce quanto la loro rapace e soverchiante
volontà di stare comunque “sopra”. Le fondazioni, la cultura, l’infiltrazione
nei partiti, negli uffici, nello stato, nei consigli di amministrazione, nelle
finanza, nelle università, nella selezione dei mestieri e delle attività testimoniano
la loro costante e tenace risolutezza, coltivata nei salotti silenziosi e
ovattati del vero potere.
Vanno combattuti in tutte queste attività a cominciare dalle
università.
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