Ciò detto ci porta ai costi. Il
rock, i concerto rock, non ci costano nulla anzi sono redditizi per le tasse
che pagano, mentre la musica “colta” e in particolare l’opera lirica, il
mostruoso complesso dei teatri, è costosissimo e a pagarlo siano noi contribuenti.
Chi va all’opera paga un biglietto d’ingresso di gran lunga inferiore al costo,
la differenza la pagano in egual misura chi all’opera ci va e chi non ci va e
non vedo perché chi non ci va, (me compreso dal giorno dell’evento Strehler), debba pagare per chi ci va.
L’unico ragionamento a
giustificazione può essere che l’Opera e l’Italia vanno a braccetto, che
l’opera è un prodotto che aiuta tutta l’industria italiana, il design italiano,
la moda italiana, il turismo italiano, ecc. Sono solo in parte d’accordo ma,
con tutto ciò, non vedo perché questa differenza fra costo e prezzo del
biglietto debba pagarla chi non ci va che non usufruisce dello spettacolo o chi
ne trae vantaggio, ammesso che ne tragga, perché non vedo proprio come chi
frequenta le spiagge italiane, le montagne italiane, le città d’arte, chi viene
in Italia a fare i bagni, a salire sulle montagne a visitare monumenti e musei,
non verrebbe in Italia se i tredici o quattordici teatri d’opera nonché i vari
e numerosi festival di musica classica e lirica fossero la metà, se i loro
costi non fossero stratosferici, se i carissimi Wonder Men, gli eccezionali
Uomo ragno e Superman, parlo dei nostri Registar e Conductstar, non fossero
strapagati e celebrati come nuovi dei, se i vari direttori, i vari consigli
d’amministrazione, i vari sovrintendenti, le varie fondazioni, ciascuna col suo
presidente, vicepresidente, consiglio di amministrazione, non fossero
ridimensionati all'ottanta, novanta per cento o, addirittura, con una totale
riorganizzazione aboliti.
L’ottocento musicale non aveva
questi favolosi registar e conductstar eppure la gente andava all’opera e non
vedeva certo porcherie. Gli spettatori assistevano alle opere di Rossini,
Donizetti, Verdi, Boito e questi erano i nomi per cui la gente andava in
delirio non certo per i direttori d’orchestra, i registi o gli scenografi. Chi
non ci crede legga i diari di quell’autentico amante dell’opera che fu
Stendhal, che, incaricato come diplomatico, ne parla diffusamente.
E’ rimasto, ad esempio, in Italia
il nome di Mariani, sul quale certi acuti critici si buttarono per sostenere
che le opere di Verdi erano somme, eccezionali, straordinarie ma solo perché le
dirigeva Mariani. Ma Verdi era Verdi e quando ci fu da dirigere l’Aida, a cui
molto teneva Mariani, che aveva diretto il Lohengrin a Bologna, su di lui Verdi mise il veto. L’Aida fu un
trionfo e tale rimane anche senza Mariani. Perché l’opera, la melodia, il
dramma erano tutti nella sua musica e nel suo senso teatrale, al massimo
Mariani poteva essere un traduttore più o meno fedele. Nell'ottocento, nell'era delle grandi opere, dei grandi compositori, della grande arte non sentirono
come oggi, era di poca arte, di pochi e piccoli autori, la necessità dei vari
Batman-Mazinga conductstar dei vari Mandrake-Goldrache, Registar e del
variopinto direttorame d’ogni genere. Allora si componeva arte e poesia, oggi
si interpreta e si guadagnano iperboliche cifre interpretando, variando,
massacrando come parassiti le altrui smisurate grandezze. Mediocri parassiti
che non lasceranno nulla se non le loro traduzioni del genio altrui, osannati
da altrettanti mediocri spettatori, critici, politici che quei loro mediocri Dei
li riempiono di denaro. L’arte dà da mangiare come dice un ministro? Forse a
qualche mediocrità ne da un’esagerazione, a me e ai molti altri che, come me, amano
la musica, amano chi l’ha composta, il loro genio, non dà affatto da mangiare
ma preleva. Mangiano i sovrintendenti, i direttori dei teatri, i conductstar, i
registar, ecc. e in minor misura - molto minore - i violinisti, gli scenografi,
i sarti, ecc. e i fruitori spettatori.
O i palazzi dell’Opera si
prendono cura dell’Opera e l’opera si prende cura di se stessa, o morirà,
neppure di morte onorevole ma di morte meritata. O acquisterà la capacità di
reggersi economicamente anche accettando compensi meno onerosi, meno sfarzo,
meno organico, meno fiori, meno amenità turistiche o continuerà sulla strada
del declino.
Non propongo di abolire l'opera e
di chiudere i teatri; il mio discorso è rivolto a ridurre i costi e a favorire
la nascita di una cultura favorevole alla composizione artistica e non solo
alla riproduzione. Il sistema di riproduzione deve reinventarsi, ma anche i
trascurati compositori devono reinventare le loro modalità di comporre e
aprirsi a una strumentazione più elettronica, meno numerosa, meno costosa, più
potente. Entrambi devono inventare risparmi, inventare l’uso dei mezzi
elettronici di produzione, di riproduzione e di amplificazione del suono.
Entrambi devono almeno in parte scendere dal loro piedistallo, demitizzare i
nuovi falsi Dei, directstar, conductstar e interpreti in genere, e volgere lo
sguardo verso ciò che considerano basso e popolare, come, ad esempio, il mondo
del rock e i suoi modi di suonare, di utilizzare la strumentazione, di far
spettacolo.
Come fare una rappresentazione,
come utilizzare la tecnologia, come fare tante rappresentazioni, come
ridimensionare i registar e i conductstar, come costruire un terreno fecondo
per la composizione? Queste sono le domande che ci si deve fare.
I registar e i loro dispendiosi fan
sostengono di aver salvato l’opera, di aver abolito certe ridicole maniere dei
cantanti di muoversi sulla scena, di aver attualizzato l’opera. Certamente al
Metropolitan non è successo e l’opera gode di ottima salute.
Cominciamo dalla rivendicazione
dell’abolizione di certe ridicole maniere di muoversi sul palco.
Da giovane vedevo i cantanti che si
mettevano una mano sul cuore, che allargano le braccia, che facevano quei
movimenti convenzionali che i registi vedono oggi, appunto, solo come
convenzionali, come ridicoli ma le cose non stanno come le vedono loro. Tutta
l'opera è una convenzione, trasformare i movimenti dei cantanti sulla scena in
movimenti realistici o, peggio, falsamente simbolici non ha senso. La mano sul petto è una rappresentazione cerimoniale,
simbolica, espressiva; il forzato realismo dei
tribolati registi d'oggi, con i loro aggiornamenti non contestuali non lo sono.
Assoldare dispendiosi registi perché insegnino ai cantanti i movimenti come se
fossero attori di prosa, non ha senso. Quei movimenti del braccio sul cuore,
delle braccia allargate, ecc. fanno parte della mistica dell'opera come il buio
in sala chiesto da Wagner. Quelle opere sono nate con quel Dna, sono nate assecondando
quei movimenti, assecondando tutti i movimenti e le posizioni mediante le quali
la voce poteva dispiegarsi e quelli altamente significativi e simbolici come,
appunto, la mano sul cuore. L'opera con le sue pazzie assumeva il significato
di un rito. Non sostengo che il mondo dell’opera non debba subire mutazioni ma
nego che la messe in scena tradizionali siano false e ridicole. Ripeto: tutta
l’opera è una convenzione che giudicata con occhio realistico può apparire
demenziale. Che Traviata in fin di vita senza fiato canti a piena voce è
un’evidente irrealistica impossibilità non è pazzia: questa è la
convenzionalità con cui l’opera si è formata e a cui ha avuto il suo
straordinario successo. L'unica cosa che il regista deve fare è assecondare
questo rito, celebrare questo rito e meno che mai fare assumere al cantante
posizioni che danneggiano l'esplosione del canto per accontentare occhi che
vogliono posizioni realistiche, nuove, provocatorie, falsamente simboliche.
Non sono migliori le regie del giorno
d'oggi quando trasformano e falsano l'opera. Si comincia, addirittura a
mormorare contro i cantanti troppo grassi o troppo piccoli o non belli come
richiederebbero miti come quelli di Didone, di Otello, di Sigfrido? Cosa
faremo? Non li manderemo in scena perché offendono la vista? Perché la parte
della bella sigaraia esige una bella sigaraia? Poveri i nuovi Pavarotti! Che
parte verrà riservata ai grassoni come Pavarotti? Nessuna ovviamente. Al
massimo quelle tipo Falstaff. Siamo seri! Mica si può offrire alla nostra elite
un Pavarotti per la parte di Guglielmo Tell, di Sigfrido o di Otello! Il
palcoscenico d'opera diventerà una sfilata di modelle o modelli o resterà un
palco per cantanti?
Passo al secondo argomento: che
senso ha rendere l’opera contemporanea? Forse che il teatro di prosa attualizza
la tragedie di Shakespeare, di Goldoni, di Plauto? Oggi no, ma se continua
questo andazzo inculturale, lo farà. Forse che il regista veste Arlecchino di
un competo di giacca e cravatta? Non mi dilungo perché questo è un campo
minato, perché la tecnologia consente soluzioni e graficismi altamente
simbolici che per molte opere possono funzionare, ma questo simbolismo reso
possibile dalle nuove tecnologie grafiche che c’entra con l’attualizzazione,
col rappresentare Otello da generale novecentesco? Il ridicolo sta nel fatto
che con certi abiti, certe messe in scena, si canti con le parole originali
mentre non si rappresentano gli eventi originali: non solo ridicolo: sono
decontestualizzazioni falsificanti.
A Torino qualche anno fa un regista
arrivò a falsificare la trama delle Salome di Strauss: nel finale non viene
giustiziata Salome ma la matrigna. Questa è pretenziosa falsificazione e nulla
più. Criminale direi. Una falsificazione dell’opera di Oscar Wilde e di quella
di Strauss.
Un manifesto per una nuova cultura
musicale deve suggerire sia soluzioni per la rappresentazione del passato
sia nuove idee ai compositori. Idee che
permettano loro di sconfiggere quel pigro, falso, elitario pubblico, adoratori
di falsi dei, di mandarli a quel paese e di conquistare un nuovo pubblico,
perché il vecchio è stupido e ingessato senza speranza nelle sue svenevoli
sciccherie. A questo pubblico va detto solo "Per voi neppure più un
soldo"
Soluzioni per questa incresciosa
situazione sono possibili. Non si possono chiudere otto, dieci teatri,
risanando coi licenziamenti, ma una soluzione si deve trovare. Possibilmente
una soluzione che risolva anche l’annoso problema dell’assenza
dell’insegnamento musicale nelle scuole italiane, una soluzione che vivifichi
il terreno da cui possano nascere nuovi autori, una soluzione che veramente
esplori i giacimenti e non si fermi alla comoda superficie dell’opera
ottocentesca. E se bisogna licenziare, bisogna avere il coraggio di farlo,
trovando anche nell’istruzione musicale, una parte della soluzione
occupazionale. I denari non vanno sprecati ma devono essere a disposizione di
chi è in grado di farli produrre e partecipare a imprese che non assorbono
fondi ma pagano tasse.
La soluzione più ovvia è quella
di diminuire il numero delle rappresentazioni, ma, se un teatro d’opera deve
comunque pagare un’orchestra, un direttore fisso, un’impresa di sarti,
scenografi, anche quando non lavorano, diminuire le rappresentazioni serve a
poco. Meglio appaltare e riutilizzare e questo è possibile se si torna a un
concetto del teatro in cui non esistano gli Stabili con il loro organico di
stipendi fissi ma le rappresentazioni arrivino tramite una compagnia
viaggiante che ha un luogo di produzione unico con organico di regista,
direttore, scenografi, pittori, sartoria ecc..
Se abbiamo dieci allestimenti in
dieci teatri d’opera con dieci titoli diversi, i costi di dieci complessivi dal
direttore generale all’ultimo degli impiegati, passando per i musicisti, il
direttore d’orchestra, la squadra addetta alla messa in scene della scenografia
è enorme.
E’ altrettanto evidente che un
solo complesso che porti un’unica opera in sette - otto teatri senza
spendersi in sette, otto serie di prove, in sette, otto sartorie, in sette,
otto scenografie, ecc. con gli stessi cantanti e la stessa orchestra costa
molto meno. Da una parte una sola serie di prove orchestrali, musicali,
registiche, con gli stessi costumi, dall’altra otto allestimenti, otto prove
d’orchestra, otto sartorie, otto preparazione di scenografie, ecc.
Certo ci sono in più le spese di
permanenza, trasloco, viaggio e a questo punto i conteggi sono aperti ma non
molto: vedere se sia conveniente e quanto lo sia, non tocca a noi. Per me la
chiusura e la discussione a bocce ferme è la sola possibilità.
Ogni considerazione non può che
partire dal che l’opera, diffusa in ogni parte del mondo, è stata inventata in
Italia e, dall’Italia, ha conquistato tutti i luoghi della civiltà occidentale,
espandendosi, poi, da questa al resto del mondo. L’Italia è terra di grandi
civiltà, quella etrusca, quella sicula e sicana colonizzata dalla civiltà greca
e cartaginese, quella romana, quella cristiano-papale, quella rinascimentale di
Venezia e Firenze. Civiltà che hanno disseminato monumenti, chiese, quadri,
musiche, opere letterarie, scoperte scientifiche, teorie filosofiche e, tra queste,
l’Opera in musica, che è uno dei suoi più duraturi e riconosciuti gioielli. Di
questa ricchezza di civiltà il made in Italy ha potuto giovarsi in maniera
permanente e se ne giova tuttora. Se ne giova l’industria della moda, che
quella del cibo che quella turistica. Non si può semplicemente abolire il
rinnovarsi di questa gemmatura per motivi economici, ma non si può neppure
accontentare l’attuale comportamento scellerato, l’attuale esibizionismo, l’attuale
alterigia, la spasmodica fame di guadagno e di mungitura dei soldi dei
cittadini da parte di una classe culturale parassita in due sensi, parassita di
ciò che grandi compositori fecero in passato e parassita dell’economia e del
lavoro dell’attuale classe di cittadini. Gemmare significa rappresentare, far
rivivere il passato, e fertilizzare il terreno per la fioritura del presente di
opere grandi come quelle del passato.
Un programma culturale musicale
non può che usare il martello per ricondurre a limiti patologici l’egoismo
sterile e parassita e la cura della fertilità del terreno perché i semi gettati
diano frutti nuovi e rigogliosi.
Quanti teatri d’opera? Quanti ne
servono per conservare il prestigio dell’Italia operistica inventrice
dell’opera? Che scala di importanza va attribuita ai vari centri di quella che
viene chiamata produzione musicale ma che in realtà non produce nessuna nuova
composizione ma solo repliche, sperpero e parassitismo? I grandi centri storici
sono Venezia (dove lavorarono Monteverdi, Cavalli e Vivaldi e dove nacque
l’imprenditoria teatrale), Roma (dove produssero Carissimi, Scarlatti, Rossini,
dove ai primordi venne messa in scena la rappresentazione di Anima e corpo di
Emilio del Cavaliere, dove lavorarono Caccini, Peri coi loro primi embrioni
d’opera, Rossi Cesti, Milano ( la scala è il teatro d’eccellenza del
romanticismo), Napoli (patria o patria d’elezione musicale di compositori come
Paisiello, Cimarosa, Piccinni, A. Scarlatti, ecc. dove produssero anche Rossini
e Donizetti) . Ma quattro sono troppi, oltre l’importanza storica bisogna
attenzione al bacino di utenza. Se i bacini di utenza di Milano e Roma sono
appena discreti quelli di Napoli e Venezia non lo sono. Due grandi teatri
d’opera con funzioni di produzioni di alta qualità sono sufficienti, quattro
sono tollerabili. Agli altri nessuna produzione autonoma, nessun dispendioso
organico fisso, ma rappresentazioni la cui regia, i cui scenari i cui costumi
sono realizzati da uno e più centri di produzione. Il
denaro risparmiato sia destinato a creare un terreno fertile per nuovi
compositori, sia per resuscitare quel tanto decantato patrimonio fossile che oggi
fossile è e fossile rimane.
I templi della lirica devono
perdere la puzza sotto il naso e trasformarsi così come devono trasformarsi e
perdere l’aristocratica puzza sotto il naso i compositori che devono parlare agli
ascoltatori, non ad una elitaria e ristretta conventicola di privilegiati.
Anche il sistema dei conservatori deve riformarsi: e’ inammissibile che non si
studino strumenti elettronici. Non possono vivere nel passato ormai
remoto. Teatri d’opera, conservatori,
compositori che, se non sono in grado di cambiare, vanno abbandonati al loro
destino. Del resto sembra proprio che non siano adatti ai grandi compositori.
Verdi fu bocciato all'ammissione, Wagner era un autodidatta, Berlioz ebbe a
dichiarare di essersi inventato compositore nonostante la frequenza al
conservatorio. Si in venti in liceo musicale e una facoltà musicale che abbia
come scopo non solo la creazione di esecutori ma che stimoli alla composizione.
In Germania e in Italia le case
editrici musicali indicevano annualmente concorsi che premiavano l’opera di un
giovane. Durò finche durò poi morì il che è comprensibile perché i risultati
esigui non compensavano le spese elevate. Ancor oggi quei concorsi vengono
visti come inutili e deludenti. Ma come si fa a conservare una simile opinione
quando in Italia generarono Cavalleria Rusticana e in Germania Palestrina? E
Mascagni non è solo Cavalleria e Pfitzner non è
solo Palestrina. Anche se non lo dice con difficoltà crearono due scuole Dopo
cavalleria venne Pagliacci, e non solo Pagliacci. Facendo il bilancio le spese
per i due concorsi generarono grandi risultati.
I teatri d’opera e di prosa non
possono e non devono gravare sui contribuenti. Non devono rappresentare una
forma di parassitismo culturale ed è veramente ora che gli spettatori che li
frequentano siano meno egoisti e a loro volta parassiti.
Oltretutto il gioco non vale la
candela, Le commedie, le tragedie scritte per il teatro in televisione
raccolgono un numero miserevole di spettatori. Pochi, ben pochi, pochissimi, si
fermano sul canale se questo trasmette tragedie di Sofocle o commedie di
Goldoni. Eppure i testi sono gli stessi, ben ripresi e con bravi attori.
Coloro che frequentano i teatri
parlano di atmosfera, di incanto del rappresentazione sul vivo ma la
giustificazione non regge di fronte alla spese. Anche una partita è tutt’altra
cosa se vissuta allo stadio rispetto al salotto di casa, o il bar in
televisione; ma mica coloro che vanno allo stadio fanno pagare il biglietto
allo stato e a noi contribuenti!
Oltretutto se possiamo affermare
che chi va alla partita o la guarda in televisione è sempre partecipe non
altrettanto possiamo dire del teatro di prosa o del teatro musicale dove spesso
prevale si va per portare come vanto l’evento o per il ridotto o per sfoggiare
l’abito della festa o l’elevatezza culturale.
I giornali con i suoi adulanti
giornalisti tendono a magnificare con titoli e frasi a effetto “Mostra il cuore
della tragedia”, “la illumina” “nessuna sa far risuonare gli ottoni come lui”
magnificando le performance perché solo performance sopra e autori e titoli
sono sempre i soliti.
Se veramente gli spettacoli
fossero quelle meraviglie celesti, divine magnificate negli articoli non si
capisce perché gli spettatori non debbano pagare un biglietto più caro per
godere di simili meraviglie. I teatri forse sono pieni per i prezzi bassi ma
molti preferisco i prezzi doppi, tripli di una serata in un buon ristorante.
Una sera di Traviata non vale una
cena? neppure una cena? Chiudiamo i teatri non val la pena di tenerli aperti e
mantenere un tale esercito di parassiti registar, conductstar, attori
saltimbanchi, sarti, impiegati, ecc.
Se si chiudono i teatri forse
scompare il teatro di prosa forse rimarrà ma solo se vivificato da nuovi autori
e nuove opere. Senza di loro non siamo noi a chiudere i teatri ma i teatri a
chiudere se stessi e a rassegnarsi alla loro importanza del tutto marginale
nella cultura.
Ho conosciuto il teatro prima
come lettura che come rappresentazione. La lettura mi esaltava. Sofocle,
Molière, Strimberg mi appassionavano nella lettura come i grandi romanzi di
Tolstoj, di Steinbeck, di Malraux, due anni di abbonamento alla stabile in
giovane età mi hanno solo deluso.
Quasi la stessa cosa mi è
accaduto con la musica. Riuscii ad andare poche volte alle prove generali al
Teatro Nuovo di Torino dove assistei al Guglielmo Tell con piacere anche perché
ne conoscevo numerosi pezzi dalla radio. Con questo voglio dire che per moli di
noi la musica e l’opera sono stati e sono tuttora eventi auditivi. Comprava a
mille lire l’uno i dischi alla Standa e pur nella ridotta scelta ci trovai le
sinfonie 3, 5, 6,7 9 di Beethoven, ecc.
I ricchi snob abbonati del Regio
potevano dire quel che volevano, ma io potevo alzare, abbassare il livello di
suono come volevo. Iniziare da dove volevo, sospendere come volevo. La
tecnologia era entrata e entra sempre di più anche nella musica ed è inutile
tapparsi gli occhi.
I teatri d’opera con i loro
stitici Rigoletti e Traviate impoveriscono enormemente la musica. Una musica
senza passato e senza presente. Appresi da molto giovane che esisteva un
passato della musica che per me era Gino Latilla et similia leggendo le
dispense del Milione, forse i frequentatori e i gestori dei teatri d’opera con
tutta la loro pompa non hanno mai letto qualcosa di simile alle dispense del
popolare Milione. Ironizza sui grandi
capi che dirigono i teatri mettendo in dubbio che conoscano Paisiello. C’è di
peggio recentemente un regista d’opera ha tranquillamente ammesso di ignorare
che fosse esistito il compositore Paer (scusate se mancano i due puntini)
Per decenni quando i libri già si
stampavano, molti aristocratici preferivano i carissimi scritti a mano, perché
avevano un fascino totalmente assente in quelli stampati. Questi gusti radical
chic non hanno certo resistito, ma oggi i libri elettronici non sfondano con
l’aristocratico mondo dei lettori. Capita come per la frequentazione dei
teatri: la è l’incanto magico del posto ma anche il piacere di essere visti,
qui il piacere del toccare la carta ma anche l’orgoglio radical chic di
mostrare la biblioteca di casa.
I compositori e l'élite musicale
quella che abita ai piani alti del fasullo grattacielo della cultura musicale
devono prendere atto, che la cultura popolare musicale rock-pop è fondata su
strumenti elettronici capaci di grandi manipolazione tecnica e di grandi
amplificazioni, quelle stessi che usano le band del rock nei loro concerti. Il
compositore deve scendere dalla nuvole a terra e utilizzare le risorse
disponibili. A Venezia Monteverdi, che non poté usare le grandi risorse
orchestrali e gli splendori della corte di Mantova, si adeguò. Si adeguò e
seppe farlo anche con quel capolavoro assoluto che è L’incoronazione di Poppea. Con questo non mi sogno neppure di
screditare l’opera di avanguardismo e i loro prodotti. Le opere di Alban Berg, Wozzeck e l’incompiuta Lulù e sono state coronate da un
meritato successo, da una meritata lode e sono capolavori, appena al di sotto
l’orgiastico e incompiuto Mosè ed Aronne di
Arnold Schoenberg, Delle conquiste di entrambi questi autori bisogna tener
conto, pur non accettando l’integralismo di Mosè e Aronne.
Poche ultime parole per irridere
a certe pretese. Il teatro al cinema e in televisione non funziona. Non
funziona, non ha mai funzionato non funzionerà mai. Eppure l’Edipo è lo stesso
Edipo, la locandiera la stessa locandiera che danno a teatro. Cosa cambia il
capolavoro non è più il capolavoro? Non lo è? Non lo è mai stato? Neppure
Shakespeare funziona in televisione; gli ascolti che raccoglie sono ridicoli.
La televisione, il cinema non sono degni dei testi teatrali?
Ci vuole una nuova cultura: abbiamo bisogno di una nostra casa editrice. Mobilitiamoci.